Poco battuta e sconosciuta ai più, la val Brevettola merita decisamente una visita. I piemontesi l’avranno distrattamente incrociata salendo in auto verso i più popolari laghi della valle Antrona, mentre qualche runner potrebbe avere sentito parlare della skyrace che si corre ogni estate su questi sentieri: si tratta, in ogni caso, di un giro poco “mainstream”.
Il team val Brevettola
Con Michele, Irene e Martin decidiamo di approfittare di un bel sabato di ottobre per provare il giro della gara. La stagione è semplicemente perfetta: a questa quota, poco meno di duemila metri nei punti più alti, non ha ancora nevicato, ma fa abbastanza fresco da non doverci portare enormi scorte d’acqua.
Si parte dal piccolo borgo di Montescheno, a settecento metri. Ci sono una ventina di posti auto gratuiti in piazza, strategicamente vicini a un bar, a una fontana e persino a un bagno pubblico. Il giro comincia lungo la strada in leggera salita, superando la chiesa e un paio di tornanti. Cominciamo poi a salire per mulattiere che tagliano i tornanti, seguendo i bolli ancora evidenti della skyrace e i ricordi di Michele che, da bravo piemontese, questa gara l’ha già corsa più di una volta.
Pendenze impegnative.
Il tratto su mulattiera finisce ben presto: seguiamo brevemente la strada in leggera discesa per andare a imboccare il sentiero, dove comincia la salita vera e propria. Ci sono diverse indicazioni, ma il percorso da seguire è quello segnato dai bolli di colore arancione.
Questa salitona, oltre 1300 m nei primi 7 km, si divide in tre parti: un primo strappo piuttosto lungo e ripido nel bosco fino all’alpe Ortighè, a 1400 m circa, dove si tira brevemente il fiato con un tratto pianeggiante e corribile; una seconda salita altrettanto ripida, questa volta con una bella vista su sconosciute cime svizzere, che termina in un bel traverso corribile; infine un ultimo breve strappetto, appena cento metri di dislivello, per raggiungere l’alpe Ogaggia (1977 m).
Salita dall’alpe Ortighè all’alpe Ogaggia.Traverso corribile e super panoramico.
All’alpe Ogaggia il saggio Michele ci ricorda di rabboccare le flask, perché ci aspetta ora un lungo tratto in cui non incontreremo altra acqua.
Ultimo rifornimento d’acqua all’alpe Ogaggia.
Finalmente un po’ di discesa: perdiamo quasi trecento metri in una vallata ampia e completamente deserta. Le indicazioni da seguire sono quelle per il passo Arnigo.
Discesa dall’alpe Ogaggia verso il passo Arnigo.
Comincia ora la salita più ripida di tutto il giro: sono solo trecento metri di dislivello, ma la pendenza la rende davvero impegnativa.
La salita più impegnativa di tutto il giro.
Arriviamo così al passo Arnigo (1990 m), dove ci concediamo una pausa e una merenda prima della meritata discesa. La discesa, a dirla tutta, dura poco: solo un chilometro e mezzo, poi si sale di nuovo, mentre alle nostre spalle si apre uno scorcio spettacolare sulle montagne innevate della Svizzera.
Forse il punto più panoramico di tutto il giro.
Raggiungiamo il passo di Saudera (1890 m) e, da qui, riprendiamo a scendere lungo un sentiero relativamente semplice. Perdiamo quota fino al colle del Pianino (1620 m), da cui si dipartono due sentieri che portano ugualmente a Montescheno: noi seguiamo il C04 per cima del Moncucco, come nel percorso della skyrace. Dopo un breve falsopiano si scende a tutta nel bosco, incrociando un alpeggio e qualche baita. Nell’ultima parte ci orientiamo solo grazie ai bolli della gara, anche perché il sentiero non è in ottime condizioni e in alcuni punti si alterna alla strada. Ma ben presto siamo a Montescheno, pronti per stappare quattro birre alla salute di un altro gran bel giro in ottima compagnia!
Tra Italia e Francia sempre in quota, per ammirare da tutti i lati la montagna “a forma di montagna”.
Pian della Regina (1800 m) – Pian del Re (2020 m) – Buco di Viso (2880 m) – refuge du Viso (2460 m) – col de Valante (2815 m) – rifugio Vallanta (2450 m) – passo Gallarino (2726 m) – rifugio Quintino Sella (2640 m) – Pian della Regina.
Gli anelli, quelli belli! Era da anni che puntavo il Gran Tour del Monviso e un bel sabato di settembre, freddo e terso come piace a me, sono finalmente riuscita a organizzarlo. Ringrazio sin d’ora i miei cavalieri per un giorno, Michele e Andrea, compagni ideali per una corsetta senza pretese, decine di foto e chiacchiere a iosa al cospetto del Signor Viso.
Il team Monviso.
Il Monviso è tanto bello quanto remoto e, da Milano, richiede un viaggio piuttosto lungo. Con una sveglia assassina siamo riusciti a parcheggiare davanti al rifugio Pian della Regina, sopra Crissolo, alle 8,30 del mattino. Non avevo considerato il tempo che Michele necessita per cambiarsi, ma insomma per le 9 eravamo in marcia. Il giro si può fare in senso orario o antiorario e noi abbiamo scelto quest’ultima opzione – che ci ha regalato una prima salita molto dolce e una discesa finale piuttosto cattiva, forse meglio invertire?
Partenza da Pian della Regina.
Dal rifugio Pian della Regina, che dispone anche di un’area camper e di piazzole per le tende, si prende la stradina in discesa che sembra dirigersi proprio verso il Monviso, poi il sentiero in salita verso destra. La prima tappa è il Pian del Re, dove arriva anche la strada: dobbiamo farci largo tra le auto e gli escursionisti in partenza, ma superato il parcheggio torniamo subito sul sentiero.
La chiesetta di Pian del Re.
Con qualche sorpasso strategico ci portiamo in pole position su una salita davvero comoda, facile e morbida, seguendo le indicazioni per Pian Mait e Buco di Viso. Dai cartelli scopriamo di trovarci anche sul percorso della GTA, la Grande Taversata delle Alpi: da ogni giro nasce sempre lo spunto per il successivo.
La prima salita è facile e morbida.
Man mano che guadagniamo quota il sentiero si fa più roccioso, senza mai diventare eccessivamente tecnico. Ci stiamo avvicinando al Buco di Viso, la galleria dove si entra dall’Italia e si esce in Francia. Consiglio la frontale per l’attraversamento, anche se si tratta solo di un centinaio di metri: siamo quasi a 2900 m di quota, le temperature sono polari e il fondo è ghiacciato. Attenzione: l’accesso è vietato ai cani.
Freschino nel Buco di Viso.
Dopo un glorioso ingresso in territorio francese, cominciamo a scendere in una valle aperta e molto panoramica. Un ruscello d’alta quota ci accompagna lungo la discesa e ci fornisce il primo rifornimento d’acqua, anche se al refuge du Viso non manca poi molto.
Refuge du Viso.
All’esterno del rifugio, come ci era stato detto, troviamo una fontana a cui rabboccare le borracce e anche un minuscolo e grazioso WC.
WC ad alta quota.
Ci aspetta ancora un bel tratto in leggera discesa, con vista spettacolare sul versante francese del Monviso, prima di cominciare a inerpicarci per un sentiero roccioso, ma non troppo impegnativo, verso il col de Valante.
In salita verso il col de Valante.
Se tra il Pian del Re e il Buco di Viso abbiamo superato decine e decine di escursionisti, quassù siamo soli al cospetto del Re di Pietra. Ce lo godiamo in pace prima di cominciare la discesa per il Vallanta, il secondo dei tre rifugi lungo l’anello del Monviso. Anche qui c’è una fontana esterna, coperta di ghiaccio ma con acqua ancora corrente.
Fontana al rifugio Vallanta.
Dal Vallanta perdiamo quota lungo un sentiero che si trasforma via via in una stradina sterrata, noiosa ma veloce. Per la prima volta dalla partenza ci troviamo sotto i duemila metri e in un bosco: il sentiero da seguire, ora in salita, è l’U10 per passo Gallarino e rifugio Quintino Sella. Dopo qualche centinaio di metri di dislivello usciamo dal bosco e torniamo ad ammirare un panorama d’alta quota, in un ambiente che diventa sempre più lunare via via che ci avviciniamo al passo.
Verso il passo Gallarino.
Si alza il vento e la temperatura percepita si abbassa notevolmente, ma questa è la parte del giro che mi è piaciuta in assoluto di più. La salita è quasi finita e un bel tratto di sentiero corribile, con qualche saliscendi, ci accompagna fino al passo Gallarino. Qui si prosegue verso sinistra in discesa, verso il rifugio Quintino Sella, e il Monviso ricompare alla nostra sinistra in tutto il suo splendore.
Un’altra faccia del Monviso.
Ben presto arriviamo in vista del rifugio e del lago blu cobalto ai suoi piedi: per raggiungerli dobbiamo affrontare ancora un breve tratto di salita. Ci fermiamo al rifugio il tempo di rabboccare le flask e scambiare due parole con alcuni dei tanti alpinisti che oggi hanno raggiunto la vetta Monviso: molti altri stanno arrivando per provarci domani, o anche solo per ammirare dal basso il Re di Pietra.
Discesa su pietraia.
Affrontiamo l’ultima salitella, facendoci largo tra una processione di escursionisti e scalatori, e poi comincia finalmente la discesona finale. Siamo pronti a lasciare andare le gambe, ma la prima parte del sentiero è una pietraia dove da correre c’è ben poco. La vista in compenso è spettacolare: ogni curva ci regala uno scorcio nuovo e impagabile.
Man mano che perdiamo quota il sentiero diventa più corribile, anche se ne posso dire di averne visti di più semplici. Il dislivello è tanto ma finalmente arriviamo in vista prima del Pian del Re, poco più in alto alla nostra sinistra, poi del Pian della Regina, con il suo rifugio e la concreta promessa di una birretta fresca.
Su e giù per boschi, borghi pittoreschi e trincee della Grande Guerra, con scorci meravigliosi sul lago Maggiore.
Casalzuigno – Aga – Pozzopiano (981 m) – Vararo – Pizzoni di Laveno (1015 m) – rifugio Adamoli – San Michele – forte di Vallalta – Arcumeggia – Marianne – Casalzuigno.
Finalmente di ritorno sui sentieri, decido di esplorare le montagne tra la Valcuvia e il lago Maggiore: mi aspetto di trovarvi un ambiente silenzioso e selvatico, meno frequentato rispetto alle più popolari cimette del Campo dei Fiori, e disegno un giro con qualche chilometro su asfalto per recuperare il tempo che inevitabilmente perderò a scavalcare gli alberi caduti sui sentieri.
Se volete provare a ripeterlo, ecco i miei consigli:
Usate la traccia gpx, che ho ripulito dagli errori di percorso. Molti sentieri sono ben segnati, ma in alcuni punti ci si perde e non c’è anima viva a cui chiedere indicazioni.
La discesona su asfalto si può tagliare con sentierini di cui non ho verificato le condizioni. Non essendoci passaggio, non sono sicura che vengano puliti, ma volendo esistono.
Il sentiero Arcumeggia-Duno, che pensavo invece di trovare in buone condizioni, è franato e in questo momento non lo consiglio. Dovrebbe essercene un altro per scendere da Arcumeggia verso Casalzuigno, oppure si può optare di nuovo per la strada asfaltata.
Altri sentieri che qualche mese fa erano impraticabili sono stati ripuliti: nonostante il poco passaggio, c’è qualcuno che si prende cura di questi boschi! Lascio quindi nella traccia il sentiero franato, sperando che in futuro venga ripristinato.
Partenza da villa Bozzolo.
Il parcheggio più comodo da cui partire è quello, gratuito, della Villa della Porta Bozzolo, un’impressionante villa cinquecentesca gestita dal FAI. E non sarà l’unico pezzo di storia che incontrerò in questo giro. Guardando la villa, si prende la stradina a sinistra che attraversa il piccolo centro di Casalzuigno. Trovo delle indicazioni per sentiero 3V (Via Verde Varesina) e altre per Aga, prima tappa del percorso.
Mulattiera da Casalzuigno verso Aga.
Prendo dapprima una mulattiera in salita a sinistra del torrentello, che poi attraverso per proseguire verso Aga. Un sentiero taglia un paio di curve, per il resto seguo la strada e arrivo ben presto a questo minuscolo e grazioso borgo, a 500 m di altezza.
Aga, prima tappa.
Raggiunto il piccolo abitato, svolto a sinistra e supero le poche case, trovandomi ben presto sul sentiero per Pozzopiano. Oltre ai soliti bolli bianco-rossi, ce ne sono altri giallo-verdi, che penso appartengano al sentiero 3V. La salita nel bosco è facile e piacevole, ma dal numero di alberi sradicati capisco che dietro a questo bel sentiero c’è un lavoro immenso di ripristino dopo le tempeste dell’inverno.
Sentiero da Aga a Pozzopiano con doppi bolli.
Arrivo senza problemi a Pozzopiano (981 m), seconda tappa del mio giro, dove i cartelli danno Vararo, la tappa successiva, a 3 ore di cammino. Dopo avere attraversato il prato, occhio a prendere il sentiero che sale ripido nel bosco e non la stradina pianeggiante poco più in basso. Senza salire in cima al monte Nudo – di dislivello in questo giro ce n’è già abbastanza per le mie gambe poco allenate! – proseguo in piano nel bosco, che nel punto più alto è un vero campo di battaglia.
Bosco devastato dalle tempeste dell’inverno.
Dopo avere scavalcato qualche tronco e una ruspa parcheggiata, non trovo altri ostacoli e scendo lungo una stradina sterrata a tornanti in direzione passo Cuvignone. Con il senno di poi, sarebbe stato più bello passare dal vicino monte Crocetta, indicato al bivio, e di lì scendere a Vararo: peccato non averci pensato prima. Arrivo alla strada asfaltata e, senza raggiungere il passo Cuvignone, prendo il facile sentiero in discesa per Vararo.
Sentiero per Vararo.
Finalmente la vista si apre e le montagnette della Val Cuvia si mostrano in tutto il loro splendore.
Discesa panoramica verso Vararo.
Arrivo infine in paese, sperando di trovarvi dell’acqua: mi imbatto subito in un lavatoio, dove in realtà di acqua non ce n’è, ma trovo in compenso l’inquietante pupazzo di una lavandaia.
Lavatoio con finta lavandaia a Vararo.
Perplessa e assetata, supero le ultime case perdendo via via le speranze, ma alla fine c’è per fortuna una fontanella funzionante davanti al piccolo cimitero poco fuori dal paese. Riempio le borracce e proseguo in leggera discesa in direzione Casere. Lungo la strada, tra tante ordinate villette dai giardini impeccabili, trovo una casa che pare quella del Cappellaio Matto – forse l’autore della lavandaia di prima?
Cappellaio Matto?
Da Casere prendo il sentiero che sale ai Pizzoni di Laveno, quarta tappa del mio giro e vera attrazione della zona, dove incontro parecchi escursionisti. La cresta dei Pizzoni è l’unica parte un po’ tecnica del percorso, ma anche quella più panoramica.
Lago Maggiore dai Pizzoni di Laveno (1015 m).
La maggior parte degli escursionisti si ferma alla croce dei Pizzoni, ma trovo qualcuno anche sul sentiero che da qui porta al passo di Cuvignone. Girando sempre intorno al passo, che non raggiungo mai, scendo verso il rifugio Adamoli. Da qui, accendo la musica e mi armo di pazienza: mi aspettano diversi chilometri di strada a tornanti in discesa fino a un primo bivio, dove svolto a destra per Arcumeggia, e poi in piano fino al bivio per San Michele.
Stradina in salita per San Michele.
Qui mi aspettavo, a dire il vero, uno sterrato: invece la salita è ancora su asfalto, regno di ciclisti e di rumorosi motociclisti. Pazienza, un po’ correndo e un po’ camminando la percorro tutta e, dopo avere scollinato, prendo finalmente un sentiero segnato con il numero 9, non pulitissimo ma corribile, che scende verso San Michele, dove incrocio prima un bar-ristoro e poi una bellissima chiesa romanica.
Chiesetta romanica a San Michele.
Sono alla quinta tappa e ben oltre la metà del mio giro, con 20 km e buona parte del dislivello già fatti. Approfitto di una fontanella per riempire di nuovo le flask e riparto tranquilla in direzione Vallalta e Arcumeggia. Attraverso il minuscolo abitato e trovo un bel sentiero con qualche saliscendi, facile e corribile.
Sentiero 206/3V per il forte di Vallalta.
Scopro dai cartelli che da queste parti, durante la prima guerra mondiale, correva la linea Cadorna e, dopo un bivio dove proseguo lungo lo sterrato in salita, incontro alcune delle postazioni del forte di Vallalta.
Forte di Vallalta.
Dai cartelli mi sembra di capire che il forte vero e proprio di trovi poco oltre queste grotte e che si possa raggiungere tramite un sentiero, il 260, che ne percorre tutte le postazioni. Io proseguo invece in salita lungo il 206/3V e alla prima occasione abbandono la stradina sterrata per quella che mi pare una scorciatoia. Qui occorre seguire la traccia gpx, perché ci sono diversi sentieri e le indicazioni sono poche. Quello giusto sale dapprima molto ripido, poi sempre più morbido nella pineta, fino a incontrare una strada asfaltata che non capisco a che serva; qui proseguo ancora in salita nel bosco, su traccia sempre più fievole ma pur sempre visibile. Alla fine una discesa mi deposita su un altro sterrato, la vista si apre e la salita pare terminata.
Fine della salita.
Ricompaiono le indicazioni del sentiero 206 per Arcumeggia, ultima tappa del mio giro: le seguo trotterellando in discesa prima su un noioso sterrato, poi lungo un sentierino che mi conduce direttamente in paese. Arcumeggia, più che un semplice borgo, è una galleria d’arte a cielo aperto che meriterebbe una visita a parte: se vi interessa saperne di più, potete trovare qui qualche informazione.
Un affresco di Arcumeggia.
Riempio un’ultima volta le flask e mi avvio lungo la mulattiera in leggera salita che porta verso Duno. Anche qui si incrociano diversi sentieri, ma una volta imboccato quello giusto mi rilasso: sembra in ottime condizioni e già mi immagino di raggiungere l’auto in una mezz’oretta. Dopo averne già percorso una buona parte, trovo però il sentiero interrotto da una frana. Decido che attraversarla è troppo pericoloso e riesco ad aggirarla dall’alto, ma sconsiglio di ripetere l’operazione. Anche perché, superato il punto critico e raggiunta la mulattiera in discesa che mi deve riportare a Casalzuigno, scopro che si tratta di un’orribile striscia di cemento accidentata e con pendenza 25%, una gioia per i miei quadricipiti! Meglio trovare un’alternativa, se volete il mio parere.
Lido di Gavirate – chiostro di Voltorre – Comerio – Barasso – Luvinate – Il Poggio (507 m) – Velate – monte San Francesco (789 m) – stazione funicolare (1040 m) – monte Tre Croci (1084 m) – piazzale Belvedere (1120 m) – forte d’Orino (1139 m) – parco Morselli – lido di Gavirate.
Per cominciare bene l’anno e godermi le ultime ore di ferie, decido di salire al Campo dei fiori con un giro che sia il più semplice e rapido possibile: in tutto tre ore, di cui l’ultima al buio.
Il percorso è estremamente corribile, con l’eccezione della vertiginosa scalinata per la stazione della funicolare, che concentra 200 m di dislivello in 200 m di sviluppo! Il sentiero per il monte San Francesco è attualmente interrotto da piante cadute che richiedono un aggiramento macchinoso e fanno perdere un po’ di tempo, ma confido che presto sarà liberato; in alternativa, si può passare dal Sacro Monte allungando di poco il giro.
Chiostro di Voltorre.
Il percorso comincia dall’ampio parcheggio gratuito di fronte ai canottieri di Gavirate. Da qui seguo la pista ciclo-pedonale del lago di Varese tenendo il lago sulla destra fino alla deviazione, bene indicata, per il chiostro di Voltorre: lo trovo aperto e colgo l’occasione per entrare a dargli un’occhiata. Proseguo poi di corsa lungo stradine poco trafficate in leggera salita, attraversando le frazioni di Comerio e Barasso prima di prendere la strada statale, questa sì un pochino trafficata, ma con marciapiede, fino a Luvinate. Qui abbandono la statale e mi inoltro nel parco del Campo dei fiori, sempre su asfalto e in leggera salita fino alla località Il Poggio.
Alla località Il Poggio comincia il sentiero.
Finalmente l’asfalto cede il posto a un facile sentiero, che conosco per averlo già percorso in mountain bike. Prima in leggera salita, poi in leggera discesa, arrivo a Velate dove, se non erro, si trova l’ultima fontanella utile. Da qui seguo le indicazioni del sentiero 309 verso la località Monte San Francesco.
A Velate prendo il sentiero 309.
Dopo un ultimo tratto su asfalto, il 309 prosegue su sterrato e la salita si fa un poco più ripida. Il sentiero è sempre più sconnesso, come se vi fossero passate delle moto. Scavalco qualche tronco e mi trovo, in un punto, ad arrampicarmi su per il bosco per aggirare degli alberi caduti.
Alberi caduti sul sentiero 309.
Superato questo ostacolo, però, raggiungo senza ulteriori disagi la località Monte di San Francesco e successivamente la strada asfaltata. Seguo la strada verso destra per poche centinaia di metri, con una bella vista sul Sacro Monte, fino a raggiungere la scalinata per la stazione della funicolare.
Scalinata per la stazione della funicolare.
Non è la prima volta che la percorro: nota per essere la salita più tosta del Campo dei Fiori Trail, risulta sempre allenante, e un buon modo per mettere insieme parecchio dislivello in poco tempo. Il sole è ormai tramontato e, alle mie spalle, il Sacro Monte si sta illuminando.
Il Sacro Monte dalla stazione della funicolare.
Raggiunta la cima della scalinata, proseguo su pendenze più dolci seguendo la mulattiera chiamata “via sacra”, con targhe dedicate ai caduti dei vari corpi militari e non, fino al monte Tre Croci.
Monte Tre Croci (1084 m).
Da qui la vista spazia sui laghi e sui monti innevati del confine italo-svizzero, che sicuramente si vedrebbero meglio se non fosse nuvoloso e quasi buio, ma anche così il panorama non è affatto male.
Seguo ora il sentiero 301 in direzione piazzale Belvedere e forte di Orino. Una breve discesa mi porta a una strada asfaltata, che seguo per un breve tratto – prima in discesa, poi in salita – fino al belvedere, che trovo più affollato di quanto immaginassi a quest’ora.
Piazzale Belvedere.
Da qui in avanti seguo la strada militare, che è sterrata, ma pur sempre una strada: circa 4 km praticamente pianeggianti, facili e corribili, che portano al forte di Orino. Devo ormai procedere con la frontale accesa, ma il terreno è semplice e privo di insidie.
Strada militare per forte di Orino.
Giunta ai piedi del forte di Orino, mi risparmio l’ultima salitella per arrivare al punto panoramico: al buio non si vedrebbe comunque granché, e non sono sicura di avere caricato di recente la frontale. Prendo dunque il sentiero 13 in discesa a sinistra, che attraversa una zona un po’ triste con alberi morti da anni a causa di un parassita (a voler vedere il lato positivo, non c’è lo strato di foglie che in questa stagione rende insidiosi gli altri sentieri). Al primo bivio, ignoro il cartello che vorrebbe farmi proseguire dritto e prendo il sentiero verso sinistra, non indicato ma più battuto.
Deve essere la discesa di una o più gare del Campo dei Fiori Trail, perché i tronchi degli alberi sono disseminati di catarifrangenti. Si tratta anche qui di un sentiero facile e corribile. Nel bosco si incontrano diversi bivi ed è utile seguire la traccia gpx, soprattutto al buio. Un’ultima stradina a tornanti mi porta a un cancello sempre aperto e, poi, al piccolo parcheggio del parco Morselli. Attraverso la strada (con attenzione, perché manca un attraversamento pedonale e le auto passano ben oltre i limiti) e scendo verso Gavirate.
Il Campo dei Fiori è il primo massiccio montuoso che si incontra a nord di Varese, in direzione Svizzera: ideale per la stagione invernale, con i suoi sentieri facili e curatissimi a bassa quota, questo parco regionale ospita una nota gara di corsa in montagna e offre un fantastico terreno di allenamento non solo per il trail, ma anche per la mountain bike.
Il giro che vi propongo, facile e veloce, parte dal lido di Gavirate, uno dei punti più belli del lago di Varese. Il parcheggio del lido è a pagamento, ma c’è un parcheggio gratuito poco distante, all’area sosta camper di Gavirate. All’arrivo, troverete diversi bar con vista lago dove concedervi una meritata birretta!
Partenza dal lido di Gavirate.
Dal lido si percorre brevemente la pista ciclopedonale e si costeggia l’area sosta camper per risalire verso il centro di Gavirate. Si prende verso destra via Trinità, che porta al parcheggio parco Morselli (attenzione a un brutto attraversamento di strada). Qui è dove potete parcheggiare, se trovate posto, nel caso preferiate evitare l’asfalto e accorciare di qualche chilometro il giro.
Dal parcheggio si prende una stradina sterrata a tornanti in salita che supera le ultime case e porta nel bosco. Ci sono tante indicazioni e diversi sentieri non indicati, per cui consiglio di seguire la traccia gpx più che i cartelli.
Sentiero facile e corribile.
La prima parte di salita è decisamente corribile. Ci sono diverse opzioni per salire al forte di Orino: il mio percorso alterna tratti molto semplici e puliti, frequentati anche dalle mountain bike, a sentieri più ripidi e sconnessi, tutti comunque escursionistici e privi di pericoli (a parte forse i cacciatori).
Capirete di essere quasi arrivati al forte quando vi troverete in una zona di bosco morta, devastata da un parassita.
Alberi morti nella parte più alta del percorso.
Superato questo tratto un po’ triste, il sentiero emerge su una pista tagliafuoco e un’ultima salitella, chiaramente indicata, porta al forte. Non aspettatevi una costruzione: del forte di Orino è rimasto poco più di un muretto. La vista, in compenso, è spaziale: dal lago Maggiore al lago di Varese, con tutto l’arco alpino dal Monviso al Legnone. Il monte Rosa, in particolare, troneggia poco oltre il lago.
Lago Maggiore e monte Rosa.
Per scendere, prendo il sentiero 302, in questo periodo un po’ insidioso per la quantità di foglie secche che lo ricoprono, ma normalmente piuttosto semplice. Anche in discesa ci sono diverse opzioni e consiglio di seguire semplicemente la traccia.
Quando mancano 2-3 km all’arrivo, si torna sul sentiero dell’andata e non bisogna fare altro che ripercorrere i propri passi fino al lago.
Nell’area wilderness più estesa d’Italia, tra alpeggi immersi in un’atmosfera di altri tempi, sentieri semi abbandonati e cime incredibilmente panoramiche.
Periodo: Settembre 2023
Partenza: Scareno (VCO)
Distanza: 21 km
Dislivello: 1800 m
Acqua: fontane agli alpeggi e al bivacco Pian Vadà
Ogni tanto torno a fare un saluto ai miei posti del cuore – tra i quali rientrano a pieno titolo la Marona e la Zeda, tra le cime più alte della Val Grande. La cresta con le due vette costituisce la parte relativamente facile e “addomesticata” del sentiero Bove, una delle alte vie più selvagge e impegnative delle Alpi, che non ho ancora avuto il coraggio di percorrere per intero.
Sentiero Bove tra la Marona e la Zeda.
Un giro simile, un po’ più lungo, risale a qualche anno fa: lo trovate a questo link. Oggi come allora, per arrivare a percorrere quel breve, magico tratto di sentiero Bove ho affrontato un disagio dietro l’altro ma, per passare qualche minuto a godermi il silenzio della Val Grande dalle due croci della Marona e della Zeda, ne è valsa assolutamente la pena.
Per il ritorno in Val Grande scelgo una domenica di inizio ottobre, casualmente all’indomani dell’UTLM. Il clima è incredibilmente umido e soffocante e, sul lago Maggiore, aleggia una cappa di foschia che toglie ogni visibilità. Deve essere destino che io non veda mai il lago dall’alto di queste montagne!
Sotto le nubi dovrebbe esserci il lago Maggiore.
Lascio l’auto nel minuscolo borgo di Scareno, dove non c’è un vero parcheggio ma, arrivando di buon mattino, si può trovare un buco lungo la strada. Dall’interno del borgo comincia il sentiero: le indicazioni da seguire sono quelle per il ponte del Dragone e per l’alpe Piaggia.
Cascata prima del ponte del Dragone.
I primi chilometri sono quasi pianeggianti. Si costeggia il torrente, che poco prima del ponte del Dragone forma una bella cascata; dal ponte in avanti si comincia a guadagnare quota e si raggiunge l’alpe Piaggia. Qui il sentiero si divide: verso destra è indicato il passo Folungo, da cui arriverò al ritorno; a sinistra gli alpeggi Occhio e Onunchio. Il colle della Forcola, da dove prenderò il sentiero Bove, non è indicato, ma dovrebbe trovarsi dopo l’alpe Onunchio.
Bivio all’alpe Piaggia (910 m).
Mi sorprende trovare qui le balise dell’UTLM: il sentiero (orribile) che mi accingo a percorrere da Piaggia al colle della Forcola sarebbe la variante della gara in caso di maltempo – quella che toccò a me, con la fortuna che mi contraddistingue, quando partecipai due anni or sono. Forse gli organizzatori hanno tracciato entrambi i percorsi, nonostante il tempo stabilissimo dell’ultima settimana? Quale che sia la ragione, sono ben contenta delle balise che mi aiutano a orientarmi.
Balise dell’UTLM sul sentiero Piaggia-Forcola.
Ho già detto che questo sentiero è tremendo? A tratti stretto e sconnesso, evidentemente poco battuto, in un bosco soffocante pieno di rigagnoli e pozzanghere fangose, dove è difficile non dico tenere i piedi asciutti, ma a volte anche rimanere in piedi. Lo ribadisco perché non me ne vogliate, poi, nel caso decidiate di rifare questo giro. Mente fissa sull’obiettivo, esco finalmente dal bosco e raggiungo il colle della Forcola (1518 m).
Sentiero Bove verso il pizzo Marona.
Il sentiero Bove, da qui al monte Zeda, è relativamente facile (per essere un EE) e ben segnato. I bolli sono evidenti anche con la nebbia, che da queste parti scende di frequente e senza troppo preavviso, e tutti i punti potenzialmente scivolosi o esposti sono stati messi in sicurezza con catene. Non si può dire lo stesso per il resto dell’alta via, che va affrontata dopo attenta valutazione, con qualcosa in più di uno zainetto da cinque litri, due flask mezze vuote e un Garmin scarico.
Cappella della Marona (2051 m).
La cima del pizzo Marona (2051) e la sua cappella sconsacrata, che funge anche da bivacco, si trovano al disopra della cappa di umidità che ricopre il lago: da qui, la vista sulla val Grande con il Monte Rosa alle spalle è semplicemente spaziale. Mi fermo qualche minuto alla piccola croce di vetta, godendomi la solitudine e il silenzio, e mi incammino poi verso la Zeda.
In vetta alla Zeda (2156 m).
Dalla croce di vetta del monte Zeda butto un occhio verso la val Grande, dove si inoltra il sentiero Bove; ripromettendomi, prima o poi, di percorrerlo tutto, mi accingo a tornare alla civiltà, prendendo il più comodo sentiero che scende verso il passo Folungo passando per il bivacco Pian Vadà.
Il bivacco Pian Vadà (1711 m).
Il bivacco, dove si trova anche un’utilissima fontanella, è immerso nella nebbia. Da qui al passo Folungo si può seguire la strada sterrata in discesa o il sentiero che ne taglia i tornanti – io prendo il sentiero e ben presto arrivo in vista del passo.
Verso il passo Folungo (1369 m).
Si trova, qui, un crocevia di sentieri e stradine. I pochi escursionisti che incontro sono arrivati quassù in auto, che mi pare più faticoso che salire a piedi. Studio i cartelli, visto che la batteria del mio Garmin è morta in cima alla Zeda, e vedo che l’alpe Piaggia è indicata tutto a destra, lungo una strada sterrata chiusa da una sbarra.
Strada verso l’alpe Piaggia.
Sperando che il divieto di accesso sia rivolto alle auto e non vedendo sentieri alternativi, supero la sbarra e mi avvio lungo la strada in discesa. Ben presto mi rassicuro: sono ricomparse le balise dell’UTLM e riconosco la salita che, a suo tempo, mi ero sparata sotto il sole verso il cinquantesimo chilometro di gara. Ripercorrendola in senso contrario, so che arriverò al facile sentiero per Piaggia.
Antiche baite a Piaggia.
Le balise mi accompagnano fino alle prime, antiche baite di Piaggia. Da qui, non mi resta che tornare sui miei passi fino a Scareno.
Quando il corpo molla il colpo, si finisce con la testa: quante volte mi sono ripetuta questo mantra! Sei bollita? Stringi i denti e continua a correre. Non hai più energie? Occhi fissi sul traguardo, piuttosto ci arrivi sui gomiti ma ci arrivi. Ti fa male questa o quella parte del corpo? Sopporta e non mollare.
Per anni ha funzionato: le gare le ho sempre (più o meno dignitosamente) finite e nessun problema fisico mi ha mai costretto a fermarmi. Alla testa si è associata una buona dose di fortuna, me ne rendo conto. Sapevo perfettamente che gli infortuni capitano a tutti, a prescindere da quanta forza di volontà ci si metta, ma ero in qualche modo convinta di rappresentare un’eccezione. E invece.
Per la terza volta in un anno sono ferma e ho cominciato a pensare in generale al fenomeno infortunio: visto dall’interno sembra un dramma inenarrabile, mentre osservandolo con distacco e autoironia non si può non trovarci una buona occasione per mettersi in discussione, e magari migliorarsi un po’.
Che cosa mi turba così tanto quando non posso correre? Dopo averci un po’ riflettuto, ho raggiunto la conclusione che il problema sia semplicemente una difficoltà di adattamento, l’incapacità di cambiare delle banalissime abitudini. Un problema che tutto sommato vale la pena affrontare, per vivere meglio lo sport e anche tutto il resto.
Più o meno un anno fa, in Grecia, avevo deciso di fare un giro sui sentieri del monte Olimpo, e non è che potessi cambiare un così bel programma solo perché la notte prima aveva fatto mezzo metro di neve, no? Certo, i sentieri erano impraticabili, ma mi ero fissata che avrei corso lo stesso una ventina di chilometri e la trovata geniale fu quella di usare la strada asfaltata. Spalata, sì, ma coperta da lastroni di ghiaccio.
Com’era naturale che accadesse, caddi all’indietro pestando il sedere e non valutai di fare un salto al pronto soccorso se non due settimane dopo, ormai incapace di muovere un altro passo. In effetti c’era una fratturina del coccige, con cui avevo continuato a correre e gareggiare. Recuperai in un paio di mesi, senza nemmeno dover rinunciare a sport alternativi come nuoto, bici, e infine anche corsa su strada.
Perché allora continuavo a lamentarmi dello stop, se nemmeno di stop si poteva parlare? Ve lo confesso con un po’ di vergogna. Il mio problema era vedere le statistiche di Strava, con chilometraggio settimanale ridotto e dislivello pari a zero.
Superata la breve parentesi del coccige, tornai alle vecchie abitudini come se nulla fosse – salvo prestare più attenzione al ghiaccio – godendomi l’estate su e giù per le mie montagne, come ben sa chi segue questo blog.
Stabilii un nuovo obiettivo: la Black Canyon Ultra, una 100 km nel deserto dell’Arizona, a febbraio 2023. Il dislivello di questa gara è minimo, per cui da settembre diedi inizio a una preparazione da stradista. Recuperai un minimo sindacale di velocità e cominciai a prendere gusto alle corse in pianura a passo costante. Arrivai a correre tranquillamente 40 km su strada e già gongolavo al pensiero di un tempaccio sui 100 km. Per spingermi a fare meglio mi iscrissi alla maratona di Catania con l’obiettivo di chiuderla sotto le tre ore e mezza.
Ma, giusto la settimana prima della maratona, saltò fuori quello che ben presto imparai a conoscere come neuroma di Morton: un nervo del piede ingrossato mi rendeva la corsa insopportabilmente dolorosa. La maratona provai a farla lo stesso, imbottita di Oki, ma fui costretta a ritirarmi dopo 21 km di sofferenza.
Non sono abituata ai ritiri e la delusione fu cocente. L’obiettivo, però, rimaneva la gara in America: arrendersi non era un’opzione. Curai il piede e dopo un paio di settimane dalla mancata maratona riuscii a riprendere la corsa. In attesa dei plantari, pensai bene di auto-correggere la pronazione con la sola forza del pensiero, imponendomi di appoggiare il piede incriminato sull’alluce e non sul nervo dolorante al quarto metatarso. Non serve una grande fantasia per immaginare ciò che può succedere forzando un cambio così radicale – terzo infortunio, questa volta più serio e di difficile risoluzione: un dolore acuto all’inserzione del tendine del gluteo.
Mancava poco meno di un mese alla gara e speravo ancora di risolvere il problema con qualche giorno di riposo. Ma la settimana dopo il patatrac, a Barcellona, mi resi conto di non essere in grado di correre un solo chilometro, figuriamoci i cento della Black Canyon.
Barcellona è una città che frequento spesso per lavoro e quella fu la prima volta in assoluto che vi passai qualche giorno senza una corsa al Tibidabo e nel Parc de Collserola. Ci credete se dico che il mio primo pensiero, quando fui costretta a fermarmi e tornare in hotel dopo qualche centinaio di metri, andò sempre a Strava e al fatto che per la prima volta non avrei registrato un’attività a Barcellona?
Adattarsi ai cambiamenti, ecco la chiave della serenità. E allora, Marta, fai un bel respiro e ricordati, nell’ordine, che:
chissenefrega di Strava!
a Barcellona vai almeno due volte all’anno e non cade il mondo se per una volta non ci corri;
sei fortunata ad avere entrambe le gambe, sia pure con mezzo gluteo fuori uso, e poter fare altre cose in attesa di tornare a correre.
Mi ero resa conto fin dall’inizio che, anche se camminavo a stento, riuscivo a pedalare senza dolore. E già avevo trovato il modo di distrarmi nei weekend. Per stancarmi un po’ la sera in settimana, poi, ho fatto qualcosa che non avevo mai considerato prima: mi sono iscritta in palestra. Sì, non è il massimo, ma tutto sommato non è neanche così male. Posso pedalare sulla cyclette e poi dedicarmi a rafforzare i muscoli delle gambe, per prepararmi a tornare in montagna quando sarà possibile.
E la Black Canyon Ultra? Ovviamente è saltata. Sto scrivendo proprio dall’Arizona, dove mi godo panorami mozzafiato, con un po’ di amarezza – come è normale, penso – per essermi persa questa fantastica gara tra i cactus, ma anche infinitamente grata di potere pedalare. C’è sempre un piano B, e il mio è stato noleggiare una mountain bike e godermi lo stesso gli spazi sconfinati del deserto.
Nel frattempo ho recuperato la capacità di camminare, e anche di questo ringrazio tutti i santi e ancora di più la mia fantastica osteopata. Devo imparare a portare pazienza con me stessa, ma piano piano posso ancora arrivare dappertutto. Per correre ci sarà tempo.
Facile percorso trail da Calascio alla spettacolare Rocca Calascio, uno dei luoghi simbolo dell’Abruzzo, e da qui verso Campo Imperatore, al cospetto del Gran Sasso.
Dopo mesi di allenamenti machiavellici su strada e piccoli infortuni, posso finalmente concedermi qualche trail in compagnia e opto per un viaggetto con Tony nel cuore del selvaggio Abruzzo. Lo so, il parco nazionale del Gran Sasso non è esattamente “a due passi da Milano”, ma si tratta di un posto davvero fantastico per noi amanti della corsa in montagna.
Spazi sconfinati al cospetto del Gran Sasso.
Studiando le mappe di Strava, mi invento un percorso a bassa quota, tra 1000 e 1600 m, per vedere il Gran Sasso innevato senza rischiare di finire su sentieri alpinistici. Saliamo in auto fino a Calascio, graziosissimo borgo a 1200 m di quota, facilmente raggiungibile da una bella strada a tornanti che farebbe gola a qualsiasi ciclista. Da qui, seguendo indicazioni e bolli, prendiamo il sentiero per Rocca Calascio, il punto più caratteristico di tutto il giro.
Rocca Calascio.
Questo antico castello, mezzo diroccato ma ancora affascinante, è famoso per essere stato il set di Lady Hawke e anche, ci dicono i locals, di altri film più recenti. Dalla rocca il nostro percorso prosegue in discesa verso la meno antica ma comunque graziosa chiesa di Santa Maria, poi ancora oltre, verso lo sfondo di montagne innevate che si staglia davanti a noi.
Da qui in avanti non ci sono più indicazioni, bisogna affidarsi alle tracce gpx. Corriamo comunque per tutto il tempo su strade sterrate o asfaltate o, al massimo, per facili sentieri: posti che definire poco battuti è un eufemismo, ma noi runner un po’ misantropi non potremmo chiedere di meglio.
La strada sterrata che stiamo seguendo ci porta alla strada asfaltata per Campo Imperatore, che erroneamente imbocchiamo verso sinistra, in discesa: la cosa migliore sarebbe prenderla nella direzione opposta, cioè appunto verso Campo Imperatore. Dopo qualche tornante in discesa prendiamo un sentiero poco battuto e risaliamo verso la strada, che imbocchiamo ora nel senso giusto. La salita è lunga e noiosa, ma con una vista spettacolare, proprio come piace a me. Tony però ha scarpe poco adatte all’asfalto e anche il mio neuroma di Morton dopo qualche chilometro comincia a fare i capricci. Decidiamo allora di improvvisare e prendiamo una specie di sentiero in discesa da un tornante della strada.
Ci lanciamo per sentieri ignoti.
In alcuni punti la traccia è più evidente, in altri andiamo un po’ a caso, ma sono tutti sentieri facilissimi e non corriamo nessun rischio anche correndo off-road. L’unica forma di vita che incontriamo è un branco di cavalli, per il resto siamo solo noi in mezzo a spazi sconfinati.
A Campo Imperatore non arriviamo, alla fine. Seguiamo tracce di sentiero lungo il crinale delle colline e troviamo una stradina sterrata che sembra tornare in direzione Calascio.
Invitante stradina sterrata in direzione Calascio.
Una bella e facile discesa, che con i piedi in altre condizioni ci mangeremmo, ci porta a quello che in estate deve essere un alpeggio: una baita e una fontana (chiusa) sono le prime tracce umane che incontriamo da molto tempo. Al bivio teniamo la sinistra, per evitare di tornare verso la strada asfaltata di prima, e continuiamo a perdere quota fino a riemergere su un’altra strada, quella che collega Calascio con Castel del Monte. Dopo qualche verifica sulle mappe di Google, seguiamo questa strada – ahimè, leggermente in salita – fino a tornare alla macchina. Involontariamente abbiamo parcheggiato vicino a una trattoria e quando arriviamo è giusto ora di pranzo: la degna conclusione di questo giro non può essere che un vaso di arrosticini fumanti!
Ok, questo giro non è proprio a due passi da Milano, ma come non approfittare degli ultimi giorni di ferie e di un invito a Pontresina per una corsetta ad alta quota sulle alpi svizzere? Il doppio anello è una creazione di Giudy, che si autodefinisce una “ciuccia-asfalto”, ma anche nel trail non scherza.
Lago Muragl (2713 m).
Tutto il percorso è segnato perfettamente e la traccia gpx è quasi inutile. Nonostante si rimanga sempre a quote impegnative, almeno per i miei polmoni, i sentieri sono facili e corribili: un bel cambiamento per me, dopo un’estate passata a saltellare per le pietraie della val Masino. Solo l’ultimo tratto per salire al piz Languard è ripido e forse un po’ vertiginoso: niente di particolarmente impegnativo, peraltro evitabile senza modificare il resto del giro.
Ah, che belli i sentieri svizzeri!
Partiamo da Pontresina, dove parcheggiamo nei pressi della seggiovia (Sesselbahn Languard) e prendiamo via Giarsun, che porta a una chiesetta con un piccolo cimitero. Qui ci troviamo a un bivio: imbocchiamo il sentiero verso destra seguendo le indicazioni per capanna Paradis, nostra prima tappa, mentre da quello a sinistra arriveremo alla fine del giro. Saliamo piacevolmente nel bosco, che ogni tanto si apre con una vista spaziale sul poco che rimane del ghiacciaio del Morteratsch. Superati gli ultimi alberi, continuiamo a guadagnare quota e raggiungiamo la malga.
Capanna Paradis (2540 m).
Abbiamo guadagnato fin qui circa 700 m di dislivello e ne mancano più o meno altrettanti per la cima del piz Languard, punto più alto del giro. Una breve ma divertente discesa ci permette di sciogliere le gambe prima di riprendere a salire, seguendo le puntuali indicazioni per il piz Languard che, da capanna Paradis, è dato a 2 ore e mezza di cammino (senza tirarci il collo, ci mettiamo molto meno).
Breve discesa dopo capanna Paradis.
Attraversiamo un’ampia valle, brulla e secca, e cominciamo a risalire sul versante opposto. Di fronte a noi svetta il piz Languard e già si intravede, poco sotto la cima, il rifugio omonimo. Lo raggiungiamo con un breve strappetto: alcuni escursionisti ci hanno preceduto, ma è ancora presto e il rifugio non è affollato. Lasciamo qui i bastoncini, che non ci servono per l’ultimo tratto di roccette.
Vetta del Piz Languard dal rifugio.
Ci arrampichiamo seguendo i bolli e aiutandoci con grossi canaponi azzurri, nuovi di zecca e ben tesi. Si trattano proprio bene, qui in Svizzera!
Ultimo tratto attrezzato.
Dalla cima del piz Languard, a 3262 m, la vista è semplicemente spaziale in questa giornata così tersa. Non c’è nemmeno tanto vento e possiamo goderci il panorama in maniche corte.
Vista spaziale dai 3262 m del Piz Languard.
Riscendiamo al rifugio, recuperiamo i bastoncini e torniamo sui nostri passi fino al primo bivio: qui svoltiamo a destra, in direzione opposta a quella da cui siamo arrivate, poi teniamo ancora la destra imboccando il sentiero degli stambecchi (Steinbochweg) verso la capanna Segantini (2731 m).
Sentiero degli stambecchi (Steinbochweg).
Si tratta di un fantastico traverso, tutto corribile, a quota 2700 m circa, che porta al terzo dei quattro rifugi del nostro giro, questo abbastanza affollato visto che è ormai ora di pranzo. Assetate e speranzose, ci avviciniamo alla fontana, ma niente da fare: kein Trinkwasser, ammonisce un cartello, acqua non potabile. All’interno del rifugio apprendiamo con sgomento che una bottiglia piccola costa 6 franchi e una grande 13. Non accettano la carta e abbiamo solo 10 euro, per cui tutto ciò che possiamo permetterci è mezzo litro in due (ho bevuto anche un po’ d’acqua della fontana, per fortuna senza conseguenze immediate).
Grazioso bagno esterno a capanna Segantini.
La prossima tappa è il lago Muragl, anch’esso facilmente raggiungibile seguendo le indicazioni – i laghi si chiamano “Lej”. Scendiamo lungo un sentiero piuttosto affollato, perdendo circa 400 m di quota, e attraversiamo il torrente. Qui lasciamo in sospeso il primo anello e apriamo il secondo. Anche questo parte con una bella salita, circa 500 m da qui alla forcella Val Champagna passando per il lago Muragl.
Lago Muragl (2713 m).
Il lago è bellissimo, ancora meglio se visto dall’alto. Considerando la facilità con cui lo si raggiunge, ci riteniamo fortunate a trovare meno di una decina di persone sulle sue sponde. Un ultimo tratto di salita ci porta da qui alla forcella di Val Champagna (2806 m).
Verso la forcella di val Champagna.
Si scende, ora, e anche parecchio: da 2800 a meno di 2000 m, sempre su facile sentiero. Le indicazioni da seguire sono quelle per Samedan.
Comincia la seconda, lunga discesa.
Via via che perdiamo quota, la pietraia lascia il posto ai pascoli e il sentiero si avvicina al torrentello, oggi piuttosto in secca, che scorre a fondovalle. Ben presto raggiungiamo una baita con fontana: i proprietari non ci sono e ci serviamo da sole. Avevamo sì riempito le flask ai ruscelli, ma con tutti gli animali che ci sono in giro siamo più tranquille con l’acqua fresca e zampillante della baita.
Finalmente una fontana!
Scendiamo ancora un po’ e torniamo a immergerci nel bosco. Bisogna rimanere a sinistra del torrente, senza mai attraversarlo. Il sentiero svolta tutto a sinistra, con un ultimo tratto bello corribile nel bosco prima dell’ultima salita.
Verso la fine della discesa.
Con un sadismo degno dei migliori organizzatori di gare, Giudy ha previsto a questo punto un’ultima salita di quasi 500 m: seguiamo dunque le indicazioni per Muottas Muragl, per andare a chiudere il secondo anello. La salita, a dire il vero, non è troppo ripida e ci porta ben presto al crocevia, a quota 2400 m circa, da cui poche ore fa abbiamo imboccato il sentiero per il lago Muragl.
Muottas Muragl (2454 m).
Le indicazioni da seguire sono ora quelle per Unterer Schafberg. Attraversiamo il torrente e ne approfittiamo per rabboccare un’altra volta le borracce, poi risaliamo brevemente e andiamo a prendere il bellissimo traverso che prende il nome – meritatissimo – di Panoramaweg.
Panoramaweg.
Vedendolo da lontano ho brontolato, credendo poco alle rassicurazioni di Giudy. In realtà, come dice lei, questo ampio sentiero pianeggiante fa proprio venire voglia di correre! Ci divertiamo dunque per un paio di chilometri, prima della discesa finale che ci riporta alla seggiovia, passando per la chiesetta dell’andata.
Era da un po’ che lo puntavamo, e finalmente siamo riuscite a ritagliarci tre giorni per esplorare questo cammino dal nome evocativo, un po’ fuori mano, certo, per chi arriva dal nord Italia, ma decisamente all’altezza della sua fama. I paesaggi e il silenzio delle selvagge montagne abruzzesi, insieme all’accoglienza calorosa riservataci dai locals, valgono bene la trasferta e qualche sbattimento.
Le Martas sul Cammino dei Briganti
Il team delle Martas, quest’anno troppo indietro con la preparazione atletica per affrontare più di ottanta chilometri di corsa, ha pensato bene di caricare gli zaini con tenda, sacco a pelo, provviste e fornelletto, e di partire per una volta in modalità trekking. Ma queste facili mulattiere con pendenze modeste sarebbero il terreno ideale per un ultratrail: se vi serve un “lunghissimo” in preparazione a qualche gara, tenete in considerazione questo percorso, che con il giusto allenamento si potrebbe fare di corsa, senza ammazzarsi, forse in quindici ore o anche meno. Lungo tutto il cammino si trovano fontane, che però possono essere chiuse nel pomeriggio o la sera. Non si trovano cestini o cassonetti per la spazzatura se non nei paesi più grandi nella seconda metà del cammino, da Magliano de’ Marsi in poi.
Le principali informazioni sul Cammino dei Briganti, un percorso ben segnato e in ottime condizioni, si trovano su questo sito. Come vedrete, ci sono alcune varianti e il tempo di percorrenza consigliato è di sette giorni. Io vi propongo qui il giro come l’abbiamo fatto con Marta, dato che la nostra organizzazione ci è sembrata ragionevole: partite in auto da Milano alle 7 del venerdì mattina, abbiamo attaccato il cammino verso le 14,30, percorrendo 22 km prima di piantare la tenda a Villerose; il sabato ci siamo sparate 44 km da Villerose a Scurcula Marsicana passando per il lago della Duchessa – l’unico punto di vera montagna, dove si concentra la maggior parte del dislivello; infine la domenica abbiamo percorso gli ultimi chilometri, raggiungendo la macchina prima di mezzogiorno e riuscendo a tornare a Milano a un’ora accettabile.
Il lago della Duchessa (1788 m)
La partenza è da Sante Marie, in realtà l’unico dei paesi del cammino che non abbiamo attraversato: abbiamo infatti parcheggiato vicino alla stazione, a fondovalle rispetto al centro del paese, e lì ci siamo fermate alla fine del giro, tagliando forse un paio di chilometri e un centinaio di metri di dislivello rispetto al percorso “corretto”. La prima tappa è S. Stefano, un grazioso paesino ad appena 5 km dalla stazione di Sante Marie, ed è qui che ci dirigiamo seguendo le indicazioni. Dopo un primo tratto di salita, la pendenza diminuisce e il cammino diventa facile e piacevole.
Raggiungiamo ben presto S. Stefano e facciamo un primo rifornimento d’acqua. Nonostante sia pomeriggio, le fontane sono ancora aperte: a quanto pare in questo periodo vengono chiuse solo di sera. Il paese successivo è Poggiovalle, un posto davvero suggestivo, semi deserto e circondato solo da natura e silenzio.
Poggiovalle
Da qui si scende in direzione Nesce, da cui però non passiamo: prima di arrivare in paese, il cammino devia tutto a destra e ci porta in un ampio pianoro ai piedi di Poggiovalle.
Pianoro ai piedi di Poggiovalle
Dopo un paio di chilometri completamente in piano, immerse nel silenzio più totale, incontriamo un gregge di pecore accompagnato da cani pastore (in questo caso poco aggressivi, ma fate attenzione!) e arriviamo in vista di Villerose, dove abbiamo intenzione di passare la notte.
Pecore al pascolo, Villerose sullo sfondo
Le indicazioni qui non sono chiarissime, ma il paese è sempre visibile e in qualche modo lo raggiungiamo. Il problema, ora, è recuperare dell’acqua per la cena. Non troviamo fontane e il paese è completamente deserto. Lo attraversiamo (non ci vuole molto) e finalmente intravediamo una persona in lontananza: allunghiamo il passo e raggiungiamo il simpatico signor Alberto, che si fa davvero in quattro per aiutarci. La fontana è poco più avanti, dice, ma a quest’ora ormai è chiusa. Nessun problema, ci darà lui un paio di bottiglie d’acqua. Ci sconsiglia di piantare la tenda nel bosco, ci sono gli animali!, meglio accamparci nel campo da calcio abbandonato in mezzo al paese, dove non ci disturberà nessuno. Anzi, va lui stesso a informare i vicini, che approvano e si rendono disponibili per qualsiasi ulteriore necessità. Riconoscenti per tutta questa gentilezza, non ci poniamo problemi e ci sistemiamo nel campo da calcio (“in mezzo, eh! non sui lati”) come indicato dai simpatici abitanti di Villerose.
Accampamento nel campo da calcio di Villerose
Dormire in mezzo a un prato dall’erba alta, lontano da qualsivoglia edificio, albero o altra forma di riparo, non è in realtà un’idea geniale, ma ce ne rendiamo conto solo qualche ora più tardi, quando ci ritroviamo nel sacco a pelo a battere i denti con la tenda che gocciola per l’umidità. Niente, per questa notte è andata così. Con le prime luci raccogliamo faticosamente le nostre cose – la tenda e i sacchi a pelo sono fradici, ma ci riproponiamo di farli asciugare più tardi, quando il sole sarà alto – e ci prepariamo la colazione con l’ultima acqua del signor Alberto. Altri signori del paese, che stanno andando a raccogliere funghi, si fermano a fare due chiacchiere mentre ci riscaldiamo con un bel nescafè e un muesli dal gusto discutibile. Infine salutiamo tutti e ci mettiamo in marcia.
Di nuovo in cammino
Con qualche saliscendi tra piacevoli sentieri e strade sterrate, con un passaggio in una palude di fango breve, ma sufficiente a bagnarci e inzaccherarci completamente i piedi, arriviamo a Spedino, dove troviamo una fontana funzionante, e proseguiamo per Cartore. Tutte le nostre speranze di procurarci qualcosa per pranzo si concentrano su questo paesino, che vanta persino una locanda.
Entriamo nella riserva della Duchessa
Una enorme scritta in 3D ci avverte che stiamo entrando nella riserva della Duchessa. Di fronte a noi si stagliano le montagne che stiamo per affrontare. Sappiamo che a Cartore comincerà la sola vera salita del percorso, circa 1000 m D+ per arrivare al lago della Duchessa.
Cartore
Arriviamo a Cartore e per la prima volta troviamo un piccolo affollamento: c’è infatti chi arriva qui in auto per un trekking al lago della Duchessa. Troviamo una fontana e un piccolo ristoro, la locanda dei Casali di Cartore, i cui gentilissimi gestori ci preparano dei panini, ci danno informazioni sulla presenza di acqua lungo il percorso e ci permettono persino di gettare nei loro bidoni la spazzatura che, in mancanza di cassonetti, abbiamo portato fin qui. Ci viene indicata una fonte poco prima del lago, per cui decidiamo di riempire solo una borraccia a testa.
Salita per il lago della Duchessa
Alla fine la salita è tutta all’ombra e non abbiamo neanche la necessità di fermarci a cercare la fonte prima del lago. Marta zampetta tranquilla nonostante lo zaino, mentre io, che non sono abituata a fare dislivello con tutto questo peso sulle spalle, trovo la salita particolarmente faticosa. Poco male, ben presto ci ritroviamo fuori dal bosco e circondate da montagne bellissime. Abbiamo superato gli altri escursionisti, per cui ci godiamo il panorama in perfetta solitudine!
Il lago della Duchessa
La parte più bella, in realtà, è quella dopo il lago, che tanti saltano per tornare a Cartore, dove lasciano lo zaino, e riprendere il cammino da lì. Io consiglio caldamente di sopportare il peso dello zaino e fare tutto l’anello, superando il lago della Duchessa (1788 m) e raggiungendo il passo (di cui non mi è chiaro il nome) a poco meno di duemila metri di altezza, scendendo da lì a Rosciolo de’ Marsi senza ripassare da Cartore.
Il punto più alto del percorso
Una distesa di crochi e le ultime chiazze di neve ci accompagnano verso il passo, il vocio degli altri escursionisti ormai lontano dietro di noi. Non incontreremo anima viva, salvo un branco di cinghiali, per i prossimi 10 km.
Vista spettacolare dal valico
Cominciamo la lunga discesa per Rosciolo de’ Marsi. Non c’è nessuna indicazione e il sentiero sembra davvero poco battuto, ma è comunque evidente. Il primo tratto è un po’ scosceso, anche se la classificazione dell’itinerario come EE ci è parsa eccessiva, almeno adesso che non c’è neve.
In discesa lungo un sentiero poco battuto
Perdiamo circa cinquecento metri e la pendenza si fa sempre più dolce, mentre il sentiero si trasforma in strada sterrata. Alla fine della discesa, svoltiamo a sinistra verso Rosciolo de’ Marsi e cominciamo l’ultima salita di oggi, circa 200 m D+, particolarmente faticosa per il caldo. Sono infatti le 14 e stiamo aspettando di trovare una fontana per concederci finalmente la nostra pausa pranzo con i panini acquistati a Cartore.
Cavalli al pascolo
La salita ci porta a un bell’altopiano coronato dalle montagne, dove incontriamo magnifici cavalli al pascolo – una costante da queste parti – e persino un paio di umani. Scendiamo ora verso Rosciolo e, poco prima di raggiungere il paese, troviamo la sospirata fontana davanti alla chiesa romanica di Santa Maria in Valle Porclaneta.
Chiesa di Santa Maria in Valle Porclaneta
Prima di tirare fuori i panini, stendiamo tenda e sacchi a pelo sul sagrato della chiesa: basta una mezz’oretta sotto il sole e asciuga tutto! L’acqua fresca, poi, è davvero un toccasana dopo il caldo degli ultimi chilometri. Chi volesse fare il giro in due giorni, o comunque dividere diversamente il percorso, può pensare di accamparsi qui: il posto è ideale e la fontana comodissima.
La felicità: acqua fresca e panino!
Ci rimettiamo in cammino e, superata Rosciolo, per facili strade bianche raggiungiamo Magliano de’ Marsi, che rispetto ai paesi attraversati finora ci sembra una metropoli.
Verso Magliano de’ Marsi
Qui troviamo negozi, ristoranti e bar, ma siamo intenzionate a proseguire fino al paese successivo, Scurcula Marsicana. A questo punto io ho le vesciche ai piedi e l’idea fissa di una birra gelata, per cui è Marta a preoccuparsi della strada da seguire e del posto per piantare la tenda. Pare che ci siano due varianti, entrambe indicate come Cammino dei Briganti: noi scegliamo appunto quella che passa da Scurcula Marsicana. In paese troviamo le fontane chiuse, ma in un negozio di alimentari facciamo scorta di acqua, succo di frutta e birra (yeah!).
Birretta meritatissima
Dopo 44 km la birra ce la ben siamo meritata, no? Per di più in questo paese ci sono cestini e cassonetti per la raccolta differenziata, per cui non dobbiamo neanche portarci dietro le bottiglie vuote. Stanche ma ormai serene con i nostri tre litri d’acqua, principale preoccupazione per la sera, proseguiamo lungo il cammino superando Scurcula Marsicana e cominciando a cercare un posto per la tenda. Troviamo una casa abbandonata con un giardinetto riparato, seppure infestato dalle ortiche, che sembra fare al caso nostro. Per sicurezza ci confrontiamo con il proprietario della casa accanto e, per non farci mancare niente, anche con l’autista di un trattore di passaggio: niente, pare che la nostra presenza non dia fastidio a nessuno, siamo anzi le benvenute.
Scurcula Marsicana all’imbrunire
Ci sistemiamo nel giardinetto abbandonato e, sul ciglio della strada, Marta prepara la cena mentre io con ago e filo mi occupo delle mie vesciche. Il riso con gli sgombri sembra più buono del normale dopo questa lunga giornata in cammino.
Accampamento a Scurcula Marsicana
Riparato è riparato, ma con la temperatura non è che vada molto meglio di ieri. “Non è il freddo, è l’umidità” è diventato il Leitmotiv del weekend. Se proprio vogliamo vedere il lato positivo della seconda notte in bianco, all’alba siamo già pronte con il nostro nescafè e riusciamo a metterci in cammino davvero presto. Dopo un facile tratto di strada, arriviamo al bivio con indicazioni per Le Crete, da cui non dobbiamo passare; prendiamo invece il sentiero a destra per San Donato, dove finalmente vediamo le prime indicazioni anche per Sante Marie.
Sentiero per San Donato
Raggiungiamo il paese, dove troviamo una fontana, e proseguiamo in salita lungo l’antica mulattiera che una volta portava alla rocca di San Donato. Oggi non sono rimasti che dei ruderi, ma il percorso è davvero suggestivo.
Mulattiera da San Donato verso l’antica rocca
Seguiamo il cammino che si inoltra tra un gruppo di case abbandonate ma, poco dopo, perdiamo di vista il segnavia e proseguiamo un po’ a caso lungo un sentiero non proprio battutissimo. Il percorso è comunque molto panoramico e ci riporta ben presto sulla retta via all’altezza dei ruderi dell’antico castello.
Errore di percorso, comunque panoramico
Dopo i ruderi comincia la discesa. Siamo in un ambiente collinare ma davvero bello e selvaggio, immerso nel silenzio e popolato solo da animali al pascolo.
Selvagge colline tra San Donato e Scanzano
I paesi successivi sono Scanzano e poi Tubione: in entrambi troviamo fontane e precise indicazioni. Ormai la nostra meta, Sante Marie, è davvero vicina!
Tubione
Da Tubione scendiamo a fondovalle e ben presto ci ritroviamo accanto ai binari della ferrovia dove abbiamo lasciato la macchina. Sante Marie si erge poco più in alto sulla nostra sinistra, ma a questo punto il giro è praticamente finito e decidiamo di tagliare l’ultimo pezzo. Approfittiamo di un sottopasso per attraversare i binari e arriviamo alla stazione di Sante Marie, stanche ma decisamente soddisfatte!