Più o meno di strada tra Roma e Napoli, Gaeta è uno di quei posti dove un runner trova tutto ciò che può desiderare: un lungomare pulito e ordinato, per gli amanti della corsa in piano, e il promontorio del monte Orlando, per chi preferisce i saliscendi.
Quando passo da queste parti, mi piace alloggiare sulla costa un poco prima del centro di Gaeta, dove il lungomare è meno curato, ma c’è sempre un minimo di marciapiede con cui raggiungere la città vecchia e il promontorio. Posso così partire di corsa quando è ancora buio, riscaldarmi con qualche chilometro di strada con lo spettacolo dell’alba sul mare, raggiungere il promontorio e iniziare la salita al monte Orlando alla luce del giorno.
Il monte Orlando non arriva a 200 m, ma offre scorci fantastici su Gaeta vecchia, sul golfo di Gaeta e sulla falesia della Montagna Spaccata: luoghi magici, le cui origini affondano nel mito. Da qui si vede il Circeo, il promontorio identificato con Eea, l’isola di Circe: presso la maga che trasformava gli uomini in bestie Ulisse rimase, ospite e amante, per un anno del suo lungo viaggio nel Mediterraneo. Anche Enea passò da queste parti e fu proprio lui, secondo Virgilio, a dare il nome alla città, dopo avervi seppellito la nutrice Caieta. Dante ricorda entrambi gli episodi nel XXVI canto dell’Inferno, dove il racconto di Ulisse comincia così: “Quando / Mi diparti’ da Circe, che sottrasse / Me più di un anno là presso a Gaeta, / Prima che sì Enea la nomasse”.
Se volete esplorare il promontorio, percorrete il lungomare fino alla scuola nautica, dove la strada finisce, e prendete il vicolo lastricato che prosegue in salita a piccoli tornanti. Superate le ultime case, con terrazze dalla vista invidiabile, e la torre del castello Angioino, vertiginosamente a picco sul mare; scegliete poi la strada a sinistra che continua a salire, sempre a tornanti, fino a diventare sterrata. Nel parco del monte Orlando troverete sentieri ben segnati, terrazze panoramiche e, nel punto più alto, un mausoleo romano perfettamente conservato.
Consiglio: non andatevene da Gaeta senza avere reintegrato con la tradizionale tiella al polpo!
Poco battuta e sconosciuta ai più, la val Brevettola merita decisamente una visita. I piemontesi l’avranno distrattamente incrociata salendo in auto verso i più popolari laghi della valle Antrona, mentre qualche runner potrebbe avere sentito parlare della skyrace che si corre ogni estate su questi sentieri: si tratta, in ogni caso, di un giro poco “mainstream”.
Il team val Brevettola
Con Michele, Irene e Martin decidiamo di approfittare di un bel sabato di ottobre per provare il giro della gara. La stagione è semplicemente perfetta: a questa quota, poco meno di duemila metri nei punti più alti, non ha ancora nevicato, ma fa abbastanza fresco da non doverci portare enormi scorte d’acqua.
Si parte dal piccolo borgo di Montescheno, a settecento metri. Ci sono una ventina di posti auto gratuiti in piazza, strategicamente vicini a un bar, a una fontana e persino a un bagno pubblico. Il giro comincia lungo la strada in leggera salita, superando la chiesa e un paio di tornanti. Cominciamo poi a salire per mulattiere che tagliano i tornanti, seguendo i bolli ancora evidenti della skyrace e i ricordi di Michele che, da bravo piemontese, questa gara l’ha già corsa più di una volta.
Pendenze impegnative.
Il tratto su mulattiera finisce ben presto: seguiamo brevemente la strada in leggera discesa per andare a imboccare il sentiero, dove comincia la salita vera e propria. Ci sono diverse indicazioni, ma il percorso da seguire è quello segnato dai bolli di colore arancione.
Questa salitona, oltre 1300 m nei primi 7 km, si divide in tre parti: un primo strappo piuttosto lungo e ripido nel bosco fino all’alpe Ortighè, a 1400 m circa, dove si tira brevemente il fiato con un tratto pianeggiante e corribile; una seconda salita altrettanto ripida, questa volta con una bella vista su sconosciute cime svizzere, che termina in un bel traverso corribile; infine un ultimo breve strappetto, appena cento metri di dislivello, per raggiungere l’alpe Ogaggia (1977 m).
Salita dall’alpe Ortighè all’alpe Ogaggia.Traverso corribile e super panoramico.
All’alpe Ogaggia il saggio Michele ci ricorda di rabboccare le flask, perché ci aspetta ora un lungo tratto in cui non incontreremo altra acqua.
Ultimo rifornimento d’acqua all’alpe Ogaggia.
Finalmente un po’ di discesa: perdiamo quasi trecento metri in una vallata ampia e completamente deserta. Le indicazioni da seguire sono quelle per il passo Arnigo.
Discesa dall’alpe Ogaggia verso il passo Arnigo.
Comincia ora la salita più ripida di tutto il giro: sono solo trecento metri di dislivello, ma la pendenza la rende davvero impegnativa.
La salita più impegnativa di tutto il giro.
Arriviamo così al passo Arnigo (1990 m), dove ci concediamo una pausa e una merenda prima della meritata discesa. La discesa, a dirla tutta, dura poco: solo un chilometro e mezzo, poi si sale di nuovo, mentre alle nostre spalle si apre uno scorcio spettacolare sulle montagne innevate della Svizzera.
Forse il punto più panoramico di tutto il giro.
Raggiungiamo il passo di Saudera (1890 m) e, da qui, riprendiamo a scendere lungo un sentiero relativamente semplice. Perdiamo quota fino al colle del Pianino (1620 m), da cui si dipartono due sentieri che portano ugualmente a Montescheno: noi seguiamo il C04 per cima del Moncucco, come nel percorso della skyrace. Dopo un breve falsopiano si scende a tutta nel bosco, incrociando un alpeggio e qualche baita. Nell’ultima parte ci orientiamo solo grazie ai bolli della gara, anche perché il sentiero non è in ottime condizioni e in alcuni punti si alterna alla strada. Ma ben presto siamo a Montescheno, pronti per stappare quattro birre alla salute di un altro gran bel giro in ottima compagnia!
Tra Italia e Francia sempre in quota, per ammirare da tutti i lati la montagna “a forma di montagna”.
Pian della Regina (1800 m) – Pian del Re (2020 m) – Buco di Viso (2880 m) – refuge du Viso (2460 m) – col de Valante (2815 m) – rifugio Vallanta (2450 m) – passo Gallarino (2726 m) – rifugio Quintino Sella (2640 m) – Pian della Regina.
Gli anelli, quelli belli! Era da anni che puntavo il Gran Tour del Monviso e un bel sabato di settembre, freddo e terso come piace a me, sono finalmente riuscita a organizzarlo. Ringrazio sin d’ora i miei cavalieri per un giorno, Michele e Andrea, compagni ideali per una corsetta senza pretese, decine di foto e chiacchiere a iosa al cospetto del Signor Viso.
Il team Monviso.
Il Monviso è tanto bello quanto remoto e, da Milano, richiede un viaggio piuttosto lungo. Con una sveglia assassina siamo riusciti a parcheggiare davanti al rifugio Pian della Regina, sopra Crissolo, alle 8,30 del mattino. Non avevo considerato il tempo che Michele necessita per cambiarsi, ma insomma per le 9 eravamo in marcia. Il giro si può fare in senso orario o antiorario e noi abbiamo scelto quest’ultima opzione – che ci ha regalato una prima salita molto dolce e una discesa finale piuttosto cattiva, forse meglio invertire?
Partenza da Pian della Regina.
Dal rifugio Pian della Regina, che dispone anche di un’area camper e di piazzole per le tende, si prende la stradina in discesa che sembra dirigersi proprio verso il Monviso, poi il sentiero in salita verso destra. La prima tappa è il Pian del Re, dove arriva anche la strada: dobbiamo farci largo tra le auto e gli escursionisti in partenza, ma superato il parcheggio torniamo subito sul sentiero.
La chiesetta di Pian del Re.
Con qualche sorpasso strategico ci portiamo in pole position su una salita davvero comoda, facile e morbida, seguendo le indicazioni per Pian Mait e Buco di Viso. Dai cartelli scopriamo di trovarci anche sul percorso della GTA, la Grande Taversata delle Alpi: da ogni giro nasce sempre lo spunto per il successivo.
La prima salita è facile e morbida.
Man mano che guadagniamo quota il sentiero si fa più roccioso, senza mai diventare eccessivamente tecnico. Ci stiamo avvicinando al Buco di Viso, la galleria dove si entra dall’Italia e si esce in Francia. Consiglio la frontale per l’attraversamento, anche se si tratta solo di un centinaio di metri: siamo quasi a 2900 m di quota, le temperature sono polari e il fondo è ghiacciato. Attenzione: l’accesso è vietato ai cani.
Freschino nel Buco di Viso.
Dopo un glorioso ingresso in territorio francese, cominciamo a scendere in una valle aperta e molto panoramica. Un ruscello d’alta quota ci accompagna lungo la discesa e ci fornisce il primo rifornimento d’acqua, anche se al refuge du Viso non manca poi molto.
Refuge du Viso.
All’esterno del rifugio, come ci era stato detto, troviamo una fontana a cui rabboccare le borracce e anche un minuscolo e grazioso WC.
WC ad alta quota.
Ci aspetta ancora un bel tratto in leggera discesa, con vista spettacolare sul versante francese del Monviso, prima di cominciare a inerpicarci per un sentiero roccioso, ma non troppo impegnativo, verso il col de Valante.
In salita verso il col de Valante.
Se tra il Pian del Re e il Buco di Viso abbiamo superato decine e decine di escursionisti, quassù siamo soli al cospetto del Re di Pietra. Ce lo godiamo in pace prima di cominciare la discesa per il Vallanta, il secondo dei tre rifugi lungo l’anello del Monviso. Anche qui c’è una fontana esterna, coperta di ghiaccio ma con acqua ancora corrente.
Fontana al rifugio Vallanta.
Dal Vallanta perdiamo quota lungo un sentiero che si trasforma via via in una stradina sterrata, noiosa ma veloce. Per la prima volta dalla partenza ci troviamo sotto i duemila metri e in un bosco: il sentiero da seguire, ora in salita, è l’U10 per passo Gallarino e rifugio Quintino Sella. Dopo qualche centinaio di metri di dislivello usciamo dal bosco e torniamo ad ammirare un panorama d’alta quota, in un ambiente che diventa sempre più lunare via via che ci avviciniamo al passo.
Verso il passo Gallarino.
Si alza il vento e la temperatura percepita si abbassa notevolmente, ma questa è la parte del giro che mi è piaciuta in assoluto di più. La salita è quasi finita e un bel tratto di sentiero corribile, con qualche saliscendi, ci accompagna fino al passo Gallarino. Qui si prosegue verso sinistra in discesa, verso il rifugio Quintino Sella, e il Monviso ricompare alla nostra sinistra in tutto il suo splendore.
Un’altra faccia del Monviso.
Ben presto arriviamo in vista del rifugio e del lago blu cobalto ai suoi piedi: per raggiungerli dobbiamo affrontare ancora un breve tratto di salita. Ci fermiamo al rifugio il tempo di rabboccare le flask e scambiare due parole con alcuni dei tanti alpinisti che oggi hanno raggiunto la vetta Monviso: molti altri stanno arrivando per provarci domani, o anche solo per ammirare dal basso il Re di Pietra.
Discesa su pietraia.
Affrontiamo l’ultima salitella, facendoci largo tra una processione di escursionisti e scalatori, e poi comincia finalmente la discesona finale. Siamo pronti a lasciare andare le gambe, ma la prima parte del sentiero è una pietraia dove da correre c’è ben poco. La vista in compenso è spettacolare: ogni curva ci regala uno scorcio nuovo e impagabile.
Man mano che perdiamo quota il sentiero diventa più corribile, anche se ne posso dire di averne visti di più semplici. Il dislivello è tanto ma finalmente arriviamo in vista prima del Pian del Re, poco più in alto alla nostra sinistra, poi del Pian della Regina, con il suo rifugio e la concreta promessa di una birretta fresca.
Su e giù per boschi, borghi pittoreschi e trincee della Grande Guerra, con scorci meravigliosi sul lago Maggiore.
Casalzuigno – Aga – Pozzopiano (981 m) – Vararo – Pizzoni di Laveno (1015 m) – rifugio Adamoli – San Michele – forte di Vallalta – Arcumeggia – Marianne – Casalzuigno.
Finalmente di ritorno sui sentieri, decido di esplorare le montagne tra la Valcuvia e il lago Maggiore: mi aspetto di trovarvi un ambiente silenzioso e selvatico, meno frequentato rispetto alle più popolari cimette del Campo dei Fiori, e disegno un giro con qualche chilometro su asfalto per recuperare il tempo che inevitabilmente perderò a scavalcare gli alberi caduti sui sentieri.
Se volete provare a ripeterlo, ecco i miei consigli:
Usate la traccia gpx, che ho ripulito dagli errori di percorso. Molti sentieri sono ben segnati, ma in alcuni punti ci si perde e non c’è anima viva a cui chiedere indicazioni.
La discesona su asfalto si può tagliare con sentierini di cui non ho verificato le condizioni. Non essendoci passaggio, non sono sicura che vengano puliti, ma volendo esistono.
Il sentiero Arcumeggia-Duno, che pensavo invece di trovare in buone condizioni, è franato e in questo momento non lo consiglio. Dovrebbe essercene un altro per scendere da Arcumeggia verso Casalzuigno, oppure si può optare di nuovo per la strada asfaltata.
Altri sentieri che qualche mese fa erano impraticabili sono stati ripuliti: nonostante il poco passaggio, c’è qualcuno che si prende cura di questi boschi! Lascio quindi nella traccia il sentiero franato, sperando che in futuro venga ripristinato.
Partenza da villa Bozzolo.
Il parcheggio più comodo da cui partire è quello, gratuito, della Villa della Porta Bozzolo, un’impressionante villa cinquecentesca gestita dal FAI. E non sarà l’unico pezzo di storia che incontrerò in questo giro. Guardando la villa, si prende la stradina a sinistra che attraversa il piccolo centro di Casalzuigno. Trovo delle indicazioni per sentiero 3V (Via Verde Varesina) e altre per Aga, prima tappa del percorso.
Mulattiera da Casalzuigno verso Aga.
Prendo dapprima una mulattiera in salita a sinistra del torrentello, che poi attraverso per proseguire verso Aga. Un sentiero taglia un paio di curve, per il resto seguo la strada e arrivo ben presto a questo minuscolo e grazioso borgo, a 500 m di altezza.
Aga, prima tappa.
Raggiunto il piccolo abitato, svolto a sinistra e supero le poche case, trovandomi ben presto sul sentiero per Pozzopiano. Oltre ai soliti bolli bianco-rossi, ce ne sono altri giallo-verdi, che penso appartengano al sentiero 3V. La salita nel bosco è facile e piacevole, ma dal numero di alberi sradicati capisco che dietro a questo bel sentiero c’è un lavoro immenso di ripristino dopo le tempeste dell’inverno.
Sentiero da Aga a Pozzopiano con doppi bolli.
Arrivo senza problemi a Pozzopiano (981 m), seconda tappa del mio giro, dove i cartelli danno Vararo, la tappa successiva, a 3 ore di cammino. Dopo avere attraversato il prato, occhio a prendere il sentiero che sale ripido nel bosco e non la stradina pianeggiante poco più in basso. Senza salire in cima al monte Nudo – di dislivello in questo giro ce n’è già abbastanza per le mie gambe poco allenate! – proseguo in piano nel bosco, che nel punto più alto è un vero campo di battaglia.
Bosco devastato dalle tempeste dell’inverno.
Dopo avere scavalcato qualche tronco e una ruspa parcheggiata, non trovo altri ostacoli e scendo lungo una stradina sterrata a tornanti in direzione passo Cuvignone. Con il senno di poi, sarebbe stato più bello passare dal vicino monte Crocetta, indicato al bivio, e di lì scendere a Vararo: peccato non averci pensato prima. Arrivo alla strada asfaltata e, senza raggiungere il passo Cuvignone, prendo il facile sentiero in discesa per Vararo.
Sentiero per Vararo.
Finalmente la vista si apre e le montagnette della Val Cuvia si mostrano in tutto il loro splendore.
Discesa panoramica verso Vararo.
Arrivo infine in paese, sperando di trovarvi dell’acqua: mi imbatto subito in un lavatoio, dove in realtà di acqua non ce n’è, ma trovo in compenso l’inquietante pupazzo di una lavandaia.
Lavatoio con finta lavandaia a Vararo.
Perplessa e assetata, supero le ultime case perdendo via via le speranze, ma alla fine c’è per fortuna una fontanella funzionante davanti al piccolo cimitero poco fuori dal paese. Riempio le borracce e proseguo in leggera discesa in direzione Casere. Lungo la strada, tra tante ordinate villette dai giardini impeccabili, trovo una casa che pare quella del Cappellaio Matto – forse l’autore della lavandaia di prima?
Cappellaio Matto?
Da Casere prendo il sentiero che sale ai Pizzoni di Laveno, quarta tappa del mio giro e vera attrazione della zona, dove incontro parecchi escursionisti. La cresta dei Pizzoni è l’unica parte un po’ tecnica del percorso, ma anche quella più panoramica.
Lago Maggiore dai Pizzoni di Laveno (1015 m).
La maggior parte degli escursionisti si ferma alla croce dei Pizzoni, ma trovo qualcuno anche sul sentiero che da qui porta al passo di Cuvignone. Girando sempre intorno al passo, che non raggiungo mai, scendo verso il rifugio Adamoli. Da qui, accendo la musica e mi armo di pazienza: mi aspettano diversi chilometri di strada a tornanti in discesa fino a un primo bivio, dove svolto a destra per Arcumeggia, e poi in piano fino al bivio per San Michele.
Stradina in salita per San Michele.
Qui mi aspettavo, a dire il vero, uno sterrato: invece la salita è ancora su asfalto, regno di ciclisti e di rumorosi motociclisti. Pazienza, un po’ correndo e un po’ camminando la percorro tutta e, dopo avere scollinato, prendo finalmente un sentiero segnato con il numero 9, non pulitissimo ma corribile, che scende verso San Michele, dove incrocio prima un bar-ristoro e poi una bellissima chiesa romanica.
Chiesetta romanica a San Michele.
Sono alla quinta tappa e ben oltre la metà del mio giro, con 20 km e buona parte del dislivello già fatti. Approfitto di una fontanella per riempire di nuovo le flask e riparto tranquilla in direzione Vallalta e Arcumeggia. Attraverso il minuscolo abitato e trovo un bel sentiero con qualche saliscendi, facile e corribile.
Sentiero 206/3V per il forte di Vallalta.
Scopro dai cartelli che da queste parti, durante la prima guerra mondiale, correva la linea Cadorna e, dopo un bivio dove proseguo lungo lo sterrato in salita, incontro alcune delle postazioni del forte di Vallalta.
Forte di Vallalta.
Dai cartelli mi sembra di capire che il forte vero e proprio di trovi poco oltre queste grotte e che si possa raggiungere tramite un sentiero, il 260, che ne percorre tutte le postazioni. Io proseguo invece in salita lungo il 206/3V e alla prima occasione abbandono la stradina sterrata per quella che mi pare una scorciatoia. Qui occorre seguire la traccia gpx, perché ci sono diversi sentieri e le indicazioni sono poche. Quello giusto sale dapprima molto ripido, poi sempre più morbido nella pineta, fino a incontrare una strada asfaltata che non capisco a che serva; qui proseguo ancora in salita nel bosco, su traccia sempre più fievole ma pur sempre visibile. Alla fine una discesa mi deposita su un altro sterrato, la vista si apre e la salita pare terminata.
Fine della salita.
Ricompaiono le indicazioni del sentiero 206 per Arcumeggia, ultima tappa del mio giro: le seguo trotterellando in discesa prima su un noioso sterrato, poi lungo un sentierino che mi conduce direttamente in paese. Arcumeggia, più che un semplice borgo, è una galleria d’arte a cielo aperto che meriterebbe una visita a parte: se vi interessa saperne di più, potete trovare qui qualche informazione.
Un affresco di Arcumeggia.
Riempio un’ultima volta le flask e mi avvio lungo la mulattiera in leggera salita che porta verso Duno. Anche qui si incrociano diversi sentieri, ma una volta imboccato quello giusto mi rilasso: sembra in ottime condizioni e già mi immagino di raggiungere l’auto in una mezz’oretta. Dopo averne già percorso una buona parte, trovo però il sentiero interrotto da una frana. Decido che attraversarla è troppo pericoloso e riesco ad aggirarla dall’alto, ma sconsiglio di ripetere l’operazione. Anche perché, superato il punto critico e raggiunta la mulattiera in discesa che mi deve riportare a Casalzuigno, scopro che si tratta di un’orribile striscia di cemento accidentata e con pendenza 25%, una gioia per i miei quadricipiti! Meglio trovare un’alternativa, se volete il mio parere.
Lido di Gavirate – chiostro di Voltorre – Comerio – Barasso – Luvinate – Il Poggio (507 m) – Velate – monte San Francesco (789 m) – stazione funicolare (1040 m) – monte Tre Croci (1084 m) – piazzale Belvedere (1120 m) – forte d’Orino (1139 m) – parco Morselli – lido di Gavirate.
Per cominciare bene l’anno e godermi le ultime ore di ferie, decido di salire al Campo dei fiori con un giro che sia il più semplice e rapido possibile: in tutto tre ore, di cui l’ultima al buio.
Il percorso è estremamente corribile, con l’eccezione della vertiginosa scalinata per la stazione della funicolare, che concentra 200 m di dislivello in 200 m di sviluppo! Il sentiero per il monte San Francesco è attualmente interrotto da piante cadute che richiedono un aggiramento macchinoso e fanno perdere un po’ di tempo, ma confido che presto sarà liberato; in alternativa, si può passare dal Sacro Monte allungando di poco il giro.
Chiostro di Voltorre.
Il percorso comincia dall’ampio parcheggio gratuito di fronte ai canottieri di Gavirate. Da qui seguo la pista ciclo-pedonale del lago di Varese tenendo il lago sulla destra fino alla deviazione, bene indicata, per il chiostro di Voltorre: lo trovo aperto e colgo l’occasione per entrare a dargli un’occhiata. Proseguo poi di corsa lungo stradine poco trafficate in leggera salita, attraversando le frazioni di Comerio e Barasso prima di prendere la strada statale, questa sì un pochino trafficata, ma con marciapiede, fino a Luvinate. Qui abbandono la statale e mi inoltro nel parco del Campo dei fiori, sempre su asfalto e in leggera salita fino alla località Il Poggio.
Alla località Il Poggio comincia il sentiero.
Finalmente l’asfalto cede il posto a un facile sentiero, che conosco per averlo già percorso in mountain bike. Prima in leggera salita, poi in leggera discesa, arrivo a Velate dove, se non erro, si trova l’ultima fontanella utile. Da qui seguo le indicazioni del sentiero 309 verso la località Monte San Francesco.
A Velate prendo il sentiero 309.
Dopo un ultimo tratto su asfalto, il 309 prosegue su sterrato e la salita si fa un poco più ripida. Il sentiero è sempre più sconnesso, come se vi fossero passate delle moto. Scavalco qualche tronco e mi trovo, in un punto, ad arrampicarmi su per il bosco per aggirare degli alberi caduti.
Alberi caduti sul sentiero 309.
Superato questo ostacolo, però, raggiungo senza ulteriori disagi la località Monte di San Francesco e successivamente la strada asfaltata. Seguo la strada verso destra per poche centinaia di metri, con una bella vista sul Sacro Monte, fino a raggiungere la scalinata per la stazione della funicolare.
Scalinata per la stazione della funicolare.
Non è la prima volta che la percorro: nota per essere la salita più tosta del Campo dei Fiori Trail, risulta sempre allenante, e un buon modo per mettere insieme parecchio dislivello in poco tempo. Il sole è ormai tramontato e, alle mie spalle, il Sacro Monte si sta illuminando.
Il Sacro Monte dalla stazione della funicolare.
Raggiunta la cima della scalinata, proseguo su pendenze più dolci seguendo la mulattiera chiamata “via sacra”, con targhe dedicate ai caduti dei vari corpi militari e non, fino al monte Tre Croci.
Monte Tre Croci (1084 m).
Da qui la vista spazia sui laghi e sui monti innevati del confine italo-svizzero, che sicuramente si vedrebbero meglio se non fosse nuvoloso e quasi buio, ma anche così il panorama non è affatto male.
Seguo ora il sentiero 301 in direzione piazzale Belvedere e forte di Orino. Una breve discesa mi porta a una strada asfaltata, che seguo per un breve tratto – prima in discesa, poi in salita – fino al belvedere, che trovo più affollato di quanto immaginassi a quest’ora.
Piazzale Belvedere.
Da qui in avanti seguo la strada militare, che è sterrata, ma pur sempre una strada: circa 4 km praticamente pianeggianti, facili e corribili, che portano al forte di Orino. Devo ormai procedere con la frontale accesa, ma il terreno è semplice e privo di insidie.
Strada militare per forte di Orino.
Giunta ai piedi del forte di Orino, mi risparmio l’ultima salitella per arrivare al punto panoramico: al buio non si vedrebbe comunque granché, e non sono sicura di avere caricato di recente la frontale. Prendo dunque il sentiero 13 in discesa a sinistra, che attraversa una zona un po’ triste con alberi morti da anni a causa di un parassita (a voler vedere il lato positivo, non c’è lo strato di foglie che in questa stagione rende insidiosi gli altri sentieri). Al primo bivio, ignoro il cartello che vorrebbe farmi proseguire dritto e prendo il sentiero verso sinistra, non indicato ma più battuto.
Deve essere la discesa di una o più gare del Campo dei Fiori Trail, perché i tronchi degli alberi sono disseminati di catarifrangenti. Si tratta anche qui di un sentiero facile e corribile. Nel bosco si incontrano diversi bivi ed è utile seguire la traccia gpx, soprattutto al buio. Un’ultima stradina a tornanti mi porta a un cancello sempre aperto e, poi, al piccolo parcheggio del parco Morselli. Attraverso la strada (con attenzione, perché manca un attraversamento pedonale e le auto passano ben oltre i limiti) e scendo verso Gavirate.
Valmadrera – Corno Birone (1116 m) – Rai (1259 m) – Sasso Malascarpa – La Colma (997 m) – forcella dei Corni (1298 m) – rifugio S.E.V. – bocchetta di Moregge (1110 m) – Moregallo (1276 m) – fonte di Sambrosera – San Tomaso – Valmadrera.
La vigilia di Natale Samuel, che ha accettato di posare come ragazzo immagine per questo post, mi ha regalato un giro panoramico e divertente sulle montagnette del Lario, breve nel chilometraggio ma intenso nella tecnicità! Se state pensando che 13 km non richiedono più di un paio d’ore, vi consiglio di metterne nel conto almeno una in più.
Roccette in zona Sasso di Malascarpa.
Questo strano 24 dicembre 2023, con temperature vicine ai venti gradi e raffiche di vento a tratti fortissime, abbiamo trovato i sentieri poco affollati e un cielo così terso che stare a casa sarebbe stato un sacrilegio.
Parcheggiamo vicino al cimitero di Valmadrera, appena sotto il santuario di San Martino. Da qui, prendiamo la mulattiera in salita e seguiamo le precisissime indicazioni – la segnaletica dei monti lariani è la migliore che abbia finora trovato in Italia – del sentiero n. 5 in direzione Corno Birone.
Sentiero n. 5 per il Corno Birone.
Troviamo indicato anche il percorso della Dario e Willy, storica gara che si corre ogni primo maggio su questi sentieri. La salita all’inizio si presenta dolce e a tratti corribile, ma conosciamo troppo bene queste montagne per lasciarci ingannare: ben presto ci troviamo infatti catapultati nell’ambiente impervio e selvaggio del Corno Birone, con pendenze esagerate dove camosci e cerbiatti la fanno da padroni.
Ai piedi del Corno Birone.
Il sentiero n. 5 è classificato come EE (per escursionisti esperti) e ci troviamo, nei tratti più ripidi, ad arrampicarci per roccette più che a camminare. Finalmente guadagniamo la croce di vetta del Corno Birone (1116 m), da cui la vista spazia sui laghi e sulle montagne del Lario e del lecchese.
Croce del Birone, monte Barro e Resegone.
La prossima meta è il Rai, una montagna poco più alta e decisamente meno impervia rispetto al Birone. Le indicazioni da seguire sono quelle per il Cornizzolo, dato che il monte Rai è di strada.
Ultimo strappetto per la cima del monte Rai.
In cima al Rai (1259 m) troviamo una piccola croce e, poco più in basso sulla sinistra, una madonnina che osserva pensierosa il lago di Annone. Di fronte a noi c’è la più nota montagna del triangolo lariano, il Cornizzolo, ma noi prendiamo il sentiero in discesa verso destra e ci dirigiamo verso l’inconfondibile antenna del Sasso di Malascarpa.
Antenna gigante al Sasso di Malascarpa.
Aggiriamo il Sasso di Malascarpa, che si distingue dagli altri rilievi della zona per essere formato da strati sedimentari e, per il suo valore geologico, è riconosciuto come riserva naturale. Corricchiamo un po’, intanto che si riesce, lungo un bel sentiero con vista sui Corni di Canzo, prima di tuffarci in discesa verso La Colma.
Di fronte a noi i Corni di Canzo.
Alla Colma si incrociano diversi sentieri: noi prendiamo quello che prosegue dritto verso la forcella dei Corni, che con i suoi quasi 1300 metri è il punto più alto del nostro giro. La salita è quasi piacevole, su sentiero facile e pulito, mai troppo ripido.
Forcella dei Corni, con le Grigne sullo sfondo.
Dalla forcella, scendiamo verso il rifugio S.E.V., oggi chiuso. Nonostante il caldo e il vento, su questo versante il sentiero è fangoso e a tratti persino ghiacciato. Dal rifugio, la vista sulle Grigne e sul ramo lecchese del lago di Como è sempre fantastica. Ho perso il conto delle volte che sono passata di qui, ma non c’è volta che non mi fermi per una foto!
La vista dal S.E.V.
Scendiamo ora in direzione Valmadrera e continuiamo a perdere quota fino alla bocchetta di Moregge. Da qui prendiamo prendiamo il sentiero, solo per escursionisti e runner esperti, che porta al monte Moregallo.
Sulle creste del Moregallo.
Dopo il primo tratto in cresta, prendiamo il sentiero che passa poco sotto, il modo più veloce per arrivare alla vetta del Moregallo. Siamo infatti in ritardo sulla tabella di marcia e abbiamo da tempo finito l’acqua. Con più tempo a disposizione, consiglio la variante che percorre il filo di cresta.
Ultimo strappetto per la vetta del Moregallo.
Dopo un ultimo tratto attrezzato con catene, raggiungiamo la madonnina e la croce di vetta del Moregallo (1276 m), che tra le cime lariane rimane sempre la mia preferita.
La vetta del Moregallo (1276 m).
Assetati, ci affrettiamo verso la bocchetta di Sambrosera e da qui scendiamo per la via più diretta fino all’omonima fonte.
Fonte di Sambrosera.
Prendiamo ora il sentiero n. 5 verso San Tomaso, un grazioso alpeggio con un enorme prato panoramico, di solito molto frequentato dalle famiglie. Superato l’agriturismo Rusconi, da cui arriva un invitante profumino, scendiamo fino a Valmadrera seguendo sentieri non segnati: Samu è ormai un local e li conosce alla perfezione!
Il Campo dei Fiori è il primo massiccio montuoso che si incontra a nord di Varese, in direzione Svizzera: ideale per la stagione invernale, con i suoi sentieri facili e curatissimi a bassa quota, questo parco regionale ospita una nota gara di corsa in montagna e offre un fantastico terreno di allenamento non solo per il trail, ma anche per la mountain bike.
Il giro che vi propongo, facile e veloce, parte dal lido di Gavirate, uno dei punti più belli del lago di Varese. Il parcheggio del lido è a pagamento, ma c’è un parcheggio gratuito poco distante, all’area sosta camper di Gavirate. All’arrivo, troverete diversi bar con vista lago dove concedervi una meritata birretta!
Partenza dal lido di Gavirate.
Dal lido si percorre brevemente la pista ciclopedonale e si costeggia l’area sosta camper per risalire verso il centro di Gavirate. Si prende verso destra via Trinità, che porta al parcheggio parco Morselli (attenzione a un brutto attraversamento di strada). Qui è dove potete parcheggiare, se trovate posto, nel caso preferiate evitare l’asfalto e accorciare di qualche chilometro il giro.
Dal parcheggio si prende una stradina sterrata a tornanti in salita che supera le ultime case e porta nel bosco. Ci sono tante indicazioni e diversi sentieri non indicati, per cui consiglio di seguire la traccia gpx più che i cartelli.
Sentiero facile e corribile.
La prima parte di salita è decisamente corribile. Ci sono diverse opzioni per salire al forte di Orino: il mio percorso alterna tratti molto semplici e puliti, frequentati anche dalle mountain bike, a sentieri più ripidi e sconnessi, tutti comunque escursionistici e privi di pericoli (a parte forse i cacciatori).
Capirete di essere quasi arrivati al forte quando vi troverete in una zona di bosco morta, devastata da un parassita.
Alberi morti nella parte più alta del percorso.
Superato questo tratto un po’ triste, il sentiero emerge su una pista tagliafuoco e un’ultima salitella, chiaramente indicata, porta al forte. Non aspettatevi una costruzione: del forte di Orino è rimasto poco più di un muretto. La vista, in compenso, è spaziale: dal lago Maggiore al lago di Varese, con tutto l’arco alpino dal Monviso al Legnone. Il monte Rosa, in particolare, troneggia poco oltre il lago.
Lago Maggiore e monte Rosa.
Per scendere, prendo il sentiero 302, in questo periodo un po’ insidioso per la quantità di foglie secche che lo ricoprono, ma normalmente piuttosto semplice. Anche in discesa ci sono diverse opzioni e consiglio di seguire semplicemente la traccia.
Quando mancano 2-3 km all’arrivo, si torna sul sentiero dell’andata e non bisogna fare altro che ripercorrere i propri passi fino al lago.
Nell’area wilderness più estesa d’Italia, tra alpeggi immersi in un’atmosfera di altri tempi, sentieri semi abbandonati e cime incredibilmente panoramiche.
Periodo: Settembre 2023
Partenza: Scareno (VCO)
Distanza: 21 km
Dislivello: 1800 m
Acqua: fontane agli alpeggi e al bivacco Pian Vadà
Ogni tanto torno a fare un saluto ai miei posti del cuore – tra i quali rientrano a pieno titolo la Marona e la Zeda, tra le cime più alte della Val Grande. La cresta con le due vette costituisce la parte relativamente facile e “addomesticata” del sentiero Bove, una delle alte vie più selvagge e impegnative delle Alpi, che non ho ancora avuto il coraggio di percorrere per intero.
Sentiero Bove tra la Marona e la Zeda.
Un giro simile, un po’ più lungo, risale a qualche anno fa: lo trovate a questo link. Oggi come allora, per arrivare a percorrere quel breve, magico tratto di sentiero Bove ho affrontato un disagio dietro l’altro ma, per passare qualche minuto a godermi il silenzio della Val Grande dalle due croci della Marona e della Zeda, ne è valsa assolutamente la pena.
Per il ritorno in Val Grande scelgo una domenica di inizio ottobre, casualmente all’indomani dell’UTLM. Il clima è incredibilmente umido e soffocante e, sul lago Maggiore, aleggia una cappa di foschia che toglie ogni visibilità. Deve essere destino che io non veda mai il lago dall’alto di queste montagne!
Sotto le nubi dovrebbe esserci il lago Maggiore.
Lascio l’auto nel minuscolo borgo di Scareno, dove non c’è un vero parcheggio ma, arrivando di buon mattino, si può trovare un buco lungo la strada. Dall’interno del borgo comincia il sentiero: le indicazioni da seguire sono quelle per il ponte del Dragone e per l’alpe Piaggia.
Cascata prima del ponte del Dragone.
I primi chilometri sono quasi pianeggianti. Si costeggia il torrente, che poco prima del ponte del Dragone forma una bella cascata; dal ponte in avanti si comincia a guadagnare quota e si raggiunge l’alpe Piaggia. Qui il sentiero si divide: verso destra è indicato il passo Folungo, da cui arriverò al ritorno; a sinistra gli alpeggi Occhio e Onunchio. Il colle della Forcola, da dove prenderò il sentiero Bove, non è indicato, ma dovrebbe trovarsi dopo l’alpe Onunchio.
Bivio all’alpe Piaggia (910 m).
Mi sorprende trovare qui le balise dell’UTLM: il sentiero (orribile) che mi accingo a percorrere da Piaggia al colle della Forcola sarebbe la variante della gara in caso di maltempo – quella che toccò a me, con la fortuna che mi contraddistingue, quando partecipai due anni or sono. Forse gli organizzatori hanno tracciato entrambi i percorsi, nonostante il tempo stabilissimo dell’ultima settimana? Quale che sia la ragione, sono ben contenta delle balise che mi aiutano a orientarmi.
Balise dell’UTLM sul sentiero Piaggia-Forcola.
Ho già detto che questo sentiero è tremendo? A tratti stretto e sconnesso, evidentemente poco battuto, in un bosco soffocante pieno di rigagnoli e pozzanghere fangose, dove è difficile non dico tenere i piedi asciutti, ma a volte anche rimanere in piedi. Lo ribadisco perché non me ne vogliate, poi, nel caso decidiate di rifare questo giro. Mente fissa sull’obiettivo, esco finalmente dal bosco e raggiungo il colle della Forcola (1518 m).
Sentiero Bove verso il pizzo Marona.
Il sentiero Bove, da qui al monte Zeda, è relativamente facile (per essere un EE) e ben segnato. I bolli sono evidenti anche con la nebbia, che da queste parti scende di frequente e senza troppo preavviso, e tutti i punti potenzialmente scivolosi o esposti sono stati messi in sicurezza con catene. Non si può dire lo stesso per il resto dell’alta via, che va affrontata dopo attenta valutazione, con qualcosa in più di uno zainetto da cinque litri, due flask mezze vuote e un Garmin scarico.
Cappella della Marona (2051 m).
La cima del pizzo Marona (2051) e la sua cappella sconsacrata, che funge anche da bivacco, si trovano al disopra della cappa di umidità che ricopre il lago: da qui, la vista sulla val Grande con il Monte Rosa alle spalle è semplicemente spaziale. Mi fermo qualche minuto alla piccola croce di vetta, godendomi la solitudine e il silenzio, e mi incammino poi verso la Zeda.
In vetta alla Zeda (2156 m).
Dalla croce di vetta del monte Zeda butto un occhio verso la val Grande, dove si inoltra il sentiero Bove; ripromettendomi, prima o poi, di percorrerlo tutto, mi accingo a tornare alla civiltà, prendendo il più comodo sentiero che scende verso il passo Folungo passando per il bivacco Pian Vadà.
Il bivacco Pian Vadà (1711 m).
Il bivacco, dove si trova anche un’utilissima fontanella, è immerso nella nebbia. Da qui al passo Folungo si può seguire la strada sterrata in discesa o il sentiero che ne taglia i tornanti – io prendo il sentiero e ben presto arrivo in vista del passo.
Verso il passo Folungo (1369 m).
Si trova, qui, un crocevia di sentieri e stradine. I pochi escursionisti che incontro sono arrivati quassù in auto, che mi pare più faticoso che salire a piedi. Studio i cartelli, visto che la batteria del mio Garmin è morta in cima alla Zeda, e vedo che l’alpe Piaggia è indicata tutto a destra, lungo una strada sterrata chiusa da una sbarra.
Strada verso l’alpe Piaggia.
Sperando che il divieto di accesso sia rivolto alle auto e non vedendo sentieri alternativi, supero la sbarra e mi avvio lungo la strada in discesa. Ben presto mi rassicuro: sono ricomparse le balise dell’UTLM e riconosco la salita che, a suo tempo, mi ero sparata sotto il sole verso il cinquantesimo chilometro di gara. Ripercorrendola in senso contrario, so che arriverò al facile sentiero per Piaggia.
Antiche baite a Piaggia.
Le balise mi accompagnano fino alle prime, antiche baite di Piaggia. Da qui, non mi resta che tornare sui miei passi fino a Scareno.
Un percorso tecnicissimo per creste aeree e traversi esposti caratterizza buona parte del sentiero 4 luglio, dove ogni estate si corre una delle gare più importanti della Valtellina. Vedere i tempi dei più forti ci fa sentire delle cacchine, ma insomma noi Martas siamo poco ambiziose e giriamo più che altro per divertirci!
Il team Martas alla scoperta del 4 luglio.
Il giro è bellissimo e merita una gita fuori gara, per godersi appieno i panorami e il silenzio di queste selvagge Orobie valtellinesi.
Abbiamo lasciato un’auto al parcheggio Fucine-Les di Corteno Golgi, all’imbocco della strada che sale verso Sant’Antonio, e l’altra a Santicolo, punto di arrivo della gara, per seguire il percorso ufficiale; un inaspettato maltempo, però, ci ha costretto a tagliare l’ultima parte, verso la fine delle creste, scendendo dalla val Torsolazzo verso Corteno Golgi anziché terminare il giro a Santicolo. Questa soluzione d’emergenza si è rivelata interessante, con una bella discesa facile e corribile, e mi sento di consigliarla.
Per andare a prendere il sentiero 4 luglio vero e proprio bisogna per prima cosa salire a Sant’Antonio (1125 m) lungo la strada asfaltata e, poi, seguire le indicazioni per Campovecchio. Da qui si prosegue in direzione passo Sellero: non dritto, come facciamo dapprima noi, attirate da un asinello che sembra un Trudy e dall’invitante indicazione “3.30 h”; bensì verso destra, seguendo il sentiero 107 che si inoltra nel bosco, con tempo di percorrenza 6 h.
Guadagniamo quota in modo costante, su comodo sentiero, fino allo Zapel dell’Asen (2026 m). Da qui alla Val Rosa ci aspetta un lungo e accidentato traverso di 6 km, dove con ogni probabilità i top runner corrono al quattro e trenta, mentre noi non vediamo altra soluzione che camminare di buon passo.
Traverso panoramico ma poco corribile.
Per fortuna abbiamo l’idea di rabboccare le borracce a un ruscello: sarà l’unico punto acqua da qui alla fine del giro! Finalmente dalla Val Rosa (1970 m) riprendiamo a salire. Non c’è anima viva e ci godiamo lo spettacolo delle creste che andremo a percorrere nella pace e nel silenzio. Man mano che saliamo, l’erba cede il posto alla pietraia e il sentiero, sempre ben segnato, si inerpica verso il passo Telenek (2560 m).
Verso il passo Telenek.
Dal passo, ci dirigiamo verso la cima Sellero (2744 m), il punto più alto della gara. Da qui in avanti il sentiero segue il filo di cresta, ed è un vero spettacolo!
In cresta verso la cima Sellero.
Ci aspetta ora il tratto più tecnico del giro, una discesa piuttosto ripida con catene che ci porta al passo Sellero (2400 m).
Discesa dalla cima Sellero all’omonimo passo.
A questo tratto attrezzato seguono, prima e dopo il passo Sellero, crestine aeree e traversi esposti: se dovessi classificare questo sentiero 4 luglio, cosa che non farò perché non sono un CAI e non scrivo per gli escursionisti, lo definirei di grado FBLO (fa balaa l’oecc).
Bivacco Davide (2645 m).
Arriviamo al bivacco Davide, intorno al 20esimo km, completamente disidratate: nonostante il cielo nuvoloso, la giornata è caldissima e di acqua proprio non ne abbiamo trovata. Nella disperazione, attingiamo a una tanica appartenente a tale Claudio (grazie, Claudio! se leggi questo post, scrivici, così ti offriamo una birra!) prendendo solo il minimo sindacale per arrivare alla fine del giro.
Dal bivacco, il sentiero diventa un po’ più semplice. Continuiamo sempre più o meno in cresta, aggirando una cimetta non meglio identificata con qualche catena (non necessaria) e superando un traverso dove le catene risultano un gradito corrimano. In generale, il sentiero è in ottime condizioni: le protezioni non annullano le difficoltà intrinseche del percorso, ma di sicuro lo rendono il più sicuro possibile.
Traverso attrezzato.
Alla bocchetta del Palone succede quello che è inevitabile in giornate così calde e umide: comincia a tuonare e cadono le prime gocce. La situazione non sembra tragica e valutiamo anche di proseguire, ma alla fine decidiamo, studiando le mappe di Strava, di dare una chance all’invitante val Torsolazzo che si apre sotto di noi e che dovrebbe riportarci a Corteno Golgi in tempi sicuramente inferiori a quelli che impiegheremmo a raggiungere Santicolo.
La discesa in val Torsolazzo.
Seguiamo dunque i segnavia, ottimamente tracciati, del sentiero 134 e nel giro di pochi minuti cominciamo a congratularci tra di noi per la saggia decisione, visto che comincia prima a diluviare, poi a grandinare. Il sentiero, prima su pietraia, poi su pratone e infine nel bosco, non è mai troppo ripido e ci permette di scendere in tempi relativamente brevi e senza inconvenienti, a parte uno scivolone su una roccia bagnata.
Anche oggi abbiamo portato a casa la pellaccia!
Arriviamo infine a una strada sterrata, che imbocchiamo verso destra in direzione Sant’Antonio. Finalmente troviamo una fontana, dove possiamo dissetarci e sciacquare le ferite. In pochi chilometri raggiungiamo Sant’Antonio e, da qui, ripercorriamo i nostri passi fino alla macchina.
Uno dei passi più spettacolari del sentiero Roma, con salita tostissima dalla valle del Ferro e discesa panoramica dalla val Porcellizzo.
Filorera – San Martino – val di Mello – casera Ferro – bivacco Molteni-Valsecchi (2515 m) – passo Camerozzo (2765 m) – rifugio Gianetti – Bagni di Masino – San Martino – Filorera.
Quest’anno l’occasione è stata la salita al Badile di Samu e Meme: decido di aspettarli alla Gianetti e, per ingannare l’attesa, di spararmi una bella salita nella valle del Ferro scavallando in val Porcellizzo dal passo Camerozzo. Roberto, che conosce le tracce di Trail Rings meglio di me, è in vacanza in Valtellina e decide di accompagnarmi. Il cielo è terso e la giornata non potrebbe cominciare meglio!
Partenza da Filorera.
Parto da Filorera, dove trovo facilmente posto lungo il torrente poco dopo la Casa della Montagna – dove comincia e finisce il Kima, uno dei giri più belli che abbia mai fatto. Roberto mi aspetta al campo sportivo di San Martino, che in effetti sarebbe il punto di partenza più logico per il nostro giro: ma alla ressa dei villeggianti a caccia di selfie in val di Mello preferisco un paio di chilometri di corsa lungo la ciclabile che collega i due paesi. Insieme prendiamo il sentiero che si addentra in val di Mello e lo percorriamo per poco meno di un chilometro; attraversiamo il torrente e seguiamo brevemente la strada fino a trovare le indicazioni per la valle del Ferro.
Indicazioni per la valle del Ferro.
La prima parte di salita nel bosco è facile e piacevole, con pendenza moderata e sentiero ben segnato, ma sappiamo che la pacchia durerà poco. Entrambi, infatti, dopo avere percorso una volta la valle del Ferro in discesa ci siamo ripromessi di non commettere più questo errore. In salita, invece, è un’altra storia: il percorso, faticoso ma fattibile, si svolge in un bellissimo anfiteatro di placche granitiche e cascatelle, che si apprezzano appieno solo in questo senso di marcia.
Valle del Ferro – parte bassa.
La parte più dura della salita è quella che va dalla casera Ferro al bivacco Molteni-Valsecchi: un pratone ripido e poco battuto, dove il sentiero si perde nell’erba alta e la pendenza aumenta esponenzialmente insieme alla quota (o almeno dà questa impressione).
Valle del Ferro – parte alta.
Man mano che saliamo, davanti a noi si apre il classico sfondo del sentiero Roma: vette aguzze come lame affilate – in questo caso i pizzi del Ferro e, a sinistra, il pizzo Camerozzo con l’omonimo passo – contro un cielo blu cobalto. Ho perso il conto delle volte che sono stata da queste parti, ma ogni volta la meraviglia è la stessa.
Al bivacco Molteni-Valsecchi.
Finalmente raggiungiamo il bivacco e ci concediamo una meritata pausa, ma siamo ben presto messi in fuga da una pecora assassina che ha deciso di mangiare o me, o il Tronky nel mio zainetto: entrambe le soluzioni mi sembrano inaccettabili. Pazienza, siamo ormai arrivati sul sentiero Roma che, dal bivacco al passo Camerozzo, è quasi pianeggiante e ci permette di tirare il fiato.
Le prime catene del passo Camerozzo.
Il sentiero Roma, a differenza della salita dalla valle del Ferro, è segnato ottimamente e piuttosto battuto, nonostante la difficoltà del percorso. Tra i sette passi, il Camerozzo è uno dei più alti e difficili: per chi non si senta più che sicuro in questo tipo di ambiente, è raccomandato l’uso di imbrago e kit ferrata.
Verso il passo Camerozzo.
La salita verso il passo è la parte più lunga e impegnativa, mentre la discesa è più breve e pochi tratti attrezzati, in cui comunque bisogna fare attenzione, ci depositano sul lungo sentiero che attraversa la val Porcellizzo. Davanti a noi si stagliano il Cengalo e il Badile, e vediamo già la Gianetti in lontananza.
Rifugio Gianetti.
La traversata non è breve, ma alla fine raggiungiamo il rifugio, dove vado a informarmi sulle cordate dirette al Badile. Mi dicono che dovrò aspettare almeno un paio d’ore, per cui mi metto comoda, mentre Roberto dopo un’oretta comincia a scendere. Vado in fissa sul Badile (scottandomi la faccia, perché il sole splende proprio in quella direzione) e finalmente vedo scendere i miei amici.
Gli amici in discesa dal Badile.
La mia discesa con Meme e Samu appesantiti da zaini e corde è bella rilassata: per una volta corrono al mio passo! Senza contare che il sentiero dalla Gianetti è decisamente più semplice rispetto a quello percorso in salita. Ai Bagni di Masino li saluto per proseguire in discesa verso San Martino e poi Filorera – ma con tempismo perfetto ci ritroviamo al bar di Ardenno per l’aperitivo!