“Mi raccomando, non perdetevi” (cit. signora Luisella, h 7:00).
Detto, fatto: h 9:00, perse. Ecco il racconto di un’ordinaria giornata sul sentiero Roma con Lucia.
Attenzione: percorso adatto solo a escursionisti/runner più che esperti, e occhio al meteo!
L’idea era quella di risalire la val di Mello, andare a intercettare il sentiero Roma nell’austera val Cameraccio, seguire il percorso del Kima (per chi fosse interessato, ecco il link dell’epico giro provato nel 2020) giù per il passo Cameraccio, superare il passo Torrone, raggiungere il rifugio Allievi e da lì scendere per la val di Zocca fino a San Martino. Per aumentare il chilometraggio ed evitare il caos di San Martino Beach, dove orde di bagnanti rendono ormai invivibile la bella val di Mello, abbiamo deciso di partire da Filorera, dove i parcheggi sono gratuiti e le pozze meno affollate.
A Filorera lasciamo l’auto lungo il torrente e prendiamo la pista ciclo-pedonale che in 2 km ci porta a San Martino. Percorriamo così a ritroso gli ultimi 2 km del Kima, nota skyrace a cui Lucia è iscritta per l’ennesima volta e che si svolgerà tra poco, nell’ultimo weekend di agosto. Il sentiero Roma in queste settimane è affollatissimo di atleti che si preparano appunto a questa gara, forse la più selettiva nel panorama dello skyrunning italiano.
Da San Martino prendiamo il sentiero che risale la val di Mello a destra del torrente: dall’altra parte c’è la strada, molto più affollata. Sono le 7 e mezza del mattino e la valle è ancora quieta, complice probabilmente il cielo nuvoloso. Meteo non ideale per il sentiero Roma, ma di sicuro perfetto per la val di Mello!
Sono circa 5 km di sentiero morbido e corribile, prima del vertical che ci aspetta da Rasica al sentiero Roma. Il bosco qua e là si apre lasciando intravedere le famose pozze del torrente Mello, dove si riflettono le imponenti pareti di granito che racchiudono la valle.
Attraversiamo infine il torrente e seguiamo le indicazioni per Rasica, senza prendere il sentiero che sale verso la val di Zocca e il rifugio Allievi. Tra le valli laterali della val di Mello, da cui si può accedere al sentiero Roma, la val di Zocca è l’unica un po’ battuta, con un sentiero degno di questo nome. Tutte le altre, inclusa la val Cameraccio dove ci accingiamo a salire, sono ripide e selvagge, frequentate quasi esclusivamente dagli animali. Il telefono non prende quasi mai e i “sentieri” non sono altro che sequenze di bolli tra l’erba alta, spesso poco visibili. Insomma, un ambiente impervio e ostile, ma proprio per questo estremamente affascinante.
Raggiungiamo Rasica e siamo ormai alla fine della val di Mello. Abbiamo fatto solo 500 m di dislivello in 7 km e non vediamo l’ora che il sentiero si impenni un po’, in modo da avere una buona scusa per smettere di correre. Il bivacco Kima da qui è indicato a 7 ore di cammino, forse un po’ eccessivo anche per i tempi CAI… ci ho messo 7 ore a fare tutto il giro, comprese le ricerche di Lucia!
Ci inoltriamo nel bosco dove incontriamo due signori in cerca della val Torrone: con una certa convinzione li rimando indietro, per poi ricordarmi – troppo tardi – che per la selvaggia val Torrone si segue per un tratto lo stesso nostro sentiero e si prende poi un sentierino secondario verso sinistra. Spero che non mi abbiano odiato troppo!
Fino alla casera di Pioda il sentiero è in ottime condizioni. Oltre la casera, ringraziamo solo che prima di noi siano passate delle mucche, altrimenti non vedremmo neanche la traccia nell’erba alta. La salita è ripida e faticosa, tra zolle di terra che si staccano, rigagnoli da attraversare, erbacce e arbusti che ci graffiano le gambe. Lucia è parecchio avanti, mi fermo un paio di volte per foto e spuntino e tanto basta per perderla completamente di vista.
Man mano che guadagno quota la valle si apre e, nonostante la nebbia, mi perdo nella contemplazione di questo ambiente unico, delle aspre pareti di granito che svettano tutto intorno, della solitudine e del silenzio interrotto solo dai fischi delle marmotte. Arrivo a un bivio: a destra si va per la Ponti (indicata da una scritta sulla pietra), a sinistra per il passo Cameraccio (non indicato, ma è qui che dobbiamo dirigerci). Ora, da che parte sarà andata Lucia? Provo a chiamarla, aspetto un po’, riprovo, ma niente.
Bon, la direzione giusta è a sinistra, ci sono i bolli e per di più l’erba è calpestata. Decido di andare a sinistra. (Se rifate il giro, naturalmente vi conviene prendere il sentiero per la Ponti che vi fa tagliare un po’ di strada rispetto alla mia variante).
Non è stata Lucia a calpestare l’erba lungo il mio percorso e me ne rendo conto quando mi trovo muso a muso con una mucca, sbucata come un fantasma dalla nebbia che ormai pervade completamente la valle. Il nebbione non è anomalo da queste parti, è anzi una costante e rappresenta il primo fattore di rischio sul sentiero Roma.
I bolli e gli ometti qua e là si perdono, o quantomeno io li perdo di vista, ma riesco sempre a individuarne uno in lontananza per capire almeno indicativamente in che direzione muovermi. Un po’ per volta i pascoli cedono il posto alla pietraia: ormai non deve mancare molto al sentiero Roma, intorno ai 2500 m di quota.
Intercetto l’alta via e mi trovo davanti le indicazioni per il bivacco Kima, verso destra. Per il passo Cameraccio bisognerebbe prendere il sentiero Roma verso sinistra, ma so per certo che Lucia non ci sarebbe andata senza aspettarmi. La mia speranza è di trovarla al bivacco Kima e, a quel punto, mi viene l’idea di proseguire poi insieme verso la bocchetta Roma e il rifugio Ponti.
Al bivacco incontro diverse persone che stanno provando il giro del Kima, ma nessuna traccia di Lucia. Che fare? Rimanere qui è inutile, perché è evidente che ormai ci siamo mancate: al bivio deve avere preso l’altro sentiero, che non ho idea di dove porti (porta direttamente al bivacco Kima, come mi spiegherà poi Lucia). Se è scesa a cercarmi, con il ritmo che tiene in discesa difficilmente potrei raggiungerla. Senza contare che piuttosto che tornare da dove sono salita preferirei fare tutto il sentiero Roma fino alla Omio!
Lascio detto a tutti quelli che incontro di riferire a Lucia, nel caso la vedano, che sto bene e che ci rivedremo alla macchina. Non sono troppo preoccupata, Lucia in montagna si muove meglio degli stambecchi! Spero per lei che possa ancora unirsi a qualcuno per provare il passo Cameraccio, uno dei punti più tosti della gara. Da parte mia, so che il modo più veloce per tornare a Filorera è superare la bocchetta Roma, che ogni tanto si intravede tra le nuvole, e scendere al rifugio Ponti. Si tratta del rifugio più vicino e, avendo perso la socia, preferisco tornare il prima possibile nella civiltà e recuperare l’uso del telefono.
Nel 2020 aveva nevicato parecchio e, quando nel mese di luglio provai il giro del Kima, la neve arrivava praticamente all’altezza delle catene più basse: ricordo che appena scesa dalla bocchetta calzai i ramponcini e mi incamminai – con attenzione, ma senza grandi problemi – seguendo le tracce di chi ci aveva preceduto sul nevaio. Oggi scopro che la parte più brutta della bocchetta Roma è quella che allora era coperta dalla neve: un pendio ripido e scosceso con sassi di ogni dimensione che si muovono a ogni passo. Con delicatezza, cercando di non provocare frane, raggiungo le prime catene e da qui è tutto facile: questo tratto è molto più simpatico percorso in salita!
Scollino e mi trovo nell’enorme pietraia dell’alta valle di Predarossa. La bocchetta si trova a poco meno di 2900 m e l’ambiente, anche qui, è severo. Bisogna fare attenzione a non perdere di vista i bolli, che rimangono sempre alti poco sotto le creste. Il telefono risorge (tipo per mezzo minuto) e mi arrivano dei messaggi, tra cui una chiamata persa di Lucia. Provo a richiamarla ma ora è lei ad avere il telefono spento. Niente, scendo alla Ponti e chiedo consiglio a Eleonora, l’esperta rifugista. Secondo lei la cosa più probabile è che Lucia sia scesa a cercarmi e sia rimasta in mezzo alla val di Mello, dove non c’è campo. Rassicurata, continuo la discesa, ora su facile sentiero, e mi trovo nella bucolica valle di Predarossa.
Seguo il corso del torrente e raggiungo il parcheggio, da dove mi limito a seguire la lunga, noiosa ma rassicurante strada asfaltata in discesa. Nella parte alta ci sono dei tagli su sentiero, che evito perché ho le gambe distrutte e preferisco una corsa tranquilla senza colpi, mentre nella parte più bassa il sentiero è fuori uso da anni e bisogna per forza seguire la strada. Ogni pochi minuti provo a far partire una chiamata e finalmente il telefono di Lucia prende: sta scendendo da San Martino, per fortuna sana e salva! Percorro per inerzia gli ultimi chilometri di strada e finalmente la raggiungo, con le gambe a mollo nella pozza accanto a cui abbiamo parcheggiato.
La sua mattinata è andata così: al bivio ha preso il sentiero per la Ponti, senza vedere che ce n’era un altro; il suo sentiero portava direttamente al bivacco Kima, che quindi ha raggiunto molto prima di me; non vedendomi arrivare, è scesa a cercarmi; tornata senza successo in val di Mello, ha pensato di salire all’Allievi (si è presa pure un paio di coroncine Strava lungo la salita) per vedere se fossi finita lì; all’Allievi non c’ero e non ha incontrato nessuna delle persone a cui avevo affidato messaggi, per cui è scesa di nuovo e si è rimessa in marcia verso Filorera. Tutto è bene quello che finisce bene, ma sempre occhio alla nebbia e ai bivi in alta montagna!
Val Grosina, che posto! Non lo conoscevamo ma abbiamo deciso di partire in esplorazione, e di sicuro bisognerà tornare: tra torrenti gorgoglianti, vette di tremila metri, prati bucolici e selvagge pietraie, nel silenzio totale rotto solo dai fischi delle marmotte, il team delle Martas ha trovato il suo ambiente ideale!
Partiamo da Fusino, sopra Grosio, neanche troppo di buon’ora, confidando che il giro sia breve e veloce. A Fusino parcheggiamo davanti all’ex locanda Valgrosina, dove si può eventualmente acquistare il ticket per proseguire lungo la strada che va a Eita (da cui saliremo) o lungo quella per Malghera (da cui scenderemo). Dato che noi siamo Trail Rings e per definizione facciamo solo anelli, ci limitiamo a lasciare l’auto nel punto più comodo all’incrocio tra le due strade.
Le indicazioni sono chiare e puntuali lungo tutto il percorso, per cui la traccia gpx non è indispensabile. Il giro si può fare in entrambi i sensi di marcia: quello da noi scelto ha il vantaggio di percorrere il tratto più ripido in salita anziché in discesa, ma anche al contrario si tratterebbe solo di una discesa un po’ tecnica su ghiaino, niente di impossibile. Partiamo dunque verso Eita e seguiamo la strada asfaltata per circa un chilometro e mezzo, superando il lago artificiale Roasco alla nostra sinistra. Prendiamo poi la strada carrozzabile, seguendo le inequivocabili indicazioni per Eita (sentiero 251.2), con il torrente Roasco sempre a sinistra.
Non ci sono ancora animali al pascolo, ma i tafani sono già pronti e nell’attesa se la prendono con noi. Superiamo il più in fretta possibile la zona infestata seguendo sempre la strada carrozzabile, tutta corribile, che ci fa guadagnare dislivello in modo dolce ma costante. Torniamo sull’asfalto e giungiamo in vista di Eita, un paesino pacifico e grazioso, circondato da montagne e pascoli verdeggianti.
Dobbiamo ora risalire tutta la val d’Avedo fino al passo di Vermolera, il punto più alto del nostro giro. Da Eita il passo è indicato a 4 h 10′, ma ci metteremo molto meno. Le indicazioni da seguire sono quelle per il sentiero n. 201, che coincide anche con il Sentiero Italia (S.I.). Dopo una breve discesa lungo la strada asfaltata, riprendiamo a salire e raggiungiamo dapprima l’alpeggio Vermulèra, poi i laghi di Très (2185 m). Il motivo del plurale non è chiaro, a me sembra un lago solo.
La pendenza da qui aumenta un po’, ma non troppo. L’ambiente invece si fa sempre più suggestivo e la sua bellezza risalta ancora di più nel silenzio generale: abbiamo salutato gli ultimi umani a Vermulèra e non abbiamo più incontrato nessuno.
Il sentiero cede via via il passo alla pietraia, ma rimane sempre visibile. Solo nel punto più alto, in prossimità del passo, si seguono i segnavia saltellando da una roccia all’altra. Questo percorso è indicato nelle relazioni come EE e di sicuro richiede ottime condizioni meteo, assenza di neve e capacità di muoversi in un ambiente severo di alta montagna; tuttavia noi lo abbiamo valutato un giro di livello escursionistico.
Dal passo di Vermolera (2732 m) la vista si apre sull’ampia val di Sacco e lo spettacolo è ancora più bello perché possiamo godercelo in totale solitudine.
Cominciamo la discesa e solo per un breve tratto dobbiamo prestare attenzione, percorrendo una cengia di sfasciumi. Poi il sentiero torna a essere facile e possiamo divertirci a correre spensierate tra la costernazione delle marmotte.
Ben presto arriviamo in vista del Pian del Lago (2320 m), dove incontriamo le prime persone da parecchio tempo. In effetti il giro, veloce per chi corre, risulta lungo e di sicuro scoraggia gli escursionisti, che per risparmiarsi i noiosi chilometri di strada dovrebbero lasciare due macchine in punti diversi. Insomma, la Val Grosina risulta ideale per il trail running!
Continuiamo a seguire il 201/S.I. in direzione Malghera e, senza possibilità d’errore, percorriamo quella che ormai è una vera e propria strada fino a raggiungere il paese. In assenza del nostro Tony, troviamo una fattoria che porta il suo nome e ne approfittiamo per una foto ricordo.
Da Malghera ci aspettano 10 km di noiosa strada, ma lo sappiamo e siamo psicologicamente preparate. Ce la prendiamo con calma e, senza sbatterci troppo, in meno di un’ora siamo a Fusino. Giro davvero super consigliato a tutti i runner, sia per l’ambiente spaziale sia per l’ottimo allenamento di corsa!
Poco tempo a disposizione ma voglia di trail, dove andare se non nel fantastico triangolo lariano? La mia heat-map di Strava in questa zona è un groviglio di linee rosse, da quante volte l’ho girata in lungo e in largo, ma ci sono sempre nuovi sentieri da scoprire e mille modi diversi di concatenarli! Tra le montagnette del Lario la mia preferita è senza dubbio il Moregallo, che vi ho già proposto in diverse salse (per esempio qui e qui).
Parcheggio poco dopo le 7 davanti al Sigma di Valmadrera, imposto il disco orario dalle 8 alle 9 e cerco di capire se posso fare il giro che ho in mente in meno di due ore. Ovviamente la risposta è no, ma decido che lo spauracchio della multa è una buona motivazione per far girare le gambe. (Se volete prendervela con calma, troverete facilmente parcheggi senza disco orario poco fuori dal centro del paese). Parto di corsa, che il giro è breve e la multa incombe, e salgo verso la frazione Belvedere lungo una piacevole stradina pedonale. Superate le ultime case, imbocco la mulattiera che mi porterà a San Tomaso.
Questa stradina, in salita ma sempre corribile, con qualche tratto piano in cui si può tirare il fiato, si presta particolarmente bene agli allenamenti trail. Faccio il mio ingresso trionfale alla piana di San Tomaso, dove trovo solo un gregge di pecore e un pastore perplesso. C’è una fontanella, ma visto il caldo mi sono portata una bella scorta d’acqua e non ho bisogno di fare rifornimento.
Da qui bisogna prendere il sentiero 4-8 verso Pianezzo. Ci sono diversi sentieri, ma le indicazioni in questa zona sono sempre chiare e precise, per cui basta fare attenzione ai cartelli e non si può sbagliare.
La salita è a tratti ripida, a tratti più morbida e quasi corribile, in ogni caso sempre bene indicata. Incontro un’ultima fontana a un crocevia di sentieri, dove continuo a seguire il mio 4-8. Sbuco alla bocchetta di Luera (1209 m) e proseguo verso il rifugio SEV, che ben presto comincio anche a vedere.
Il sentiero cambia faccia quando passo sotto le falesie del Corno centrale: la roccia qui è bianca e l’ambiente ricorda, sia pure per un breve tratto, quello di alta montagna. Dura poco e torno a immergermi nel bosco. Raggiunto il rifugio SEV, scendo per il prato e prendo il sentiero in discesa nel bosco seguendo le indicazioni per Valmadrera: lasciandomi alle spalle i Corni di Canzo, mi dirigo verso il Moregallo. Alla bocchetta di Moregge (1110 m) ricomincio a salire lungo le creste (solo per escursionisti esperti).
Da quassù la vista può spaziare lungo tutto il ramo lecchese del lago di Como, fin quasi a Colico. Bisogna mantenersi sempre il più in alto possibile lungo il filo di cresta: i sentieri che tagliano di traverso la montagna poco più in basso sono spesso coperti di vegetazione e più adatti agli animali che alle persone. In effetti, gli unici altri escursionisti che trovo a spasso sono delle pecore con una spiccata inclinazione per l’arrampicata sportiva.
Nell’ultimo tratto, quando la vetta del Moregallo è ormai in vista, delle catene aiutano nella discesa e nella risalita dell’ultima cresta. Si continua a vedere il lago di Annone, mentre il lago di Como è nascosto dalla montagna: mi raccomando, non fatevi tentare dalle tracce (di animali) che sembrano scendere lungo l’erto versante nord, seguite sempre i bolli e il sentiero principale che vira appunto verso il lago di Annone.
Sbuco in vetta (1276 m), saluto velocemente la madonnina che con la consueta imperturbabilità domina sul Barro e sui laghi sottostanti, e riparto di corsa alla volta del sasso di Preguda. Sono ormai le 9 e mi auguro che i vigili non stiano già cominciando a girare per Valmadrera, perché mi manca ancora un bel pezzetto! Dalla bocchetta di Sambrosera continuo a seguire il sentiero n. 6 per Valmadrera via Preguda e, dopo un breve tratto pianeggiante, scavalco le creste e comincio la ripida discesa verso Valmadrera.
Incrocio il sentiero Paolo e Eliana, ottima alternativa per rientrare a Valmadrera da frazione Belvedere, ma continuo a seguire il più panoramico sentiero per Preguda. La discesa è piuttosto ripida e sdrucciolevole, scivolo un paio di volte ma sono determinata a raggiungere la mia macchina prima dei vigili! Finalmente la pendenza si addolcisce, il ghiaino scivoloso cede il passo al più morbido terreno del bosco e raggiungo infine il sasso di Preguda (647 m) e l’annessa chiesetta.
Proseguo in discesa seguendo il percorso permanente della Dario & Willy e il sentiero mi porta ben presto a una strada carrozzabile. Questa strada va seguita, ma solo per un breve tratto. Senza lasciarvi ingolosire dalla discesa (errore che ho già fatto), buttate un occhio sulla destra e troverete il facile e comodo sentiero per Valmadrera.
Da qui al centro del paese ci metto poco. Ho sforato di un’ora rispetto al mio disco orario, ma per fortuna niente multa!
Il mio amico Demetrio, abituato alle dolci pendenze dell’Appennino emiliano, non è mai stato sulle Grigne e bisogna rimediare! Faccio mentalmente un elenco delle cose imperdibili in questo ambiente così selvaggio, eppure tanto popolare tra noi milanesi: la pendenza estrema del muro del pianto sotto il sole di un pomeriggio estivo, la cresta del Grignone fino alla croce di vetta e al rifugio Brioschi, la traversata alta verso il buco di Grigna e la Grignetta, l’arsura e l’acqua che non si trova neanche a pagarla, le discese tecnicissime, i sentieri che non si trovano, i chilometri che ci metti quaranta minuti a percorrere, i camosci che la fanno da padroni quando, all’ora del tramonto, la maggior parte degli umani ha finalmente tolto il disturbo.
La mia idea è partire da Balisio, salire in vetta al Grignone dalla via invernale – più bellina, a mio avviso, rispetto a quella estiva – e scendere poi lungo l’alta via delle Grigne verso la Grignetta. Risalire fino al bivacco Ferrario dal canalino Federazione, scendere dalla Cermenati, intercettare la traversata bassa e seguirla fino al Pialeral, da cui si riscende a Balisio. Ho calcolato in modo molto ottimistico di fare tutto in cinque, massimo sei ore, ma come spesso accade da queste parti i tempi si sono dilatati soprattutto per le difficoltà tecniche della discesa lungo l’alta via, che sarebbe più comodo percorrere – come fanno quasi tutti – in senso opposto.
Arrivati in prossimità del buco di Grigna, dove comincia la salita verso la Grignetta, ci siamo resi conto di avere al massimo un’ora di luce e nemmeno una goccia d’acqua. Ho allora proposto a Deme di accorciare il giro e scendere al Pialeral seguendo il percorso della Utlac, una gara tostissima che si è appena tenuta da queste parti. Purtroppo gli organizzatori sono stati diligentissimi e non abbiamo trovato traccia di balise, per cui ci siamo persi nella vegetazione – nella prima parte il sentiero è davvero poco visibile, senza le indicazioni della gara – e abbiamo finito per metterci lo stesso tempo che avremmo impiegato a salire in Grignetta e scendere dall’altra parte. Puniti per la pigrizia!
Chi vuole ripetere il giro non si preoccupi: nella traccia gpx qui allegata ho eliminato la pur divertente parte di “ravanage”, se la seguite bene non potete sbagliare. Altrimenti consiglio di finire il giro come l’avevo pensato inizialmente: dovrebbero venire circa 200 m di dislivello positivo e 3 km in più. Ad avere tempo (e acqua) ne vale assolutamente la pena!
La partenza è calda, alle quattro del pomeriggio, ma molto semplice. Parcheggiamo al BricOk di Balisio, l’unico posto dove pare sia ancora lecito farlo, torniamo brevemente verso l’Alva seguendo la strada e prendiamo la stradina in leggera salita verso destra subito dopo il bar. Da qui un sentierino ci porta alla strada carrozzabile che sale verso la chiesetta e il Pialeral. Dalla chiesetta, per evitare le frotte di escursionisti in discesa, anziché il solito sentiero prendiamo quello per l’agriturismo Brunino, bene indicato.
Seguiamo questa stradina carrozzabile, con un breve taglio su sentiero, attraversando dei bellissimi alpeggi. E pensare che si sale sempre al Grignone passando dal sentiero “standard” del Pialeral, come se non ci fossero alternative! Qui non incontriamo più nessuno e troviamo anche un paio di fontane, una rarità da queste parti.
Continuando a salire lungo la carrozzabile, si sbuca infine sulla salita per il Brioschi, senza passare dal Pialeral. Altrimenti ci sono dei sentieri che portano al Pialeral e, da qui, si prende la stessa salita.
Superati gli ultimi alberi, si sale faticosamente sotto il sole ancora forte di questo pomeriggio di giugno. Da Balisio al Pialeral sono 500 m di dislivello, ne mancano 1200 per la cima del Grignone… meglio non pensarci! Teniamo la destra per prendere la via invernale, mentre l’estiva sale verso sinistra. Incontriamo gli ultimi escursionisti in discesa, dopodiché sono i camosci a intrattenerci con i loro salti acrobatici su e giù per rocce e prati. Si arriva infine ai Comolli, al bivacco Riva Girani (1860 m).
Da qui comincia il cosiddetto “muro del pianto”, che fa piangere in inverno, quando lo si affronta con i ramponi, ma anche in versione estiva non scherza. La pendenza aumenta drammaticamente: quantomeno il dislivello si fa in fretta e ben presto, accaldati e affaticati, sbuchiamo sulla cresta.
Seguendo il filo di cresta e le corde fisse, non necessarie in assenza di neve, proseguiamo verso il rifugio, con una pendenza ora molto più dolce e una bella vista sul selvaggio versante settentrionale delle Grigne, dove è rimasta un’ultima lingua di neve.
Raggiungiamo la croce di vetta e il rifugio, che con i suoi 2410 m rappresenta il punto più alto del giro.
Comincia ora la parte più tosta del giro, l’alta via delle Grigne, meglio nota come “traversata alta”. Si tenga conto che, rispetto ad altri sentieri attrezzati che tecnicamente potrebbero risultare equivalenti, per esempio il sentiero Roma, l’alta via delle Grigne ha come difficoltà aggiuntiva una segnaletica che lascia molto a desiderare, catene vecchie e in cattivo stato e una roccia che si frantuma solo a guardarla. Solo alla fine del giro abbiamo saputo, purtroppo, dell’incidente capitato proprio oggi a Claudio Ghezzi, in assoluto il più esperto conoscitore delle Grigne, a ulteriore dimostrazione, in caso qualcuno avesse dei dubbi, che queste montagne sono davvero infide e richiedono una dose doppia di attenzione proprio per la qualità della roccia.
Una prima discesa ci porta al bivacco Merlini, da dove si prende il sentiero estivo per il Pialeral. Noi invece proseguiamo dritto e più o meno in piano lungo l’alta via, che appunto non è indicata benissimo ma ogni tanto è pur indicata. Comincia infine la discesa lungo gli Scudi.
Le catene, come già detto, non sono in ottime condizioni e conviene usarle il meno possibile. Procediamo piano e con cautela. Quando finalmente ci sembra di avere toccato terra, la pacchia dura poco, perché ben presto il sentiero cede il posto a una nuova parete, questa volta più franosa e instabile.
Dopo avere perso quella ci pare un’infinità di quota, con un certo sollievo vediamo che il sentiero riprende a salire. Tutto intorno a noi i camosci corrono e saltano sugli sfasciumi, incuranti dei continui crolli. Poco male, il sentiero sale rapidamente e in un attimo siamo di nuovo in cresta. La Grignetta sembra sempre lontanissima, sono ormai le 19,30 passate e la sete ci sta provocando strane visioni. Decidiamo allora di prendere il sentiero in discesa per Balisio, visto che è indicato e che è parte del percorso di gara della Utlac, che si è tenuta giusto ieri.
Si tratta di un sentiero che conosco per averlo già fatto seguendo il percorso balisato della gara. Oggi però le balise non ci sono, gli organizzatori sono stati troppo solerti nel rimuoverle! La prima parte di sentiero, nonostante il recente passaggio della gara, è nascosta dall’erba e ben presto ci rendiamo conto di esserci spostati troppo a sinistra. Perdiamo un po’ di tempo a cercare una via alternativa, poi ci rassegniamo e torniamo indietro. La traccia qui allegata è già stata corretta, potete seguirla con fiducia. Scendendo nel prato, andate verso la pozza d’acqua che si nota dall’alto.
Raggiungiamo una malga e, da qui, il sentiero diventa molto più semplice (e visibile). Una facile discesa nel bosco ci porta a incrociare la traversata bassa, che imbocchiamo in direzione Pialeral. In realtà, scoprirò più tardi guardando la cartina, si sarebbe potuto anche proseguire in discesa lungo lo stesso sentiero, accorciando il percorso senza passare dal Pialeral. Ma in assenza di indicazioni abbiamo preferito non rischiare. La traversata bassa, antipatica per i continui saliscendi, ci porta al Pialeral e alla sospirata fontana, dove facciamo indigestione di acqua. Poi prendiamo il noioso ma veloce sentiero in discesa per Balisio, e per questo ultimo pezzo ci tocca accendere le frontali che previdentemente abbiamo portato con noi. Pensavo di essere alla macchina per le 21, invece sono ormai le 22 passate quando ci arriviamo!
Finalmente, dopo quasi due anni di assenza, sono tornata a fare un salutino alla mia amata Val Masino! Questa volta insieme a Lucia, che sul sentiero Roma si muove come un milanese in circonvallazione. Il terreno tecnico è tanto il suo punto forte quanto il mio punto debole, per cui raggiungiamo un compromesso: salita alla Gianetti e discesa dalla Omio ciascuna al proprio passo, mentre insieme faremo il Barbacan, la parte più tosta e divertente del giro – anche perché lassù, tanto per i tapascioni quanto per i top runner, è poco raccomandabile avventurarsi da soli.
Parcheggiamo alle sette di domenica mattina ai Bagni di Masino: troviamo solo un paio di altre macchine, mentre più tardi si prevede il pienone. Partiamo di corsa per un primo, breve tratto in piano, e in un attimo siamo al bivio Omio-Giannetti. Prendiamo il sentiero di destra per il rifugio Gianetti, dato a 3 ore e mezza di cammino, e da qui Lucia parte a tutto gas. Io con calma supero le roccette chiamate “Termopili” e procedo nel bosco su facile sentiero, con una salita per il momento abbastanza morbida.
Uscendo dal bosco mi trovo ad attraversare ruscelli e torrentelli in piena. Fate attenzione ai lastroni di granito: da asciutti tengono benissimo, ma bagnati possono diventare molto scivolosi. La vista si apre sulla spettacolare corona di cime della val Masino, da dove l’acqua scende a cascate.
Dopo un tratto pianeggiante e un po’ fangoso lungo il torrente, la salita diventa più impegnativa e il sentiero si perde un po’ tra l’erba alta e il granito. Nonostante i bolli, sono riuscita a sbagliare strada in un paio di punti, inducendo all’errore anche un simpatico signore con cui ho fatto l’ultimo tratto fino alla Gianetti. Niente di grave comunque, sia io sia il signore siamo arrivati tutti interi al rifugio dove abbiamo trovato Lucia pazientemente in attesa da mezz’ora. Il rifugio è ancora chiuso (apertura prevista per il 13/06/2022).
Il cielo è piuttosto cupo, ma decidiamo di fidarci del radar di Meteo Swiss che non dà rovesci in mattinata. Salutiamo dunque il simpatico signore e imbocchiamo il sentiero Roma verso il passo Barbacan, seguendo le indicazioni per il rifugio Omio.
Prima della salita ci aspetta un tratto pianeggiante dove, arrancando, cerco di tenere il passo con Lucia che ovviamente è partita di corsa. I ricordi vanno indietro di un paio d’anni, quando con Samu e Meme provammo il giro del Kima: questo tratto verso il Barbacan, l’ultimo dei sette passi del Kima, era sembrato infinito. Certo farlo con le energie ancora fresche, dopo neanche un paio d’ore che si è in giro, è tutta un’altra cosa.
Troviamo solo qualche lingua di neve, facilmente superabile: una situazione davvero inusuale per inizio giugno. Viste le difficoltà del sentiero Roma, è sempre meglio accertarsi della praticabilità dei passi chiamando uno dei rifugi, almeno a inizio stagione.
Aiutandoci con le catene, ci arrampichiamo per roccette e ben presto raggiungiamo il passo, a poco meno di 2600 m. Ah, non l’ho detto prima perché di solito il sentiero Roma è preceduto dalla sua fama, ma ovviamente si tratta di un percorso non adatto a runner o escursionisti poco esperti. L’ambiente è spettacolare, ma severo e selvaggio.
Dal passo al rifugio Omio per me è un’agonia. La discesa è infatti un concentrato di pendenze ripidissime, sassi sdrucciolevoli, erba bagnata, fango, acqua che scorre a fiumi su quello che dovrebbe essere il sentiero, buche nascoste dall’erba, bolli sbiaditi e poco visibili. Una trappola mortale, in poche parole. Ne ero consapevole, ma anche questa volta ci resto male. Lucia, invece, in quattro salti è già alla Omio.
La Omio, a differenza della Gianetti, è già aperta e un buon numero di escursionisti sta salendo da quella che sarà la nostra via di discesa per Bagni di Masino. Lucia deve ottimizzare l’allenamento in vista del Kima 2022 e decide quindi di correre a manetta fino a San Martino, dove la recupererò in auto. Io a questo punto smetto di stressarmi e mi limito a corricchiare, cercando solo di mantenere l’equilibrio nel fango.
Man mano che perdo quota, la situazione fango migliora sensibilmente – non al punto da arrivare alla macchina con i piedi asciutti, ma almeno da restare in equilibrio. Rientrando nel bosco, il sentiero diventa più corribile, e ben presto mi ritrovo al bivio Gianetti-Omio incontrato alla partenza. Da qui al parcheggio è un attimo!
Torre di Santa Maria – Sentiero Rusca – Chiesa in Valmalenco – Primolo – Lago di Chiesa (1612 m) – Rifugio Bosio (2086 m) – Piasci – Son – Torre di Santa Maria
Periodo: Giugno 2022
Partenza: Torre di Santa Maria, Valmalenco (780 m)
Ecco un bel percorso trail, tutto (o quasi) da correre! Primo dei molti nuovi giri in Valmalenco che ho in programma per il 2022, si svolge interamente su facili sentieri e strade carrozzabili che collegano gli alpeggi e il rifugio Bosio. Quattro ore esatte per me che sono ancora fuori allenamento, di sicuro voi riuscirete a fare meglio!
Parto di buon’ora da Torre di Santa Maria, paesino alle porte di Chiesa in Valmalenco, dove trovo facilmente parcheggio davanti al cimitero. Ho dormito poco ma sono determinata a sfruttare questo sabato di sole per un bell’allenamento! A fatica mi metto in moto in direzione Chiesa in Valmalenco, attraversando Torre e andando a prendere il sentiero Rusca, che segue il corso del torrente Mallero.
Dopo circa 4 km di saliscendi, dove in realtà sono più i sali dei scendi, arrivo a Chiesa e lascio questa bella pista ciclo-pedonale per prendere la strada in salita. Attraverso il centro del paese e imbocco la strada che sale verso Primolo. Qualche tornante di asfalto e poi, finalmente, trovo un sentiero.
Sbuco di nuovo sulla strada all’altezza del piccolo cimitero di Primolo e la seguo brevemente, fino a incontrare varie indicazioni, tra cui quelle per la Bosio. Attenzione: i cartelli sembrano indicare la strada privata verso sinistra, mentre il sentiero, meno visibile, passa poco sopra – infatti la scritta “Bosio” è accompagnata da frecce verso l’alto.
Riprendo dunque a salire nel bosco lungo un sentiero facile e morbido, coperto da un tappeto di aghi di pino. Si tratta del n. 316 in direzione alpe Pirlo, alpe Lago e rifugio Bosio.
La salita è inframezzata da tratti quasi pianeggianti e corribili. Ben presto arrivo all’alpe Pirlo e qui prendo la strada carrozzabile in direzione Lago di Chiesa: ci sono diversi sentieri che portano alla Bosio, di sicuro più belli e panoramici, ma oggi ho deciso di mettermi alla prova nella corsa in quota e mi attengo al programma.
Evito un ultimo lungo tornante passando per il sentiero bollato che trovo sulla destra e in un attimo arrivo a Lago di Chiesa, che non è un lago ma un alpeggio.
Riprendo qui la strada verso destra, seguendo le indicazioni per la Bosio. Da un cartello apprendo di essere oltre i 1600 m di quota, il che spiega la fatica. Alterno corsa e camminata fino a trovarmi sulla destra un sentiero che mi permette finalmente di camminare senza sensi di colpa, poi riprendo la strada, che sale ora più dolcemente verso l’alpe Airale.
Di fronte a me si stagliano i Corni Bruciati, alla cui sinistra si trova il passo di Caldenno – da cui potrei comodamente tornare a casa, se non avessi la macchina a Torre di Santa Maria – mentre a destra c’è il passo di Corna Rossa, che porta in Val Masino. Siamo qui sull’ultimo tratto di sentiero Roma e infatti trovo le indicazioni per l’ex rifugio Desio, che si trova di là dal passo di Corna Rossa, prima della Ponti. Sulla sinistra, oltre il torrente, compare finalmente il rifugio Bosio.
Mi fermo al rifugio giusto il tempo di una barretta e riparto in discesa verso Piasci e Torre di Santa Maria. Sono qui sul percorso della VUT, che seguo a ritroso: dalla Bosio a Piasci incontro parecchi runner che lo stanno provando. Il sentiero è bello morbido, facile e corribile, e man mano che perdo quota vedo che cominciano a fiorire i rododendri.
La discesa fa ancora qualche scherzetto – brevi tratti di salita, sempre corribili – e in alcuni punti è un po’ bagnata e fangosa, ma ben presto arrivo a Piasci.
Piasci è di gran lunga l’alpeggio più bello di questo versante della Valmalenco, almeno per me. Tenuto benissimo, con baite stupende, fontanelle, mucche al pascolo e bambini che giocano, gode di una vista mozzafiato sul gruppo del Bernina e fino al pizzo Scalino.
Seguo sempre il percorso della VUT, che conosco ma che è difficile percorrere a ritroso! Il segnavia è il triangolo giallo rovesciato. Comincia ora un tratto di sentiero fantastico, corribilissimo, che mi stavo pregustando da tempo e che mi godo in completa solitudine fino al punto in cui si attraversa il torrente e si risale un pezzetto verso l’alpe Son.
Da qui la discesa diventa meno bella, ma sempre facile. Ci sono un po’ di erbacce e ortiche, che di sicuro verranno eliminate a breve in vista della gara. I segnavia della VUT purtroppo si vedono a fatica in questo senso di marcia, per cui se volete rifare il giro consiglio di affidarvi alla traccia gpx. Senza grosse difficoltà, perdendomi forse solo un taglio di tornante, raggiungo comunque Torre di Santa Maria e il parcheggio dove mi aspetta la mia macchina.
Con il primo caldo e una visita di Stefano in Valtellina si apre ufficialmente la stagione dei giri spaziali ad alta quota. Oggi tocca alla selvaggia val Terzana, sconosciuta ai più, che confina con le arcinote Val Masino e Valmalenco e offre paesaggi altrettanto spettacolari, di cui si può godere in completa solitudine. Tra i tanti vantaggi, questo posto meraviglioso ha anche quello di trovarsi sopra a casa mia! Attenzione: sentieri adatti solo a escursionisti esperti.
Al Pizzo Bello ero già stata con Lucia, mentre mi mancava il passo Scermendone, che collega la val Terzana con la val Caldenno e da cui passa una variante del Sentiero Italia. Sia io sia Ste siamo troppo fuori allenamento per spararci 2500 m di dislivello, ma abbiamo voglia di alta montagna, così decidiamo per una volta di fare i fighetti e di salire in macchina fino a Prato Maslino, uno degli alpeggi di Berbenno di Valtellina. La strada per Prato Maslino richiede una certa abilità alla guida e un po’ dimestichezza con tornanti e sterrato.
Da Prato Maslino, seguendo le indicazioni per Prato Isio, partiamo corricchiando per la traversata, circa 3 km e mezzo di saliscendi perfetti come riscaldamento prima della salita vera e propria.
Ho scoperto a mie spese che la traversata Maslino-Isio, facile e divertente nella stagione estiva, con la neve può diventare davvero pericolosa: assolutamente da evitare in inverno. Oggi invece ci godiamo questa corsetta e in meno di mezz’ora raggiungiamo Prato Isio, dove troviamo una prima fontana.
Scendiamo brevemente per prendere la strada carrozzabile verso Caldenno e troviamo le indicazioni del Sentiero Italia, che passa da Prato Maslino verso la val Caldenno nella sua variante bassa, dal passo di Scermendone verso il passo di Caldenno nella sua variante alta. Con il nostro anello passiamo prima dalla variante bassa e poi in senso opposto da quella alta.
Seguendo la strada in leggera salita, sempre corribile, raggiungiamo l’alpe Caldenno, dove troviamo un’altra fontana. Da qui, la pendenza del sentiero cambia radicalmente. Cominciamo a inerpicarci per la bella val Caldenno, seguendo il corso dell’omonimo torrente accompagnati dal fragore della cascata. Man mano che saliamo, si apre davanti a noi la vista dei Corni Bruciati.
Con un ultimo strappo piuttosto ripido raggiungiamo un pianoro dove possiamo, sia pur brevemente, tirare il fiato. Siamo ormai sui 2400 m e la quota comincia a farsi sentire! Troviamo le indicazioni per il passo Caldenno, verso destra, e quelle che interessano a noi per il passo Scermendone, verso sinistra.
Le montagne sembrano una muraglia invalicabile, ma il sentiero c’è e i bolli sono freschi ed evidenti. Li seguiamo fino alla fine del pianoro e lungo una nuova, ripida salita, mentre intorno a noi le marmotte fischiano allarmate: non sono abituate alla presenza degli umani! In effetti da quando siamo partiti non abbiamo incontrato anima viva, e nessuno incontreremo fino alla vetta del Pizzo Bello.
Il sentiero per il passo Scermendone non è difficile, almeno in assenza di neve. Certo si tratta di un ambiente severo di alta montagna, che richiede esperienza e dimestichezza con ghiaioni e pietraie. Ben presto arriviamo al passo, a poco meno di 2600 m di quota, e la vista si apre sulla val Terzana in tutto il suo splendore.
Seguiamo ora le indicazioni verso sinistra per il Pizzo Bello. La cima si vede e sembra vicinissima: pensiamo di raggiungerla in fretta, tornare indietro e scendere al laghetto Scermendone prima di risalire alla cima di Vignone, per un giro totale di una ventina di chilometri. In realtà siamo più lenti del previsto: in quest’ultimo tratto tra il passo e il Pizzo Bello, in assoluto il più selvaggio di tutto il percorso, troviamo ancora della neve ghiacciata e, non avendo con noi i ramponcini, ci tocca ravanare nella pietraia per evitarla.
Una lingua di neve particolarmente ampia mi fa decidere di scendere di qualche decina di metri per attraversare in sicurezza, per cui il dislivello totale della mia traccia potrebbe risultare maggiore del normale.
Riguadagnato il sentiero dopo la ravanata, ci è passata la voglia di tornare indietro per questa via e decidiamo di accontentarci di un giro più breve, scendendo direttamente all’alpe Vignone. Prima, però, saliamo in vetta al Pizzo Bello per goderci il panorama che spazia dal gruppo del Bernina al Disgrazia e al Badile. Qui incontriamo una persona (e un cane) per la prima volta da quando siamo partiti.
Dopo una meritata merenda con vista, torniamo brevemente sui nostri passi scendendo dalla cresta del Pizzo Bello, poi, lasciandoci alle spalle le roccette della val Terzana, cominciamo la discesa per i verdi prati che ci separano dall’alpe Vignone.
I bolli nel prato si vedono e non si vedono. Prestate attenzione e, se li perdete di vista, tornate indietro: anche tra questi verdi pascoli le pendenze non scherzano ed è meglio seguire sempre il sentiero. Poco prima di arrivare all’alpeggio, dove naturalmente ci sono delle fontane, incontriamo un gruppo di tre escursionisti. Con così poca gente in giro, è un piacere fermarsi a salutare e fare due chiacchiere!
Superata l’alpe Vignone, proseguiamo in discesa verso Prato Maslino. Il sentiero, finora piuttosto scosceso, diventa sempre più morbido e corribile, soprattutto quando si rientra nel bosco. Ancora pochi chilometri e arriviamo a Prato Maslino.
Attraversiamo l’alpeggio prima seguendo la strada carrozzabile, poi tagliando un po’ a caso per i prati, e ben presto raggiungiamo la macchina.
Se il sabato a pranzo si è invitati a una grigliata a Branzi, non si può non cogliere l’occasione per una corsetta apri-stomaco ai popolarissimi laghi Gemelli per una via di salita alternativa a quella da Carona. Con Meme, Yaz, Samu e Tony parcheggiamo con calma verso le 9 nell’ampio e semi deserto parcheggio vicino al centro sportivo di via Cagnoli e prendiamo la mulattiera in salita verso il rifugio Laghi Gemelli.
Partiamo insieme e facciamo una danza del serpente al contrario, separandoci via via lungo il percorso. Yaz decide di salire con calma e ci saluta poco dopo la partenza, mentre Tony, che diversamente da noi non ha in programma una grigliata a mezzogiorno, bensì una quarantina di chilometri per andare a trovare la mamma a Serina, parte in quarta e detta un passo militare.
Il primo lago che raggiungiamo è il Casere (1841 m): attraversiamo la diga e ci ricongiungiamo al percorso “classico”, decisamente più affollato del nostro, che sale ai laghi Gemelli da Carona. Arriviamo al rifugio Laghi Gemelli (1968 m) in un’ora e mezza dal parcheggio.
Qui Tony ci saluta e prosegue verso l’Alpe Corte. Anche Samu decide di tornare indietro a cercare Yaz, non si capisce se per galanteria o perché sta per cominciare la parte corribile del giro, quella che proprio non sopporta. Solo con Meme mi avvio dunque verso la diga dei laghi Gemelli.
Superata la diga proseguiamo a sinistra verso il lago Colombo (2046 m), che raggiungiamo con un ultimo, breve strappo in salita.
Di fronte a noi svetta il pizzo del Becco, meta di un giro più lungo provato qualche anno fa; svoltiamo a sinistra seguendo le indicazioni per il giro dei laghi e cominciamo la discesa.
Il sentiero qui è davvero piacevole, corribile e poco battuto rispetto a quello per i laghi Gemelli. Ben presto arriviamo al lago Becco (1872 m).
L’espressione corrucciata di Meme dipende dal fatto che un cartello, a questo punto, indica il lago Marcio in una direzione diversa da quella che ho deciso di seguire. Brontola, ma alla fine accetta di proseguire per un breve tratto in direzione Carona, prima di raggiungere comunque il lago Marcio (1841 m) per altra via.
Costeggiamo ora il lago Marcio lungo un bel sentiero pianeggiante, il solito che arriva da Carona, fino a tornare sul percorso da cui siamo arrivati. Qui recuperiamo Yaz e Samu in discesa dai laghi Gemelli. Ricomposto il quartetto, scendiamo dallo stesso sentiero da cui siamo saliti. Al centro sportivo troviamo anche una canna per darci una sciacquata, poi, con lo stomaco ormai ben aperto, ci avviamo alla meritata grigliata.
Era da un po’ che lo puntavamo, e finalmente siamo riuscite a ritagliarci tre giorni per esplorare questo cammino dal nome evocativo, un po’ fuori mano, certo, per chi arriva dal nord Italia, ma decisamente all’altezza della sua fama. I paesaggi e il silenzio delle selvagge montagne abruzzesi, insieme all’accoglienza calorosa riservataci dai locals, valgono bene la trasferta e qualche sbattimento.
Il team delle Martas, quest’anno troppo indietro con la preparazione atletica per affrontare più di ottanta chilometri di corsa, ha pensato bene di caricare gli zaini con tenda, sacco a pelo, provviste e fornelletto, e di partire per una volta in modalità trekking. Ma queste facili mulattiere con pendenze modeste sarebbero il terreno ideale per un ultratrail: se vi serve un “lunghissimo” in preparazione a qualche gara, tenete in considerazione questo percorso, che con il giusto allenamento si potrebbe fare di corsa, senza ammazzarsi, forse in quindici ore o anche meno. Lungo tutto il cammino si trovano fontane, che però possono essere chiuse nel pomeriggio o la sera. Non si trovano cestini o cassonetti per la spazzatura se non nei paesi più grandi nella seconda metà del cammino, da Magliano de’ Marsi in poi.
Le principali informazioni sul Cammino dei Briganti, un percorso ben segnato e in ottime condizioni, si trovano su questo sito. Come vedrete, ci sono alcune varianti e il tempo di percorrenza consigliato è di sette giorni. Io vi propongo qui il giro come l’abbiamo fatto con Marta, dato che la nostra organizzazione ci è sembrata ragionevole: partite in auto da Milano alle 7 del venerdì mattina, abbiamo attaccato il cammino verso le 14,30, percorrendo 22 km prima di piantare la tenda a Villerose; il sabato ci siamo sparate 44 km da Villerose a Scurcula Marsicana passando per il lago della Duchessa – l’unico punto di vera montagna, dove si concentra la maggior parte del dislivello; infine la domenica abbiamo percorso gli ultimi chilometri, raggiungendo la macchina prima di mezzogiorno e riuscendo a tornare a Milano a un’ora accettabile.
La partenza è da Sante Marie, in realtà l’unico dei paesi del cammino che non abbiamo attraversato: abbiamo infatti parcheggiato vicino alla stazione, a fondovalle rispetto al centro del paese, e lì ci siamo fermate alla fine del giro, tagliando forse un paio di chilometri e un centinaio di metri di dislivello rispetto al percorso “corretto”. La prima tappa è S. Stefano, un grazioso paesino ad appena 5 km dalla stazione di Sante Marie, ed è qui che ci dirigiamo seguendo le indicazioni. Dopo un primo tratto di salita, la pendenza diminuisce e il cammino diventa facile e piacevole.
Raggiungiamo ben presto S. Stefano e facciamo un primo rifornimento d’acqua. Nonostante sia pomeriggio, le fontane sono ancora aperte: a quanto pare in questo periodo vengono chiuse solo di sera. Il paese successivo è Poggiovalle, un posto davvero suggestivo, semi deserto e circondato solo da natura e silenzio.
Da qui si scende in direzione Nesce, da cui però non passiamo: prima di arrivare in paese, il cammino devia tutto a destra e ci porta in un ampio pianoro ai piedi di Poggiovalle.
Dopo un paio di chilometri completamente in piano, immerse nel silenzio più totale, incontriamo un gregge di pecore accompagnato da cani pastore (in questo caso poco aggressivi, ma fate attenzione!) e arriviamo in vista di Villerose, dove abbiamo intenzione di passare la notte.
Le indicazioni qui non sono chiarissime, ma il paese è sempre visibile e in qualche modo lo raggiungiamo. Il problema, ora, è recuperare dell’acqua per la cena. Non troviamo fontane e il paese è completamente deserto. Lo attraversiamo (non ci vuole molto) e finalmente intravediamo una persona in lontananza: allunghiamo il passo e raggiungiamo il simpatico signor Alberto, che si fa davvero in quattro per aiutarci. La fontana è poco più avanti, dice, ma a quest’ora ormai è chiusa. Nessun problema, ci darà lui un paio di bottiglie d’acqua. Ci sconsiglia di piantare la tenda nel bosco, ci sono gli animali!, meglio accamparci nel campo da calcio abbandonato in mezzo al paese, dove non ci disturberà nessuno. Anzi, va lui stesso a informare i vicini, che approvano e si rendono disponibili per qualsiasi ulteriore necessità. Riconoscenti per tutta questa gentilezza, non ci poniamo problemi e ci sistemiamo nel campo da calcio (“in mezzo, eh! non sui lati”) come indicato dai simpatici abitanti di Villerose.
Dormire in mezzo a un prato dall’erba alta, lontano da qualsivoglia edificio, albero o altra forma di riparo, non è in realtà un’idea geniale, ma ce ne rendiamo conto solo qualche ora più tardi, quando ci ritroviamo nel sacco a pelo a battere i denti con la tenda che gocciola per l’umidità. Niente, per questa notte è andata così. Con le prime luci raccogliamo faticosamente le nostre cose – la tenda e i sacchi a pelo sono fradici, ma ci riproponiamo di farli asciugare più tardi, quando il sole sarà alto – e ci prepariamo la colazione con l’ultima acqua del signor Alberto. Altri signori del paese, che stanno andando a raccogliere funghi, si fermano a fare due chiacchiere mentre ci riscaldiamo con un bel nescafè e un muesli dal gusto discutibile. Infine salutiamo tutti e ci mettiamo in marcia.
Con qualche saliscendi tra piacevoli sentieri e strade sterrate, con un passaggio in una palude di fango breve, ma sufficiente a bagnarci e inzaccherarci completamente i piedi, arriviamo a Spedino, dove troviamo una fontana funzionante, e proseguiamo per Cartore. Tutte le nostre speranze di procurarci qualcosa per pranzo si concentrano su questo paesino, che vanta persino una locanda.
Una enorme scritta in 3D ci avverte che stiamo entrando nella riserva della Duchessa. Di fronte a noi si stagliano le montagne che stiamo per affrontare. Sappiamo che a Cartore comincerà la sola vera salita del percorso, circa 1000 m D+ per arrivare al lago della Duchessa.
Arriviamo a Cartore e per la prima volta troviamo un piccolo affollamento: c’è infatti chi arriva qui in auto per un trekking al lago della Duchessa. Troviamo una fontana e un piccolo ristoro, la locanda dei Casali di Cartore, i cui gentilissimi gestori ci preparano dei panini, ci danno informazioni sulla presenza di acqua lungo il percorso e ci permettono persino di gettare nei loro bidoni la spazzatura che, in mancanza di cassonetti, abbiamo portato fin qui. Ci viene indicata una fonte poco prima del lago, per cui decidiamo di riempire solo una borraccia a testa.
Alla fine la salita è tutta all’ombra e non abbiamo neanche la necessità di fermarci a cercare la fonte prima del lago. Marta zampetta tranquilla nonostante lo zaino, mentre io, che non sono abituata a fare dislivello con tutto questo peso sulle spalle, trovo la salita particolarmente faticosa. Poco male, ben presto ci ritroviamo fuori dal bosco e circondate da montagne bellissime. Abbiamo superato gli altri escursionisti, per cui ci godiamo il panorama in perfetta solitudine!
La parte più bella, in realtà, è quella dopo il lago, che tanti saltano per tornare a Cartore, dove lasciano lo zaino, e riprendere il cammino da lì. Io consiglio caldamente di sopportare il peso dello zaino e fare tutto l’anello, superando il lago della Duchessa (1788 m) e raggiungendo il passo (di cui non mi è chiaro il nome) a poco meno di duemila metri di altezza, scendendo da lì a Rosciolo de’ Marsi senza ripassare da Cartore.
Una distesa di crochi e le ultime chiazze di neve ci accompagnano verso il passo, il vocio degli altri escursionisti ormai lontano dietro di noi. Non incontreremo anima viva, salvo un branco di cinghiali, per i prossimi 10 km.
Cominciamo la lunga discesa per Rosciolo de’ Marsi. Non c’è nessuna indicazione e il sentiero sembra davvero poco battuto, ma è comunque evidente. Il primo tratto è un po’ scosceso, anche se la classificazione dell’itinerario come EE ci è parsa eccessiva, almeno adesso che non c’è neve.
Perdiamo circa cinquecento metri e la pendenza si fa sempre più dolce, mentre il sentiero si trasforma in strada sterrata. Alla fine della discesa, svoltiamo a sinistra verso Rosciolo de’ Marsi e cominciamo l’ultima salita di oggi, circa 200 m D+, particolarmente faticosa per il caldo. Sono infatti le 14 e stiamo aspettando di trovare una fontana per concederci finalmente la nostra pausa pranzo con i panini acquistati a Cartore.
La salita ci porta a un bell’altopiano coronato dalle montagne, dove incontriamo magnifici cavalli al pascolo – una costante da queste parti – e persino un paio di umani. Scendiamo ora verso Rosciolo e, poco prima di raggiungere il paese, troviamo la sospirata fontana davanti alla chiesa romanica di Santa Maria in Valle Porclaneta.
Prima di tirare fuori i panini, stendiamo tenda e sacchi a pelo sul sagrato della chiesa: basta una mezz’oretta sotto il sole e asciuga tutto! L’acqua fresca, poi, è davvero un toccasana dopo il caldo degli ultimi chilometri. Chi volesse fare il giro in due giorni, o comunque dividere diversamente il percorso, può pensare di accamparsi qui: il posto è ideale e la fontana comodissima.
Ci rimettiamo in cammino e, superata Rosciolo, per facili strade bianche raggiungiamo Magliano de’ Marsi, che rispetto ai paesi attraversati finora ci sembra una metropoli.
Qui troviamo negozi, ristoranti e bar, ma siamo intenzionate a proseguire fino al paese successivo, Scurcula Marsicana. A questo punto io ho le vesciche ai piedi e l’idea fissa di una birra gelata, per cui è Marta a preoccuparsi della strada da seguire e del posto per piantare la tenda. Pare che ci siano due varianti, entrambe indicate come Cammino dei Briganti: noi scegliamo appunto quella che passa da Scurcula Marsicana. In paese troviamo le fontane chiuse, ma in un negozio di alimentari facciamo scorta di acqua, succo di frutta e birra (yeah!).
Dopo 44 km la birra ce la ben siamo meritata, no? Per di più in questo paese ci sono cestini e cassonetti per la raccolta differenziata, per cui non dobbiamo neanche portarci dietro le bottiglie vuote. Stanche ma ormai serene con i nostri tre litri d’acqua, principale preoccupazione per la sera, proseguiamo lungo il cammino superando Scurcula Marsicana e cominciando a cercare un posto per la tenda. Troviamo una casa abbandonata con un giardinetto riparato, seppure infestato dalle ortiche, che sembra fare al caso nostro. Per sicurezza ci confrontiamo con il proprietario della casa accanto e, per non farci mancare niente, anche con l’autista di un trattore di passaggio: niente, pare che la nostra presenza non dia fastidio a nessuno, siamo anzi le benvenute.
Ci sistemiamo nel giardinetto abbandonato e, sul ciglio della strada, Marta prepara la cena mentre io con ago e filo mi occupo delle mie vesciche. Il riso con gli sgombri sembra più buono del normale dopo questa lunga giornata in cammino.
Riparato è riparato, ma con la temperatura non è che vada molto meglio di ieri. “Non è il freddo, è l’umidità” è diventato il Leitmotiv del weekend. Se proprio vogliamo vedere il lato positivo della seconda notte in bianco, all’alba siamo già pronte con il nostro nescafè e riusciamo a metterci in cammino davvero presto. Dopo un facile tratto di strada, arriviamo al bivio con indicazioni per Le Crete, da cui non dobbiamo passare; prendiamo invece il sentiero a destra per San Donato, dove finalmente vediamo le prime indicazioni anche per Sante Marie.
Raggiungiamo il paese, dove troviamo una fontana, e proseguiamo in salita lungo l’antica mulattiera che una volta portava alla rocca di San Donato. Oggi non sono rimasti che dei ruderi, ma il percorso è davvero suggestivo.
Seguiamo il cammino che si inoltra tra un gruppo di case abbandonate ma, poco dopo, perdiamo di vista il segnavia e proseguiamo un po’ a caso lungo un sentiero non proprio battutissimo. Il percorso è comunque molto panoramico e ci riporta ben presto sulla retta via all’altezza dei ruderi dell’antico castello.
Dopo i ruderi comincia la discesa. Siamo in un ambiente collinare ma davvero bello e selvaggio, immerso nel silenzio e popolato solo da animali al pascolo.
I paesi successivi sono Scanzano e poi Tubione: in entrambi troviamo fontane e precise indicazioni. Ormai la nostra meta, Sante Marie, è davvero vicina!
Da Tubione scendiamo a fondovalle e ben presto ci ritroviamo accanto ai binari della ferrovia dove abbiamo lasciato la macchina. Sante Marie si erge poco più in alto sulla nostra sinistra, ma a questo punto il giro è praticamente finito e decidiamo di tagliare l’ultimo pezzo. Approfittiamo di un sottopasso per attraversare i binari e arriviamo alla stazione di Sante Marie, stanche ma decisamente soddisfatte!
Erve – Magnodeno (1241 m) – Creste della Giumenta (EE) – Passo del Fo – Piani d’Erna – Passo del Giuff – Colletto di Brumano – Monte Resegone (1875 m) – Passo del Fo – Capanna Monza – Erve via sorgente San Carlo.
Una fredda domenica dal meteo incerto è l’occasione ideale per una corsetta sul Resegone, troppo frequentato nei weekend di bel tempo. Ha nevicato, ma non sappiamo quanto: io e Tony partiamo quindi ben coperti e con i ramponcini nello zaino.
Uno dei miei percorsi preferiti è quello che da Erve sale al Magnodeno e percorre poi le Creste della Giumenta, un sentiero solo per escursionisti/runner esperti, fino al passo del Fo e a Capanna Ghislandi. Potete trovare qui una versione più breve dello stesso giro. Dal passo del Fo, invece che ridiscendere subito a Erve, io e Tony abbiamo seguito l’anello del Resegone verso i piani d’Erna e il passo del Giuff, per poi salire in vetta al Resegone dal Colletto di Brumano.
Sul versante settentrionale, tra i piani d’Erna e il colletto di Brumano, ci siamo trovati immersi in un clima polare, con il sentiero coperto di ghiaccio e un sottile strato di neve fresca (ramponcini a tratti utili, ma non indispensabili). Su quello meridionale, invece, abbiamo trovato condizioni più miti, con le primule in fiore e qualche raggio di sole. La partenza è appunto da Erve, dove troviamo parcheggio nella piazzetta davanti alla chiesa. Si attraversa il ponticello e si seguono senza possibilità d’errore le indicazioni per il Magnodeno.
Ci sono diversi sentieri: noi seguiamo quello in direzione “falesia”, facile e panoramico, che in breve ci porta in vista della croce di vetta del Magnodeno. Dal momento in cui si intravede la croce a quello in cui si arriva effettivamente in cima passa parecchio tempo, con alcuni tratti ripidi e faticosi. Ma veniamo ripagati da una vista fantastica, che spazia dalla valle dell’Adda fino alla Valsassina.
Dopo la foto di rito, torniamo sui nostri passi e scendiamo brevemente lungo un ripido sentiero. Al primo bivio teniamo la sinistra e al secondo prendiamo il sentiero in leggera discesa verso destra. Perdiamo un po’ di quota attraversando il bosco fino ad arrivare a una fontanella (chiusa, come tutte quelle che troveremo da qui fino alla sorgente San Carlo). In questo punto si dividono il sentiero n. 23, indicato – in modo un po’ eccessivo – come EEA, e il n. 24, escursionistico e più veloce: entrambi portano al passo del Fo e si ricongiungono un chilometro e mezzo più avanti, alla fine delle creste.
Le Creste della Giumenta sono divertenti e panoramiche, a patto di non soffrire di vertigini. Ci si arrampica su e giù per roccette attrezzate con catene, fino a raggiungere Capanna Ghislandi, dove si riprende un sentiero di grado escursionistico.
Ci troviamo qui al passo del Fo e dobbiamo seguire le indicazioni per i Piani d’Erna lungo l’anello del Resegone. Il sentiero è facile, semipianeggiante e bene indicato. Ci troviamo ben presto a un bivio, dove teniamo la sinistra seguendo le indicazioni per la funivia. Questa è la variante EE dell’anello del Resegone, mentre quella escursionistica passa poco più in basso.
Il sentiero in realtà è sempre corribile, tranne per un brevissimo tratto dove una catena aiuta nell’attraversamento di un canale. Ben presto raggiungiamo i Piani d’Erna e proseguiamo in salita verso il passo del Giuff.
Il clima cambia radicalmente mentre ci spostiamo verso nord: la temperatura si abbassa e troviamo il sentiero ricoperto di neve e ghiaccio. Proseguiamo in leggera salita, con lunghi tratti corribili, fino al passo del Giuff (1515 m), poi, da qui alla sorgente delle Forbesette, possiamo tirare il fiato con una bella discesa. A un nuovo bivio, dove troveremo le indicazioni per la vetta del Resegone e il rifugio Azzoni (da non confondere con il rifugio Resegone, che si trova molto più in basso), abbandoniamo l’anello e intraprendiamo l’ultima salita del nostro giro.
Poco meno di 500 m di dislivello ci separano dalla croce di vetta e, nonostante le condizioni non ottimali, troviamo decine di escursionisti che salgono e scendono – si tratta della classica salita al Resegone da Brumano.
Infreddoliti e anche piuttosto affamati, considerando che siamo in giro da quasi quattro ore con solo un paio di gel sullo stomaco, raggiungiamo il rifugio Azzoni e valutiamo di fermarci per una fetta di torta. La ressa però ci dissuade e decidiamo di tirare dritto fino a Erve, non prima di essere saliti alla croce per una foto – che oggi esce più bella del solito, perché qualcuno ha installato tra le rocce la bandiera della pace.
Sempre più congelati, cominciamo la discesa dal sentiero n. 1, la via normale per i Piani d’Erna. Torniamo finalmente sul versante solivo del Resegone e recuperiamo una temperatura corporea accettabile. Dopo un breve tratto ancora per roccette, il sentiero diventa corribile, e qui ci riscaldiamo davvero! Abbandoniamo il sentiero principale per prendere il cosiddetto Sentiero della Staffa – molto poco battuto – che taglia verso sinistra in direzione Capanna Ghislandi / Passo del Fo.
Passando dall’attacco della ferrata del Centenario, arriviamo al passo del Fo e a Capanna Ghislandi.
Da qui seguiamo le indicazioni e il facile sentiero per il rifugio successivo, Capanna Alpinisti Monzesi (o Capanna Monza).
Scendiamo ora lungo il sentiero principale verso Erve. A un bivio, prendiamo la facile discesa che passa per la sorgente San Carlo e lungo il corso del torrente Erve: tra le due varianti, è quella più corribile e veloce, e a noi lo stomaco brontola dalla fame! Percorriamo in fretta i circa 4 km che ci mancano e, arrivati in paese, ci precipitiamo al circolo Arci dove veniamo rifocillati con ottimi panini e birra.
Bivacco Kima e bocchetta Roma (33 km – 2100 m D+)
11 Agosto 2022 by marta • Valtellina Tags: alta via, bivacco kima, bocchetta roma, corsa in montagna, filorera, kima, predarossa, rasica, rifugio ponti, sentiero roma, skyrace, trail running, val cameraccio, val di mello, val masino, valtellina • 0 Comments
Con gli imprevisti tipici del sentiero Roma, è uscito un giro diverso da quello che avevo in mente, ma comunque un gran bel giro!
Periodo: Agosto 2022
Partenza: Filorera (841 m)
Distanza: 33 km
Dislivello: 2100 m
Acqua: fontane solo in discesa, ma ci sono tanti ruscelli!
GPX (clic dx, salva link con nome)
“Mi raccomando, non perdetevi” (cit. signora Luisella, h 7:00).
Detto, fatto: h 9:00, perse. Ecco il racconto di un’ordinaria giornata sul sentiero Roma con Lucia.
Attenzione: percorso adatto solo a escursionisti/runner più che esperti, e occhio al meteo!
L’idea era quella di risalire la val di Mello, andare a intercettare il sentiero Roma nell’austera val Cameraccio, seguire il percorso del Kima (per chi fosse interessato, ecco il link dell’epico giro provato nel 2020) giù per il passo Cameraccio, superare il passo Torrone, raggiungere il rifugio Allievi e da lì scendere per la val di Zocca fino a San Martino. Per aumentare il chilometraggio ed evitare il caos di San Martino Beach, dove orde di bagnanti rendono ormai invivibile la bella val di Mello, abbiamo deciso di partire da Filorera, dove i parcheggi sono gratuiti e le pozze meno affollate.
A Filorera lasciamo l’auto lungo il torrente e prendiamo la pista ciclo-pedonale che in 2 km ci porta a San Martino. Percorriamo così a ritroso gli ultimi 2 km del Kima, nota skyrace a cui Lucia è iscritta per l’ennesima volta e che si svolgerà tra poco, nell’ultimo weekend di agosto. Il sentiero Roma in queste settimane è affollatissimo di atleti che si preparano appunto a questa gara, forse la più selettiva nel panorama dello skyrunning italiano.
Da San Martino prendiamo il sentiero che risale la val di Mello a destra del torrente: dall’altra parte c’è la strada, molto più affollata. Sono le 7 e mezza del mattino e la valle è ancora quieta, complice probabilmente il cielo nuvoloso. Meteo non ideale per il sentiero Roma, ma di sicuro perfetto per la val di Mello!
Sono circa 5 km di sentiero morbido e corribile, prima del vertical che ci aspetta da Rasica al sentiero Roma. Il bosco qua e là si apre lasciando intravedere le famose pozze del torrente Mello, dove si riflettono le imponenti pareti di granito che racchiudono la valle.
Attraversiamo infine il torrente e seguiamo le indicazioni per Rasica, senza prendere il sentiero che sale verso la val di Zocca e il rifugio Allievi. Tra le valli laterali della val di Mello, da cui si può accedere al sentiero Roma, la val di Zocca è l’unica un po’ battuta, con un sentiero degno di questo nome. Tutte le altre, inclusa la val Cameraccio dove ci accingiamo a salire, sono ripide e selvagge, frequentate quasi esclusivamente dagli animali. Il telefono non prende quasi mai e i “sentieri” non sono altro che sequenze di bolli tra l’erba alta, spesso poco visibili. Insomma, un ambiente impervio e ostile, ma proprio per questo estremamente affascinante.
Raggiungiamo Rasica e siamo ormai alla fine della val di Mello. Abbiamo fatto solo 500 m di dislivello in 7 km e non vediamo l’ora che il sentiero si impenni un po’, in modo da avere una buona scusa per smettere di correre. Il bivacco Kima da qui è indicato a 7 ore di cammino, forse un po’ eccessivo anche per i tempi CAI… ci ho messo 7 ore a fare tutto il giro, comprese le ricerche di Lucia!
Ci inoltriamo nel bosco dove incontriamo due signori in cerca della val Torrone: con una certa convinzione li rimando indietro, per poi ricordarmi – troppo tardi – che per la selvaggia val Torrone si segue per un tratto lo stesso nostro sentiero e si prende poi un sentierino secondario verso sinistra. Spero che non mi abbiano odiato troppo!
Fino alla casera di Pioda il sentiero è in ottime condizioni. Oltre la casera, ringraziamo solo che prima di noi siano passate delle mucche, altrimenti non vedremmo neanche la traccia nell’erba alta. La salita è ripida e faticosa, tra zolle di terra che si staccano, rigagnoli da attraversare, erbacce e arbusti che ci graffiano le gambe. Lucia è parecchio avanti, mi fermo un paio di volte per foto e spuntino e tanto basta per perderla completamente di vista.
Man mano che guadagno quota la valle si apre e, nonostante la nebbia, mi perdo nella contemplazione di questo ambiente unico, delle aspre pareti di granito che svettano tutto intorno, della solitudine e del silenzio interrotto solo dai fischi delle marmotte. Arrivo a un bivio: a destra si va per la Ponti (indicata da una scritta sulla pietra), a sinistra per il passo Cameraccio (non indicato, ma è qui che dobbiamo dirigerci). Ora, da che parte sarà andata Lucia? Provo a chiamarla, aspetto un po’, riprovo, ma niente.
Bon, la direzione giusta è a sinistra, ci sono i bolli e per di più l’erba è calpestata. Decido di andare a sinistra. (Se rifate il giro, naturalmente vi conviene prendere il sentiero per la Ponti che vi fa tagliare un po’ di strada rispetto alla mia variante).
Non è stata Lucia a calpestare l’erba lungo il mio percorso e me ne rendo conto quando mi trovo muso a muso con una mucca, sbucata come un fantasma dalla nebbia che ormai pervade completamente la valle. Il nebbione non è anomalo da queste parti, è anzi una costante e rappresenta il primo fattore di rischio sul sentiero Roma.
I bolli e gli ometti qua e là si perdono, o quantomeno io li perdo di vista, ma riesco sempre a individuarne uno in lontananza per capire almeno indicativamente in che direzione muovermi. Un po’ per volta i pascoli cedono il posto alla pietraia: ormai non deve mancare molto al sentiero Roma, intorno ai 2500 m di quota.
Intercetto l’alta via e mi trovo davanti le indicazioni per il bivacco Kima, verso destra. Per il passo Cameraccio bisognerebbe prendere il sentiero Roma verso sinistra, ma so per certo che Lucia non ci sarebbe andata senza aspettarmi. La mia speranza è di trovarla al bivacco Kima e, a quel punto, mi viene l’idea di proseguire poi insieme verso la bocchetta Roma e il rifugio Ponti.
Al bivacco incontro diverse persone che stanno provando il giro del Kima, ma nessuna traccia di Lucia. Che fare? Rimanere qui è inutile, perché è evidente che ormai ci siamo mancate: al bivio deve avere preso l’altro sentiero, che non ho idea di dove porti (porta direttamente al bivacco Kima, come mi spiegherà poi Lucia). Se è scesa a cercarmi, con il ritmo che tiene in discesa difficilmente potrei raggiungerla. Senza contare che piuttosto che tornare da dove sono salita preferirei fare tutto il sentiero Roma fino alla Omio!
Lascio detto a tutti quelli che incontro di riferire a Lucia, nel caso la vedano, che sto bene e che ci rivedremo alla macchina. Non sono troppo preoccupata, Lucia in montagna si muove meglio degli stambecchi! Spero per lei che possa ancora unirsi a qualcuno per provare il passo Cameraccio, uno dei punti più tosti della gara. Da parte mia, so che il modo più veloce per tornare a Filorera è superare la bocchetta Roma, che ogni tanto si intravede tra le nuvole, e scendere al rifugio Ponti. Si tratta del rifugio più vicino e, avendo perso la socia, preferisco tornare il prima possibile nella civiltà e recuperare l’uso del telefono.
Nel 2020 aveva nevicato parecchio e, quando nel mese di luglio provai il giro del Kima, la neve arrivava praticamente all’altezza delle catene più basse: ricordo che appena scesa dalla bocchetta calzai i ramponcini e mi incamminai – con attenzione, ma senza grandi problemi – seguendo le tracce di chi ci aveva preceduto sul nevaio. Oggi scopro che la parte più brutta della bocchetta Roma è quella che allora era coperta dalla neve: un pendio ripido e scosceso con sassi di ogni dimensione che si muovono a ogni passo. Con delicatezza, cercando di non provocare frane, raggiungo le prime catene e da qui è tutto facile: questo tratto è molto più simpatico percorso in salita!
Scollino e mi trovo nell’enorme pietraia dell’alta valle di Predarossa. La bocchetta si trova a poco meno di 2900 m e l’ambiente, anche qui, è severo. Bisogna fare attenzione a non perdere di vista i bolli, che rimangono sempre alti poco sotto le creste. Il telefono risorge (tipo per mezzo minuto) e mi arrivano dei messaggi, tra cui una chiamata persa di Lucia. Provo a richiamarla ma ora è lei ad avere il telefono spento. Niente, scendo alla Ponti e chiedo consiglio a Eleonora, l’esperta rifugista. Secondo lei la cosa più probabile è che Lucia sia scesa a cercarmi e sia rimasta in mezzo alla val di Mello, dove non c’è campo. Rassicurata, continuo la discesa, ora su facile sentiero, e mi trovo nella bucolica valle di Predarossa.
Seguo il corso del torrente e raggiungo il parcheggio, da dove mi limito a seguire la lunga, noiosa ma rassicurante strada asfaltata in discesa. Nella parte alta ci sono dei tagli su sentiero, che evito perché ho le gambe distrutte e preferisco una corsa tranquilla senza colpi, mentre nella parte più bassa il sentiero è fuori uso da anni e bisogna per forza seguire la strada. Ogni pochi minuti provo a far partire una chiamata e finalmente il telefono di Lucia prende: sta scendendo da San Martino, per fortuna sana e salva! Percorro per inerzia gli ultimi chilometri di strada e finalmente la raggiungo, con le gambe a mollo nella pozza accanto a cui abbiamo parcheggiato.
La sua mattinata è andata così: al bivio ha preso il sentiero per la Ponti, senza vedere che ce n’era un altro; il suo sentiero portava direttamente al bivacco Kima, che quindi ha raggiunto molto prima di me; non vedendomi arrivare, è scesa a cercarmi; tornata senza successo in val di Mello, ha pensato di salire all’Allievi (si è presa pure un paio di coroncine Strava lungo la salita) per vedere se fossi finita lì; all’Allievi non c’ero e non ha incontrato nessuna delle persone a cui avevo affidato messaggi, per cui è scesa di nuovo e si è rimessa in marcia verso Filorera. Tutto è bene quello che finisce bene, ma sempre occhio alla nebbia e ai bivi in alta montagna!