Un percorso tecnicissimo per creste aeree e traversi esposti caratterizza buona parte del sentiero 4 luglio, dove ogni estate si corre una delle gare più importanti della Valtellina. Vedere i tempi dei più forti ci fa sentire delle cacchine, ma insomma noi Martas siamo poco ambiziose e giriamo più che altro per divertirci!
Il giro è bellissimo e merita una gita fuori gara, per godersi appieno i panorami e il silenzio di queste selvagge Orobie valtellinesi.
Abbiamo lasciato un’auto al parcheggio Fucine-Les di Corteno Golgi, all’imbocco della strada che sale verso Sant’Antonio, e l’altra a Santicolo, punto di arrivo della gara, per seguire il percorso ufficiale; un inaspettato maltempo, però, ci ha costretto a tagliare l’ultima parte, verso la fine delle creste, scendendo dalla val Torsolazzo verso Corteno Golgi anziché terminare il giro a Santicolo. Questa soluzione d’emergenza si è rivelata interessante, con una bella discesa facile e corribile, e mi sento di consigliarla.
Per andare a prendere il sentiero 4 luglio vero e proprio bisogna per prima cosa salire a Sant’Antonio (1125 m) lungo la strada asfaltata e, poi, seguire le indicazioni per Campovecchio. Da qui si prosegue in direzione passo Sellero: non dritto, come facciamo dapprima noi, attirate da un asinello che sembra un Trudy e dall’invitante indicazione “3.30 h”; bensì verso destra, seguendo il sentiero 107 che si inoltra nel bosco, con tempo di percorrenza 6 h.
Guadagniamo quota in modo costante, su comodo sentiero, fino allo Zapel dell’Asen (2026 m). Da qui alla Val Rosa ci aspetta un lungo e accidentato traverso di 6 km, dove con ogni probabilità i top runner corrono al quattro e trenta, mentre noi non vediamo altra soluzione che camminare di buon passo.
Per fortuna abbiamo l’idea di rabboccare le borracce a un ruscello: sarà l’unico punto acqua da qui alla fine del giro! Finalmente dalla Val Rosa (1970 m) riprendiamo a salire. Non c’è anima viva e ci godiamo lo spettacolo delle creste che andremo a percorrere nella pace e nel silenzio. Man mano che saliamo, l’erba cede il posto alla pietraia e il sentiero, sempre ben segnato, si inerpica verso il passo Telenek (2560 m).
Dal passo, ci dirigiamo verso la cima Sellero (2744 m), il punto più alto della gara. Da qui in avanti il sentiero segue il filo di cresta, ed è un vero spettacolo!
Ci aspetta ora il tratto più tecnico del giro, una discesa piuttosto ripida con catene che ci porta al passo Sellero (2400 m).
A questo tratto attrezzato seguono, prima e dopo il passo Sellero, crestine aeree e traversi esposti: se dovessi classificare questo sentiero 4 luglio, cosa che non farò perché non sono un CAI e non scrivo per gli escursionisti, lo definirei di grado FBLO (fa balaa l’oecc).
Arriviamo al bivacco Davide, intorno al 20esimo km, completamente disidratate: nonostante il cielo nuvoloso, la giornata è caldissima e di acqua proprio non ne abbiamo trovata. Nella disperazione, attingiamo a una tanica appartenente a tale Claudio (grazie, Claudio! se leggi questo post, scrivici, così ti offriamo una birra!) prendendo solo il minimo sindacale per arrivare alla fine del giro.
Dal bivacco, il sentiero diventa un po’ più semplice. Continuiamo sempre più o meno in cresta, aggirando una cimetta non meglio identificata con qualche catena (non necessaria) e superando un traverso dove le catene risultano un gradito corrimano. In generale, il sentiero è in ottime condizioni: le protezioni non annullano le difficoltà intrinseche del percorso, ma di sicuro lo rendono il più sicuro possibile.
Alla bocchetta del Palone succede quello che è inevitabile in giornate così calde e umide: comincia a tuonare e cadono le prime gocce. La situazione non sembra tragica e valutiamo anche di proseguire, ma alla fine decidiamo, studiando le mappe di Strava, di dare una chance all’invitante val Torsolazzo che si apre sotto di noi e che dovrebbe riportarci a Corteno Golgi in tempi sicuramente inferiori a quelli che impiegheremmo a raggiungere Santicolo.
Seguiamo dunque i segnavia, ottimamente tracciati, del sentiero 134 e nel giro di pochi minuti cominciamo a congratularci tra di noi per la saggia decisione, visto che comincia prima a diluviare, poi a grandinare. Il sentiero, prima su pietraia, poi su pratone e infine nel bosco, non è mai troppo ripido e ci permette di scendere in tempi relativamente brevi e senza inconvenienti, a parte uno scivolone su una roccia bagnata.
Arriviamo infine a una strada sterrata, che imbocchiamo verso destra in direzione Sant’Antonio. Finalmente troviamo una fontana, dove possiamo dissetarci e sciacquare le ferite. In pochi chilometri raggiungiamo Sant’Antonio e, da qui, ripercorriamo i nostri passi fino alla macchina.
Se il sabato a pranzo si è invitati a una grigliata a Branzi, non si può non cogliere l’occasione per una corsetta apri-stomaco ai popolarissimi laghi Gemelli per una via di salita alternativa a quella da Carona. Con Meme, Yaz, Samu e Tony parcheggiamo con calma verso le 9 nell’ampio e semi deserto parcheggio vicino al centro sportivo di via Cagnoli e prendiamo la mulattiera in salita verso il rifugio Laghi Gemelli.
Partiamo insieme e facciamo una danza del serpente al contrario, separandoci via via lungo il percorso. Yaz decide di salire con calma e ci saluta poco dopo la partenza, mentre Tony, che diversamente da noi non ha in programma una grigliata a mezzogiorno, bensì una quarantina di chilometri per andare a trovare la mamma a Serina, parte in quarta e detta un passo militare.
Il primo lago che raggiungiamo è il Casere (1841 m): attraversiamo la diga e ci ricongiungiamo al percorso “classico”, decisamente più affollato del nostro, che sale ai laghi Gemelli da Carona. Arriviamo al rifugio Laghi Gemelli (1968 m) in un’ora e mezza dal parcheggio.
Qui Tony ci saluta e prosegue verso l’Alpe Corte. Anche Samu decide di tornare indietro a cercare Yaz, non si capisce se per galanteria o perché sta per cominciare la parte corribile del giro, quella che proprio non sopporta. Solo con Meme mi avvio dunque verso la diga dei laghi Gemelli.
Superata la diga proseguiamo a sinistra verso il lago Colombo (2046 m), che raggiungiamo con un ultimo, breve strappo in salita.
Di fronte a noi svetta il pizzo del Becco, meta di un giro più lungo provato qualche anno fa; svoltiamo a sinistra seguendo le indicazioni per il giro dei laghi e cominciamo la discesa.
Il sentiero qui è davvero piacevole, corribile e poco battuto rispetto a quello per i laghi Gemelli. Ben presto arriviamo al lago Becco (1872 m).
L’espressione corrucciata di Meme dipende dal fatto che un cartello, a questo punto, indica il lago Marcio in una direzione diversa da quella che ho deciso di seguire. Brontola, ma alla fine accetta di proseguire per un breve tratto in direzione Carona, prima di raggiungere comunque il lago Marcio (1841 m) per altra via.
Costeggiamo ora il lago Marcio lungo un bel sentiero pianeggiante, il solito che arriva da Carona, fino a tornare sul percorso da cui siamo arrivati. Qui recuperiamo Yaz e Samu in discesa dai laghi Gemelli. Ricomposto il quartetto, scendiamo dallo stesso sentiero da cui siamo saliti. Al centro sportivo troviamo anche una canna per darci una sciacquata, poi, con lo stomaco ormai ben aperto, ci avviamo alla meritata grigliata.
Autunno inoltrato, meteo incerto e voglia di far girare le gambe: con Tony e Meme optiamo per il percorso permanente di una gara a cui Tony ha già partecipato due volte, la nota Sky del Canto. Il giro è segnato, ma conviene comunque utilizzare la traccia gpx per non perdersi tra i mille sentieri che si incrociano nei boschi.
La partenza è da Carvico, dove conviene parcheggiare in via Predazzi. Dal parcheggio si vedono subito le indicazioni per il monte Canto, che con i suoi 700 m rappresenta il punto più alto del giro. Si chiama “Sky”, ma io lo definirei piuttosto un bel percorso trail: i sentieri sono facili e corribili, anche se il fango può dare qualche problema, e il dislivello è ben distribuito su quattro salite. Tra queste, la più lunga e la più dura è senza dubbio l’ultima.
Partiamo lungo la strada, tenendo il campo di tiro a segno alla nostra destra, e cominciamo a seguire i cartelli della gara. Dopo un paio di chilometri di saliscendi, il percorso si inerpica e la strada diventa sentiero, fangoso per le recenti piogge. La prima salita ci porta alla croce grande del monte Canto, che però non rappresenta la “vera cima” di questa montagnetta, da cui si passerà solo alla fine del giro.
Superata la croce, ci troviamo a un crocevia di sentieri da cui il percorso di gara passa due volte: bisogna quindi prestare attenzione e prendere il sentiero in discesa verso sinistra, mentre il sentiero verso destra, anch’esso indicato da un cartellino “SKY”, è quello che prenderemo alla fine del giro per tornare a Carvico.
Dopo una divertente discesa di circa 2 km, svoltiamo tutto a destra e intraprendiamo la seconda salita, molto più breve delle altre tre, che ben presto ci porta alla chiesetta di Santa Barbara (667 m).
Si scende ora, prima su fangoso sentiero e poi su una mulattiera resa scivolosa da un manto di foglie bagnate. La mulattiera ci deposita sulla strada asfaltata all’altezza dell’abbazia di Sant’Egidio in Fontanella. Qui troviamo un’utilissima fontanella e un inquietante monumento a due gufi/monaci.
Proseguiamo in discesa lungo la strada fino a un piccolo cimitero. Da qui, seguendo le indicazioni, si riprende il sentiero, che dopo un breve saliscendi ricomincia a scendere. La discesa finisce poco prima del dodicesimo chilometro: si svolta tutto a destra lungo una stradina in cemento, che sale ripida fino alla rocca degli Alpini di Sotto il Monte.
La salita continua ora su facile sentiero, fino a raggiungere una strada carrozzabile a tornanti dove comincia la nostra terza discesa. Dopo qualche tornante si abbandona la strada per prendere un sentiero sulla sinistra: le indicazioni ci sono, ma noi non le abbiamo notate subito e abbiamo trovato utile, anche qui, la traccia gpx.
Questa terza discesa finisce poco prima del sedicesimo chilometro. Anche qui troviamo una chiesa e una fontanella, utile per rabboccare le borracce prima dell’ultima faticosa salita. Ci inoltriamo di nuovo nel bosco seguendo i soliti cartelli “SKY”, che a un certo punto però spariscono. A un crocevia di sentieri senza indicazioni bisogna tenere la sinistra, in leggera discesa, e poi prendere un ripido sentiero in salita sulla destra. Senza la traccia gpx in questo punto non ce la saremmo cavata!
Finalmente ricompaiono i cartelli, che ci accompagnano ormai senza possibilità d’errore fino alla “vera cima” del monte Canto (700 m), indicata da una piccola croce in legno. Superata la croce, torniamo verso il punto da cui siamo passati all’inizio del giro e svoltiamo questa volta dalla parte opposta.
Con la cima del monte Canto finisce la quarta e ultima salita del percorso di gara, ma non le difficoltà del percorso: la discesa è infatti più ripida rispetto alle precedenti, a tratti tecnica e scivolosa per il fango e le foglie. In breve però il sentiero ci porta fuori dal bosco e in vista del campo di tiro a segno da cui siamo passati all’andata. Da qui un brevissimo tratto su strada ci riporta al parcheggio.
Giro orobico super panoramico, con tratti veloci tutti da correre e tratti tecnici (EE) in cui procedere con cautela, soprattutto con la prima neve.
Serina – Valpiana – Ca’ di Zocc – Pian della Mussa (1306 m) – Passo Sapplì (1486 m) – Baita Sura – Cima della Croce (1975 m) – Passo della Forca (1848 m) – Monte Alben (2019 m) – Baita Sura – Cornalba – Serina.
Periodo: Novembre 2021
Partenza: Serina
Distanza: 21 km
Dislivello: 1575 m
Acqua: portare scorta sufficiente per tutto il giro
Come da tradizione, con l’arrivo della prima neve, non potevo perdermi il giretto orobico organizzato da Tony per ammirare il monte Alben imbiancato di fresco. Da Serina si sale per boschi fino alla Baita Sura, si valutano le condizioni della neve e si decide come e quanto proseguire. Quest’anno siamo stati fortunati: la poca neve bella asciutta, un meteo ideale, freddo ma con il sole e senza un filo di vento, e la quasi totale assenza di ghiaccio ci hanno permesso di salire prima alla Cima di Croce e poi alla vetta dell’Alben senza difficoltà, chiudendo un bel percorso ad anello, panoramico e allenante, che consiglio a tutti i runner esperti.
Questo giro è sempre fattibile nella stagione estiva, solo tenendo conto di un breve tratto EE tra il passo della Forca e la cima dell’Alben, e che non si trova acqua se non nella parte finale del percorso; in inverno, invece, le condizioni della montagna possono rendere inaccessibili le due vette, o quantomeno richiedere un’attrezzatura alpinistica. L’inverno scorso, per esempio, siamo riusciti a salire alla Croce con le ciaspole, ma abbiamo dovuto rinunciare all’Alben per la troppa neve. Quest’anno invece ce la siamo cavata facilmente, senza nemmeno mettere i ramponcini. Mi raccomando, fate sempre attenzione e valutate bene e condizioni prima di avventurarvi in alta montagna.
Si parte dal centro sportivo di Serina, seguendo per un breve tratto la strada in salita verso Valpiana. Al secondo tornante abbandoniamo l’asfalto per prendere la carrozzabile che sale direttamente a Valpiana passando per un bel bosco in veste autunnale.
Torniamo per un breve tratto sulla strada principale, che di nuovo abbandoniamo per prendere la stradina a destra in direzione Ca’ di Zocc. Da qui, ignoriamo la via più breve per l’Alben e prendiamo la pista da fondo in direzione Pian della Mussa. Questo sentiero, che in inverno diventa appunto un percorso per gli sciatori, in assenza di neve è un ottimo saliscendi per noi runner!
Sbuchiamo finalmente a Pian della Mussa, un bel pianoro a 1300 m di quota, che alle nove e mezza del mattino troviamo ancora immerso nell’ombra e nella brina.
Da qui le indicazioni da seguire sono quelle per Casina Bianca, passo Sapplì e monte Alben. Ci inoltriamo di nuovo nel bosco lungo un bel sentiero corribile, seguendo ora a ritroso il percorso della Maga Skymarathon, accompagnati dalla maestosa presenza dell’Arera imbiancato.
Dopo un tratto di saliscendi, arriviamo a Casina Bianca e da qui il sentiero comincia a salire con decisione verso il passo Sapplì. Arrivati al passo, a poco meno di 1500 m di quota, troviamo la prima neve.
Il sentiero ora spiana e prosegue di nuovo a saliscendi fino al pianoro dove, superati gli ultimi alberi, la vista si apre sull’Alben. Finalmente vediamo la nostra meta! Non siamo sicuri di riuscire ad arrivarci con le nostre scarpette da corsa, ma decidiamo intanto di avvicinarci e tastare il terreno.
Arriviamo alla Baita Sura, affollata come sempre, e proseguiamo in direzione della Cima di Croce, a sinistra dell’Alben, seguendo le tracce di chi è già passato e i bolli che emergono qua e là tra la neve.
Man mano che guadagniamo quota la neve aumenta, ma saranno non più di 15-20 cm. Il sentiero più battuto è quello che sale verso il passo della Forca, la più facile via di accesso alla Cima di Croce. Troviamo tuttavia anche le impronte di qualcuno che è salito dal sentiero meno noto, indicato da bolli rossi e qualche freccia, da cui scende la Maga Skymarathon, ed è da qui che decidiamo di passare anche noi.
Si sale per roccette, senza particolari difficoltà ma sempre prestando grande attenzione per via della neve. In qualche punto bisogna un po’ arrampicarsi, ma la neve è morbida e non c’è ghiaccio, per cui ce la caviamo senza problemi e ben presto arriviamo alla croce di vetta.
Si scende ora dalla via più battuta verso il passo della Forca. Certo il sentiero qui è più facile, ma proprio il fatto di essere stato già percorso da tanti lo rende insidioso: alcuni tratti sono scivolosi e ghiacciati. Riusciamo comunque ad aggirarli senza grossi problemi, passando qua e là nella neve fresca, e ben presto arriviamo al passo.
Ci aspetta adesso la salita più impegnativa, quella per la cima dell’Alben, con un tratto di sentiero indicato come EE. In estate si tratta solo di qualche saltino di roccia, ma con la neve tutto può risultare più difficile. All’imbocco del sentiero incontriamo però due ragazzi che stanno scendendo e che ci rassicurano sulle condizioni del percorso.
Anche qui non troviamo ghiaccio se non in pochissimi punti in ombra e la salita risulta molto divertente. Il paesaggio da questa cresta è sempre spettacolare, ma con la neve e il cielo blu di questa fantastica giornata d’autunno sembra ancora più bello.
Rimaniamo poco in vetta, troppo affollata e rumorosa per i nostri gusti. Scendendo, torniamo per un breve tratto sui nostri passi e riprendiamo poi la cresta verso sinistra, in direzione opposta rispetto a quella da cui siamo arrivati. C’è un sentiero che scende alla Baita Sura, ma pare che l’unico a percorrerlo prima di noi sia stato un cerbiatto con un notevole senso dell’orientamento.
Poco male, il Tony conosce questi posti come le sue tasche e, con l’aiuto della traccia gpx e di qualche bollo che emerge dalla neve, traccia il sentiero per la discesa. Viene fuori alla fine che il capriolo ha davvero seguito i bolli, salvo un paio di punti in cui al sentiero ha preferito creste e canali! Arriviamo alla Baita Sura con i piedi congelati e, sperando di ripristinare la circolazione, ripartiamo subito di corsa in direzione Cornalba.
Il sentiero per Cornalba è facile e corribile, seppure ricoperto di foglie. Troviamo finalmente un rigagnolo dove rabboccare le borracce: nonostante le temperature basse, il sole che abbiamo preso in cresta ci ha fatto venire sete! Alla fine della discesa, imbocchiamo la mulattiera verso destra che ci porta in paese.
Arrivati in paese, seguiamo la strada fino al cimitero e da qui prendiamo la Variante Mercatorum, bene indicata, in direzione Serina. Avete presente quelle gare in cui uno pensa di avere quasi finito e invece mancano ancora 3-4 km di saliscendi con più di 100 m di dislivello? Ecco, Tony è riuscito a mettere insieme un percorso che farebbe invidia al più sadico degli organizzatori! Brontolando, cerco di tenergli dietro nelle ultime salitelle e finalmente arriviamo in vista di Serina. Passiamo dal Residence la Pineta e prendiamo infine il sentiero in discesa che ci riporta al parcheggio. E per concludere degnamente la giornata non possono mancare un paio di birre e un trancio di pizza al nostro affezionatissimo bar Fontana, nel centro storico di Serina.
Rifugio “Il Pirata” (Tartano) – Passo di Tartano (2108 m) – Cima di Lemma (2348 m) – Passo di Lemme (2137 m) – Laghetto Cavizzola – Sentiero 101 o delle Orobie occidentali – Forcella Rossa (2055 m) – 3° Lago di Porcile ( 2095 m) – Passo di Porcile (2290 m) – Sentiero 201 verso Foppolo – Strada di Dordona – Montebello (Terrazza Salomon) – Lago delle Trote – Passo Dordona (2061 m) – Sentiero 201A – Bocchetta dei Lupi (2316 m) – 2° Lago di Porcile (2030 m) – Rifugio “Il Pirata”.
Periodo: Agosto 2021
Partenza: Rifugio “Il Pirata”, località Arale, Tartano
Finalmente in ferie, Tony e le Martas non hanno dubbi su come inaugurarle: una bella cavalcata orobico-valtellinese, alla scoperta di nuovi sentieri per concatenare valli più o meno note, è proprio quello che ci vuole!
Tony e Marta arrivano da Bergamo, io (l’altra Marta) sono ormai valtellinese d’acquisizione: loro partono dal rifugio S.A.B.A., nella bergamasca, per una traversata di oltre 40 km, mentre io lascio l’auto al rifugio “Il Pirata”, sopra Tartano, per un giro ad anello come piace a me. Decidiamo di trovarci alla terrazza Salomon, Montebello, nel primo pomeriggio, per condividere l’ultima parte del giro e una cenetta al rifugio.
Parto con calma, forse troppa (sono le 9 passate quando parcheggio al Pirata), in direzione del passo di Tartano. Ho visto dalle mappe che ci sono dei sentieri alternativi rispetto a quello più frequentato per i laghi di Porcile e, non avendo fretta, decido di andare in esplorazione. Scendo dunque dal rifugio alla strada carrozzabile sottostante e la percorro brevemente seguendo il corso del torrente fino a trovare sulla destra un ponticello.
Non ci sono indicazioni se non quelle, opposte, per i laghi di Porcile. Si attraversa il torrente e si prosegue dall’altra parte. Il sentiero c’è, è anche relativamente battuto (dalle mucche), ma non è bollato e bisogna fare attenzione a non perderlo di vista. Certo, non si può procedere troppo spediti su questo terreno, ma in compenso ci si gode la pace di una valle deserta, le distese di mirtilli, i ruscelli gorgoglianti e le marmotte che scorrazzano indisturbate. Consiglio caldamente, per questo e altri tratti, di usare la mia traccia gpx.
Attenzione a un bivio, dove il sentiero più intuitivo sembra essere quello che va a sinistra attraversando un ruscello, mentre bisogna prendere quello in salita verso destra. Senza la traccia gpx avrei sbagliato di sicuro. Finalmente il bosco finisce e vedo in lontananza, sopra di me, la croce del passo di Tartano.
Vedo il passo, sì, ma in compenso perdo di vista il sentiero, complici anche i mille ruscelli e rigagnoli che si sono formati dopo le piogge torrenziali dei giorni scorsi. Pazienza, la pendenza non è eccessiva e salgo dritto per dritto tra mirtilli e rododendri, cercando di tenere i piedi il più possibile asciutti. Incrocio infine un sentiero, anch’esso poco visibile ma segnato, che scopro poi essere l’alta via della Val Tartano.
Seguendo questi bolli bianco-rossi arrivo a una casera, dove appunto trovo le indicazioni dell’alta via, e proseguo in salita fino al passo di Tartano (2108 m), crocevia di sentieri.
Per i prossimi 5 km seguirò il percorso della GVO (Gran Via delle Orobie), un altro sentiero spesso poco indicato, dove facilmente si perde l’orientamento. In questo tratto, in realtà, basta seguire il filo di cresta in salita passando per le antiche trincee della linea Cadorna fino alla cima di Lemma (2348 m) e da qui in discesa fino all’omonimo passo.
Dal passo di Lemme si prosegue in piano, seguendo il sentiero – quando c’è – o in alternativa cercando i bolli sparsi qua e là sulle roccette. Utile, anche qui, la traccia gpx.
Dopo un ultimo tratto in salita bisogna scendere tutto a sinistra. A ben guardare c’è una piccola freccia con la scritta “GVO” nascosta dietro un sasso, ma senza la traccia gpx avrei certamente proseguito dritto. Il sentiero è ora più evidente e comincio a scendere spensierata, senza più fare caso ai bolli. Naturalmente questo mi porta subito fuori strada e davanti a una baita, detta “del Mondo” (Raimondo).
Poco male, vedo il sentiero più in basso e lo raggiungo, continuando a scendere fino all’alpe Cavizzola. Qui trovo le indicazioni per il laghetto Cavizzola, che è la mia prossima tappa. Non ho capito a che punto ho abbandonato la GVO ma, sapendo di dover passare da questo laghetto, senza farmi troppe domande proseguo di buon passo, ora su facile sentiero. Al laghetto, dove trovo anche una fontana, mi fermo per fare merenda con la mia “cupeta” valtellinese.
Dovrei ora prendere il sentiero 101, o sentiero delle Orobie occidentali, di cui però al laghetto non trovo traccia. Vedo solo un sentiero 111 in discesa e lo seguo fino a quando diventa evidente che mi sto allontanando troppo dal 101. Interpreto una croce su un sasso e una leggerissima traccia nell’erba come un segno del destino e, per una volta, la fortuna mi assiste: risalendo per i prati raggiungo infatti una casera e, finalmente, il sentiero delle Orobie occidentali.
Adesso è tutto facile: il 101 è sempre ben segnato e mi permette di procedere spedita – anche perché un’occhiata all’orologio mi dice che è il caso di darmi una mossa! A un breve tratto in salita, che culmina alla Forcella Rossa (2055 m), segue una discesa e poi un lungo e corribilissimo tratto in piano. Si passa per alcuni alpeggi intorno ai 1800 m di quota e, in basso, si vede San Simone. Riprende la salita e di nuovo mi trovo a guardare, sia pure da una diversa prospettiva, la croce del passo di Tartano.
Senza arrivare al passo, salgo verso destra in direzione dei laghi di Porcile e vado a prendere il sentiero 201 (il 101 non ho capito che fine abbia fatto) che passa per il 3° lago di Porcile e sale all’omonimo passo.
Questa zona è decisamente frequentata, rispetto a quelle semi-deserte da cui sono passata finora. Superando una distesa di bagnanti intenti a prendere il sole, salgo di buon passo verso la bocchetta. Il sentiero è sempre facile, anche se sto attraversando una pietraia dall’aspetto suggestivo e selvaggio.
Salendo mi trovo a un bivio: a destra il sentiero 201 per il passo di Porcile e Foppolo, a sinistra il 201A per la bocchetta dei Lupi e il rifugio Dordona. Da qui arriverò più tardi con i miei amici, quindi ora prendo il sentiero a destra e in un attimo sono al passo di Porcile (2290 m).
Comincio a scendere verso Foppolo: il sentiero all’inizio è ripido e richiede attenzione, poi migliora un po’ man mano che si perde quota. Una volta a fondovalle, le indicazioni da seguire sono quelle per il passo Dordona, prima lungo un facile sentiero nel bosco e poi su strada – bisogna prendere la cosiddetta “Strada Dordona”, una noiosa carrozzabile in salita. Dalla carrozzabile si stacca poi il sentiero per Montebello.
Passando sotto la seggiovia, risalgo fino alla terrazza Salomon (o rifugio Montebello), dove mi aspettano Marta e Tony. Sono in ritardo sulla tabella di marcia: speravo di arrivare qui per le 14 e invece sono quasi le 15,30! Ho perso parecchio tempo a orientarmi nell’erba alta tra la GVO e il sentiero 101. Pazienza, ora sono con i miei amici: ci manca una decina di chilometri con non più di 500 m di dislivello, per cui possiamo prendercela con calma.
Ci incamminiamo dunque in leggera salita verso il passo Dordona, passando per il piccolo e affollato lago delle Trote. Dal passo prendiamo la strada carrozzabile in discesa verso il rifugio Dordona, che vediamo chiaramente più in basso, anche se non ci arriveremo: prima del rifugio, infatti, vediamo sulla sinistra le indicazioni per il sentiero 201A e la bocchetta dei Lupi. A sorpresa, ci ritroviamo ancora sulla GVO!
La salita è lunga, ma non eccessivamente ripida, e le montagne illuminate dalla luce calda del pomeriggio ci ripagano di tutta la fatica. Arrivati alla bocchetta (2316 m), la vista si apre di nuovo sui laghetti di Porcile, che da questa nuova prospettiva sembrano ancora più belli.
Da qui è tutta discesa, prima su sentiero ripido e sdrucciolevole, poi su morbidi prati dove pascolano mucche isteriche e teneri vitelli.
Si continua a scendere in direzione Alpe Arale, Tartano. Abbiamo trovato il sentiero allagato dalle recenti piogge, cosa che ci ha rallentato un po’. Normalmente si tratta di una discesa noiosa, ma semplice e veloce.
Gli ultimi chilometri sono, come sempre, i più faticosi. Ma finalmente raggiungiamo il rifugio, i cui fantastici gestori per nostra fortuna accettano di rifocillarci con un’ottima pasta alla bresaola, oltre naturalmente alla meritatissima birra!
Un “lungo” spettacolare, che ogni trail runner dovrebbe provare almeno una volta.
Villa d’Almè – Roncola – Linzone (1392 m) – Tesoro (1432 m) – Pertus – La Pasada – Rifugio Resegone – Sorgente Forbesette – Bocca del Palio – Porta della Valle Imagna (1415 m) – Zuc de Valmana (1546 m) – I Canti (1563 m) – Tre Faggi – Piazzacava – Colle San Pietro (933 m) – Monte Ubione (895 m) – Clanezzo – Villa d’Almè
Il Periplo della Valle Imagna è un anello lunghissimo e davvero appagante, consigliato non solo come “lungo” in preparazione di gare ultratrail, ma anche per scoprire fino ai suoi angoli più remoti questa valle stupenda tra lecchese e bergamasca.
Il team delle Martas, che sta cominciando a mettere chilometri e dislivello nelle gambe in vista degli ambiziosi progetti estivi, ha optato per la variante che passa lungo l’anello del Resegone senza salirvi in vetta: l’alternativa esteticamente più bella, ma che aumenta esponenzialmente le difficoltà, soprattutto con la neve che ancora ricopre tutto il versante nord del Resegone, è passare per le creste. (Chi fosse interessato può vedere qui il percorso delle creste, provato in condizioni estive e in un giro molto più breve lo scorso anno). Si tenga presente che, anche così, il periplo richiede parecchio tempo e può risultare impegnativo per la mancanza d’acqua: in base alle temperature, conviene portare una scorta adeguata (tre flask) e segnarsi bene i punti di rifornimento da non perdere.
Il sentiero, non sempre segnato in modo chiarissimo, è il numero 571 e comincia ad Almenno San Salvatore; noi abbiamo deciso di partire da Villa d’Almè, dal comodo parcheggio in via Fratelli Calvi, vicino alla ciclabile della Val Brembana da cui torneremo alla fine di questo lungo viaggio. Pronti, via! Si parte svoltando a destra in via Gotti e seguendo la strada che attraversa il fiume Brembo; si prende poi a sinistra la mulattiera in salita che taglia due tornanti, portandoci ad Almenno. Si segue la strada fino a incontrare le prime indicazioni per il sentiero 571, che ci fanno svolare a sinistra e proseguire lungo una stradina in salita fino al punto in cui comincia il sentiero vero e proprio.
La salita è lunga e si può suddividere in due parti, entrambe con circa 500 m di dislivello: da Almenno alla Roncola e da qui alla cima del Linzone. Le indicazioni, in questa prima parte, sono chiare e intuitive e ci permettono di procedere chiacchierando senza fare troppo caso al percorso.
Se non siete mai stati alla Roncola, la riconoscerete facilmente dal traffico di escursionisti e ciclisti di passaggio. Consiglio vivamente di fare tappa alla fontana dietro la chiesa, unico punto acqua per parecchio tempo. Bisogna poi attraversare la strada e salire verso il cimitero, dove comincia il sentiero per il Linzone. Questo tratto sarà probabilmente molto affollato, ma non vi preoccupate: proseguendo lungo il periplo si incontreranno sempre meno persone!
La cima del Linzone (1392 m) è un panettone erboso, con vista a trecentosessanta gradi, che piace proprio a tutti: runner, escursionisti, mountain-biker, famiglie con bambini, cani, amanti del parapendio. Per fortuna i suoi prati hanno abbastanza spazio per ospitare tutti con tanto di distanziamento sociale. Da qui comincia la lunga dorsale, divertente e corribile, che seguiremo sempre in cresta fino alla Pasada (o Passata), passando per le antenne di Valcava, il monte Tesoro (1432 m) e il Pertus.
Al passo di Valcava, punto di passaggio obbligato per ciclisti e motociclisti, si trova di solito un chioschetto dove si può acquistare dell’acqua. Noi, avendo riempito le borracce alla Roncola, abbiamo deciso di passare oltre, salvo poi pentircene più avanti!
Ci fermiamo in cima al Tesoro giusto il tempo di una foto, non senza un po’ di invidia per tutti gli escursionisti che hanno terminato qui le loro fatiche e stanno tirando fuori i panini, mentre noi siamo appena a un quinto del percorso! Ci consoliamo con la bella e lunga discesa fino al laghetto del Pertus, altra meta di facili gitarelle.
Si segue ora la stradina pianeggiante a sinistra del laghetto. Il sentiero 571 è sempre indicato chiaramente: seguiamo i cartelli in direzione Passata. Attenzione a un bivio, dove il sentiero sembrerebbe proseguire verso destra, mentre prestando attenzione si nota un 571 in vernice gialla che ci manda verso sinistra:
Da qui in poi il numero 571 scompare per un po’ e i cartelli da seguire sono quelli della DOL (Dorsale Orobico Lecchese). Il sentiero, senza mai diventare difficile, presenta qualche tratto esposto e con roccette, che rende questo giro sconsigliabile in pieno inverno, in presenza di neve o ghiaccio.
Dopo un tempo apparentemente infinito raggiungiamo La Pasada, crocevia di sentieri. Da qui si potrebbe salire verso il rifugio Alpinisti Monzesi per prendere le creste, ma noi, come già detto, abbiamo optato per il giro più veloce e con meno dislivello. Proseguiamo dunque verso destra lungo la DOL, seguendo le indicazioni per l’anello del Resegone e il passo La Porta.
Il sentiero qui risulta piuttosto facile e corribile, con qualche saliscendi. Intorno al ventesimo chilometro, superato il passo La Porta, abbiamo sbagliato strada, prendendo il sentiero in discesa verso destra anziché quello che rimane alto a sinistra. Non so quante volte ho già fatto questo errore, ma non c’è niente da fare, il sentiero a sinistra proprio non si vede. In ogni caso l’errore è stato provvidenziale perché, nel tornare sulla retta via seguendo il sentiero 589, siamo passate per una baita dove una famiglia gentilissima ci ha offerto dell’acqua – GRAZIE!
Tornate sull’anello del Resegone e superato l’omonimo rifugio (chiuso), abbiamo cominciato a calpestare neve. Dove non batte il sole ne è rimasta parecchia, nonostante siamo a fine aprile. Dopo un tratto in salita il bosco si apre – siamo alla Bocca del Palio – e ricompaiono le indicazioni per il sentiero 571 verso destra. Siamo però costrette a deviare verso la sorgente delle Forbesette, a meno di un chilometro lungo l’anello del Resegone, per fare rifornimento d’acqua prima di proseguire nel nostro percorso: non troveremo altre fontane per i prossimi 13-14 km, per cui le Forbesette sono un punto obbligato.
Dopo avere bevuto in abbondanza e riempito bene le borracce, torniamo sui nostri passi e alle indicazioni per il sentiero 571, che continua su un’ampia dorsale erbosa a cavallo con la Val Taleggio. Un continuo e faticoso, per quanto panoramico, saliscendi ci porta prima alla cosiddetta Porta della Valle Imagna, che pare sia stata collocata lungo il periplo per un progetto artistico, poi oltre i 1500 m di altezza allo Zuc de Valmana e ai Canti.
I Canti, nonostante il nome al plurale, sono in realtà una montagna sola e, raggiunta la madonnina di vetta, possiamo finalmente tirare un po’ il fiato. A parte un breve tratto in salita, molto panoramico a dire il vero, il sentiero 571 prosegue ora in discesa per diversi chilometri.
Perdiamo via via dislivello, seguendo il sentiero che ora è piuttosto intuitivo e che ci porta alle località Tre Faggi e Piazzacava. Da qui abbiamo perso il 571 e seguito per un tratto il 592E in direzione Blello.
Proseguiamo in discesa lungo una mulattiera piuttosto scomoda e sconnessa, per poi finalmente ritrovare le indicazioni del sentiero 571, che qui torna a chiamarsi Giro della Valle Imagna.
Una breve salita ci porta a Colle San Pietro, da dove si prosegue seguendo le indicazioni per Berbenno. Senza entrare in paese, alla chiesetta con il tetto in legno prendiamo il sentiero che si inoltra nel bosco. Arriviamo finalmente a un punto acqua poco invitante – è un rigagnolo che esce da un tubo pieno di muschio – ma a questo punto indispensabile. In realtà c’è una fontana dall’aspetto più salubre poco più avanti, intorno al km 39, ma non sapendolo abbiamo attinto a man bassa dal rigagnolo (per fortuna senza conseguenze a breve termine).
Riprendiamo a salire e il 571 diventa tutt’uno con il sentiero del Partigiano. Particolarmente a tema, considerando che è il 25 aprile! Superato un monumento ai caduti, ci viene naturale proseguire in salita verso sinistra, ma a ben guardare il sentiero 571 prosegue dritto oltre un cancello chiuso.
Si continua a guadagnare quota qua e là, tra un tratto in piano e una discesina, mentre il monte Ubione, ultima fatica prima della discesa finale, sembra allontanarsi anziché avvicinarsi. Troveremo diversi sentieri che portano in vetta: quello da seguire è sempre il nostro 571.
Dopo avere raggiunto la cima dell’Ubione, si prende il ripido e sdrucciolevole sentiero che scende dietro al cartello. Mancano ancora circa 5 km e la fatica si fa sentire, ma siamo determinate a non mollare! Seguiamo le indicazioni per Clanezzo e attraversiamo il paese in discesa verso il fiume Brembo, che attraverseremo su un grazioso e traballante ponte sospeso.
Imbocchiamo a questo punto la stradina sterrata verso destra e la seguiamo fino a incontrare la ciclabile della Val Brembana, che collega Bergamo a Zogno. Svoltiamo a destra in direzione Bergamo: poche centinaia di metri, una galleria, superiamo la stazione degli autobus e quasi inaspettatamente ci ritroviamo in via Fratelli Calvi, dove abbiamo parcheggiato “solo” nove ore fa!
Moggio (Loc. Torrente) – sentiero 726 – Piani di Artavaggio (1650 m) – Rifugio Gherardi (1647 m) – Passo Baciamorti (1540 m) – Pizzo Baciamorti (2009 m) – Monte Aralalta – Monte Sodadura (2010 m) – Cima di Piazzo (2059 m) – sentiero 724 – Moggio (Loc. Torrente)
Periodo: Ottobre 2020
Partenza: Moggio Loc. Torrente (890 m)
Distanza: 29 km
Dislivello: 2080 m
Acqua: fontanelle all’inizio del sentiero, ai piani di Artavaggio e sul sentiero 724 al ritorno.
Questo giro ad anello, adatto alle mezze stagioni e alle giornate dal meteo incerto, è tanto semplice quanto panoramico. Percorre lunghe creste erbose e passa per ben tre cime – con relative madonnine – a cavallo tra la Valsassina e le Orobie, in enormi spazi aperti dove la vista può spaziare a trecentosessanta gradi. Lo sconsiglio in piena estate e suggerisco di evitare questa zona nelle ore di punta delle belle giornate, dato che ai piani di Artavaggio arrivano frotte di turisti in funivia; può invece andare bene, con la dovuta attenzione e l’attrezzatura necessaria, quando c’è neve. In autunno le condizioni sono quasi ideali: il solo problema sono i cacciatori – ne ho incontrati a dozzine e per tutta la mattina gli spari hanno riecheggiato nei boschi. (Piccola riflessione: per mesi i runner sono stati messi alla gogna come pericolo pubblico, mentre il fatto che uomini armati di fucile vadano in giro a sparare agli uccelli negli stessi posti in cui la gente va a passeggiare sembra non infastidire nessuno).
Si parcheggia nel punto indicato come Località Torrente: seguendo la strada in discesa che da Moggio va verso la Culmine di San Pietro, a un tornante della strada si trova un grande parcheggio sterrato che può essere completamente pieno o deserto a seconda dell’ora del giorno e del meteo. Io, per sicurezza, cerco sempre di arrivare alle prime luci dell’alba. Il sentiero comincia proprio qui e segue il corso del torrente; ben presto sbuca sulla stradina sterrata che arriva da Moggio paese. Dobbiamo sempre seguire le inequivocabili indicazioni per i Piani di Artavaggio, sentieri n. 726 e 724, che dapprima procedono uniti e poi, a un bivio chiaramente segnalato, si separano.
All’andata ho preso verso destra il 726, dove ai bolli bianco-rossi si aggiungono dei curiosi segnavia fallici che fanno sempre sorridere chi si avventura da queste parti per la prima volta. Si prende quota velocemente, mentre la vista si apre sulle Grigne dietro di noi. Il sentiero è sempre ben segnalato: attenzione a un bivio, dove bisogna mantenere la destra in leggera discesa proseguendo lungo il corso del torrente, mentre un’altra traccia porta verso sinistra. Dopo avere guadagnato 700 metri di dislivello in meno di 4 km, il sentiero finalmente spiana: siamo arrivati ai piani di Artavaggio (1650 m).
Sbuchiamo su una strada sterrata, da imboccare verso sinistra in leggera salita. Finalmente si può correre un po’! Per chi volesse fare a meno della traccia gpx (che comunque consiglio di utilizzare per questo giro), bisogna continuare in direzione dell’albergo degli sciatori e della chiesetta in legno dal tetto spiovente, alle cui spalle si erge l’inconfondibile piramide del monte Sodadura. Qui troveremo anche una fontana che nelle giornate calde può rivelarsi preziosa. Superata la chiesa, abbandoniamo la strada che sale verso il rifugio Nicola e prendiamo il sentiero/mulattiera in salita verso destra, senza indicazioni di alcun tipo, che passa a destra del Sodadura.
Si tratta di un sentiero generalmente poco battuto (se non dai cacciatori) che a me piace molto: quasi pianeggiante, con qualche saliscendi, è corribile e panoramico. Dopo un paio di chilometri ci troviamo a un bivio: prendiamo la mulattiera in discesa verso destra. Si risale per un pezzo e si sbuca in un bel pianoro con piccoli laghetti e lo sfondo delle Orobie: bisogna proseguire dritto fino al rifugio Gherardi. Non ci sono indicazioni e il sentiero si perde nell’erba, ma aguzzando un po’ la vista si intravede la bandiera del rifugio, che si trova poco più in basso.
Dal Gherardi si prende la strada carrozzabile (non il sentiero!) che porta a Quindicina: proseguiamo velocemente in discesa seguendo questa strada per circa 3 km, perdendo parecchio dislivello. Prima di arrivare a Quindicina, a un tornante della strada, si prende il sentiero che si inoltra nel bosco tutto a sinistra. Utile anche qui la traccia gpx: non ci sono indicazioni. Fate attenzione, questo bosco è particolarmente infestato dai cacciatori.
Si prosegue più o meno in piano, poi in leggera salita, fino al passo Baciamorti (1540 m). In questo punto incontriamo il sentiero 101, o sentiero delle Orobie occidentali, che sale da Cassiglio e passa ai piedi delle cime che ci accingiamo a scalare. Questo sentiero è una valida alternativa alle creste, da tenere in considerazione in caso di maltempo, vento o scarsa visibilità.
Svoltiamo dunque tutto a sinistra e, ignorando il 101 che prosegue a mezzacosta, prendiamo il sentiero in cresta indicato da paletti che ci porterà, con una estenuante ma estremamente panoramica salita, in vetta al Baciamorti (2009 m) e alla prima delle nostre tre madonnine.
Possiamo adesso goderci una bella cavalcata, sempre in cresta, fino all’Aralalta, antecima del Baciamorti per chi arriva dalla parte opposta, e poi giù lungo il ripido pendio erboso fino a ricongiungerci con il sentiero 101.
Seguiamo il 101 per un paio di chilometri, passando per la bocchetta di Regadur, fino a trovarci sulla sinistra – anche qui, senza indicazioni – il ripido sentiero che ci porterà alla vetta del Sodadura (2010 m) e alla seconda madonnina del nostro giro. Da qui possiamo ammirare tutto il nostro percorso, i sentieri da cui siamo arrivati e quelli ancora davanti a noi.
Il Sodadura è generalmente più affollato rispetto al Baciamorti, perché si trova proprio sopra il rifugio Nicola e i piani di Artavaggio, che infatti vediamo ora distintamente ai nostri piedi nella direzione opposta a quella da cui siamo arrivati; la prima montagnetta (un panettone, più che altro) a destra rispetto al Nicola è invece la Cima di Piazzo, nostra prossima meta. Scendiamo dunque in questa direzione, prestando attenzione all’unico tratto un po’ ripido e sdrucciolevole (può dare problemi in caso di neve e ghiaccio), riprendiamo il sentiero 101 e, prima di arrivare al Nicola, lo abbandoniamo per imboccare la traccia che si diparte verso destra. Di nuovo, nessuna indicazione. Troveremo due sentieri: uno passa in cresta e l’altro più in basso. Ho seguito il primo in salita e il secondo in discesa, ma è la stessa cosa.
Dalla Cima di Piazzo (2059 m) si apre una vista fantastica sulle vette più alte della Valsassina, tra cui il Legnone e il Pizzo dei Tre Signori, e su tutto l’arco delle Orobie. Dopo la foto di rito alla terza e ultima madonnina, riprendiamo una delle due tracce in discesa e torniamo sul nostro buon sentiero 101, che imbocchiamo verso destra in direzione della bocca di Campelli. Prima di arrivare alla bocchetta, prendiamo il sentiero in discesa che ci riporta nella valle di Artavaggio e ci deposita ben presto su una strada carrozzabile, dove troviamo finalmente delle indicazioni per Moggio, 1h55′ verso sinistra.
Seguiamo questa strada per circa un chilometro, fino a trovare sulla destra un sentiero in discesa per Moggio, con tempi di discesa che chissà perché anziché diminuire aumentano: non fateci caso, ovviamente ci vuole molto meno. Per tornare al parcheggio, dobbiamo seguire le indicazioni per il sentiero 724 (non il 723!) e poi proseguire per Località Torrente (non Moggio paese). Il sentiero 724 ci porterà al bivio incontrato all’inizio del giro e da qui non dovremo fare altro che ripercorrere i nostri passi fino alla macchina.
Valbondione è notoriamente il punto di partenza per due popolarissimi rifugi orobici, il Coca e il Curò, verso cui si dipartono sentieri sempre molto frequentati. Vi sono anche, però, percorsi meno conosciuti e altrettanto interessanti – come il giro ad anello che vi propongo oggi.
La partenza è dal grande parcheggio davanti all’ufficio turistico e al campo sportivo di Valbondione. Attenzione: tutti i parcheggi sono a pagamento – 5 euro per l’intera giornata – con biglietto acquistabile alle macchinette, all’ufficio turistico oppure online (in quest’ultimo caso bisogna stampare l’email di conferma ed esporla nell’auto). Dopo avere parcheggiato, a piedi si risale per un breve tratto lungo via Beltrame, si svolta a destra in via Galizzi e si imbocca poi via Roncaglia, la stradina in salita sulla sinistra. Quando la strada finisce, si prosegue in salita lungo un sentiero che taglia i tornanti della strada e ci porta fino a Lizzola.
Attraversiamo il paese seguendo via San Bernardino. Una fontana permette di fare rifornimento di acqua fresca; sulla sinistra troveremo delle indicazioni per il rifugio Curò, che noi però raggiungeremo passando più in alto per altri sentieri. Ben presto si cominceranno a vedere delle frecce blu, a cui successivamente si aggiungerà il segnavia biancorosso del sentiero 322.
Dopo avere superato Lizzola, la traccia gpx non serve più: basta seguire le indicazioni per Baita di Sasna e Passo Bondione. Dopo una breve salita su stradina carrozzabile si arriva a un tratto pianeggiante e corribile, che segue il corso del torrente Bondione tra alpeggi e pascoli.
Riprendiamo a salire, sempre seguendo il sentiero 322 per Passo Bondione, che qui diventa più accidentato e a tratti mangiato dalla vegetazione. Incroceremo il sentiero 304, indicato anche come Sentiero delle Orobie: è questo, infatti, il tratto della spettacolare traversata delle Orobie orientali (chi fosse interessato troverà qui il giro completo) che collega il rifugio Curò con l’Albani.
Il sentiero si inerpica, permettendoci di guadagnare quota piuttosto rapidamente in un ambiente che diventa sempre più bello e selvaggio. Poco prima di arrivare alla baita di Sasna, bisogna fare attenzione a non perdersi di vista come è successo a noi, perché il sentiero si sdoppia per un tratto abbastanza lungo e si può finire su percorsi diversi. Entrambi, in realtà, portano alla baita di Sasna, ma chi non lo sa rischia di dare il compagno per disperso e tornare indietro a cercarlo!
Superata la baita, si arriva ai laghetti di Sasna e si continua in salita in questa ampia e pittoresca vallata, che con la luce del tardo pomeriggio ci ha offerto degli scorci davvero stupendi.
Si attraversa il torrente e si riprende a salire tra prati e roccette fino a incrociare il sentiero 321, anch’esso bene indicato. Tenendo la destra si prosegue per il Passo Bondione e il rifugio Tagliaferri, mentre noi abbiamo svoltato a sinistra seguendo le indicazioni per il rifugio Curò.
Il piano originale, in realtà, comprendeva anche il Passo Bondione, il Pizzo Tre Confini e il Recastello, ma arrivate al crocevia ci siamo rese conto di essere partite troppo tardi e senza frontale, così abbiamo puntato direttamente al rifugio evitando le due vette, che sono rimaste alte sopra di noi.
Il sentiero che scende per la val Cerviera non presenta particolari difficoltà, ma tenete conto che ci si trova in un ambiente severo di alta montagna: bisogna prestare attenzione a un breve tratto in cresta e a una ripida discesa, oltre che alle condizioni meteo, che possono cambiare velocemente.
Lungo la discesa abbiamo incontrato greggi di pecore, una famigliola di marmotte e, per la prima volta da queste parti, un branco di camosci – di solito da queste parti bazzicano i più socievoli stambecchi. La pendenza diminuisce e il paesaggio si addolcisce man mano che ci si avvicina al fondovalle. Si attraversa in diversi punti il torrente (di cui non conosco e non ho trovato da nessuna parte il nome) che scende con noi dalla val Cerviera per poi gettarsi nel lago artificiale del Barbellino.
Una volta al lago, si prende verso sinistra l’ampia strada carrozzabile che in breve conduce al rifugio Curò – dove consiglio caldamente di fermarsi per cena (a pranzo è molto affollato), per una fetta di torta o una birretta prima di tornare a valle: la gentilezza dei gestori e l’ottimo cibo valgono una sosta prima della discesa!
Tornare a Valbondione è davvero semplice: basta seguire la strada carrozzabile fino in paese.
Carona – Lago Marcio (1.841 m) – Laghi Gemelli (1.968 m) – Lago Colombo (2.046 m) – Passo d’Aviasco (2.289 m) – Valle dei Frati – Lago dei Frati (1.941 m) – Pagliari – Carona
Periodo: Agosto 2020
Partenza: Carona (1.110 m)
Distanza: 18,6 km
Dislivello: 1250 m
Acqua: fontana al rifugio Laghi Gemelli e a Pagliari
Questo giro è piuttosto semplice e veloce, ma decisamente appagante. Si passa per quattro laghi orobici e per la selvaggia Valle dei Frati, dove non è raro incontrare stambecchi e marmotte. La discesa per questa valle è un po’ tecnica, anche se mai esposta o pericolosa; per il resto, si passa solo per semplici sentieri escursionistici.
La partenza è dal lungolago di Carona: scendendo in auto verso la diga si incontrano prima delle strisce bianche, poi i parcheggi a pagamento. Dopo avere parcheggiato si segue di corsa il lungolago e, superato il bar Pineta, si imbocca il noto e frequentatissimo sentiero CAI 211 in salita verso sinistra per il rifugio Laghi Gemelli. In circa 4 km guadagneremo 700 m, arrivando al lago Marcio (1.841 m). Qui si prende a destra il sentiero semi-pianeggiante che costeggia il lago e che ci condurrà con un ultimo strappetto ai laghi Gemelli (1.968 m). Conviene rabboccare le borracce alla fontana davanti al rifugio, perché poi per parecchio tempo non troveremo altra acqua.
Attraversiamo la diga e prendiamo a sinistra il facile sentiero che porta al lago successivo, il lago Colombo (2.046 m). Superata anche questa diga, si prosegue in salita seguendo le indicazioni per il Passo d’Aviasco e per il Pizzo del Becco, il primo raggiungibile seguendo il facile sentiero 214 che costeggia il lago Colombo, il secondo invece passando per un canalone segnalato come EE – che poi potrebbe anche essere un EEA, vista la ripida ferrata per arrivare in vetta. Se vi interessa aggiungerlo al giro, tenete conto che è consigliabile almeno il caschetto.
Con il nobile scopo di riportare a casa il fratellino tutto intero, sennò poi chi la sente la mamma, ho optato per il sentiero 214, che costeggia il lago Colombo e sale poi verso il Passo d’Aviasco (2.289 m). Se fino ai Gemelli il percorso è molto battuto, in questo tratto l’affollamento diminuisce e ci si immerge finalmente in una natura incontaminata.
Dal passo, si prende il sentiero in discesa verso sinistra e ci si addentra nella Valle dei Frati, il vero obiettivo di questa gita. Il sentiero in alcuni tratti è ripido e sdrucciolevole, in altri è una semplice sequenza di bolli nella pietraia: ma non è mai troppo difficile e soprattutto i tratti più tecnici non sono esposti.
Arrivati all’ultimo laghetto, il Lago dei Frati, lo si costeggia e si comincia poi a scendere nel bosco, fino a raggiungere un bivio: si svolta a sinistra, seguendo senza possibilità d’errore il sentiero 247 per Pagliari (Carona). La discesa adesso è semplice e rilassante. Attraversato il torrente, si passa per il grazioso alpeggio di Pagliari, dove tra l’altro si può fare rifornimento d’acqua, e si prosegue poi in discesa lungo la strada carrozzabile fino a Carona.
Se frequentate queste montagne, di sicuro vi sarà già capitato di percorrere, magari senza saperlo, qualche tratto del sentiero delle Orobie (orientali). Avrete raggiunto uno dei rifugi sul percorso e magari notato le indicazioni per quello successivo, apparentemente lontanissimo. Ora vi spiego come concatenarli tutti in un unico giro, da suddividere in più giorni in base alla propria preparazione.
Farlo in un’unica tirata o anche in due giorni, dal mio punto di vista, è una vera impresa. Per finirlo in tre giorni, come abbiamo fatto noi (Tony, mitico organizzatore del giro, e le due Martas), è necessario comunque un buon allenamento. Se volete camminare più rilassati e godervi ogni scorcio di questo meraviglioso itinerario, potete anche pensare di suddividere il percorso su quattro giorni.
Le tracce gpx che trovate qui sopra sono rispettivamente la traccia “fittizia” del giro completo e le tre tracce “reali” dei nostri tre giorni di cammino. Attenzione: quella del primo giorno riporta verso l’inizio un errore di percorso, da non ripetere. In ogni caso il giro si può fare senza tracce gpx, seguendo le indicazioni del CAI Bergamo che, salvo pochi casi, sono decisamente chiare.
Il percorso comincia e finisce ad Ardesio, uno dei primi paesi dell’alta val Seriana. Abbiamo deciso di spostare leggermente il punto di partenza rispetto alle indicazioni CAI, lasciando l’auto davanti al bar Florida, a pochi passi dal fiume: una strategia vincente che ci ha permesso, all’arrivo, di rinfrescarci i piedi nell’acqua ghiacciata prima di essere accolti dal gentilissimo personale del Florida con birra, pizza, hamburger e patatine, che qui vengono serviti a tutte le ore del giorno e per buona parte della notte.
Si attraversa il ponte e si prosegue sul marciapiede verso destra, fino a incontrare, poco più avanti, le indicazioni per il sentiero delle Orobie dall’altra parte della strada. Si seguono i bolli del sentiero 220 prima lungo la strada in salita e successivamente nel bosco, sbucando poi su un tratto in piano che passa per prati e alpeggi (con insetti piuttosto molesti). Rientrando nel bosco, il sentiero si sdoppia e bisogna mantenere la destra – c’è un bollo blu un po’ sbiadito – per proseguire in piano seguendo il fiume a fondovalle: qui noi abbiamo erroneamente preso a sinistra e continuato in salita (è questo l’unico punto in cui la traccia è sbagliata e non va seguita).
Arrivati a Valcanale, possiamo fare un primo rifornimento d’acqua alla fontana del paese; poi si prosegue lungo la strada, si supera il laghetto e si prende la noiosa mulattiera in salita per Alpe Corte, il primo dei tanti rifugi che incontreremo nel nostro percorso.
Dall’Alpe Corte (1410 m), come ha sentenziato il nostro Tony, “comincia la montagna”: la mulattiera diventa sentiero, il bosco cede il passo a un ambiente più alpino e, alle nostre spalle, la vista si apre sul pizzo Arera. Si segue ora il sentiero 216 in direzione Laghi Gemelli e ci si inoltra finalmente nelle selvagge Orobie, guadagnando rapidamente quota fino al passo dei Laghi Gemelli (2139 m). Da qui si scende all’omonimo rifugio (1969 m), costeggiando il lago sul lato sinistro. Il sentiero delle Orobie vero e proprio proseguirebbe ora verso il Calvi con il segnavia 213, mentre noi siamo passati dal passo d’Aviasco e dalla valle dei Frati – una variante che consiglio: la valle dei Frati è tra i posti più belli che abbiamo visto in questi tre giorni.
Dal rifugio Laghi Gemelli si attraversa la diga e si prende a sinistra il facile sentiero che porta al lago Colombo (2.046 m). Si supera questa seconda diga e si prosegue in salita lungo il sentiero 214 seguendo le indicazioni per il passo d’Aviasco (2.289 m), a cui si arriva piuttosto velocemente con un ultimo strappetto in salita. Da qui si scende nella valle dei Frati, in un ambiente davvero selvaggio tra pietraie, lingue di neve, fiori sgargianti e branchi di stambecchi.
Dopo una lunga e panoramica discesa, rientriamo nel bosco e incontriamo di nuovo il segnavia ufficiale, il n. 213, che seguiamo più o meno in piano, con qualche breve tratto in salita, fino al rifugio Calvi. Qui abbiamo dormito la prima notte, e all’alba del secondo giorno (beh, non proprio all’alba… ma per questa seconda tappa converrebbe partire il prima possibile) abbiamo ripreso il nostro cammino in direzione del passo Valsecca.
Il sentiero dal Calvi al Brunone è il 225, che passa alle pendici del Diavolino e del Diavolo di Tenda inerpicandosi fino al passo di Valsecca (2496 m). Se fino adesso il percorso è stato “escursionistico”, questa seconda tappa è decisamente “EE” e richiede un’attenta valutazione della propria preparazione, fisica e mentale.
In fondo alla valle, poco prima di arrivare al passo di Valsecca, abbiamo trovato ancora qualche nevaio (17 luglio), che siamo comunque riusciti ad attraversare tranquillamente senza ramponcini.
Dal passo di Valsecca si scende verso il bivacco Frattini, che dalla sua invidiabile posizione in cresta domina una valle selvaggia e incontaminata; dal bivacco si prosegue in discesa verso sinistra, inoltrandosi sempre di più, tra stambecchi, nevai e ghiaioni, in questo stupendo scenario orobico.
La discesa in alcuni punti è stata un po’ delicata, tra lingue di neve che si stanno ritirando e tratti in cui la neve appena sciolta ha lasciato il sentiero in parte franato, o comunque in condizioni non ottimali. Di sicuro tra qualche settimana sarà più agevole! Si continua a perdere quota fino ad attraversare, nel punto più basso e anche qui su nevaio, quel Fiume Nero che dà il nome al paese a fondovalle, mille metri più in basso. Da qui si riprende a salire, lungo un sentiero sempre nervoso, che richiede continua attenzione, fino al rifugio Brunone (2295 m).
Si tenga presente che, sia per questo tratto sia per quello successivo, dal Brunone al Coca, eravamo convinti che i tempi CAI (5 ore dal Calvi al Brunone, 6 ore dal Brunone al Coca) fossero assurdi, ma ci siamo dovuti ricredere: pur procedendo di buon passo, non abbiamo impiegato molto meno.
Dal Brunone prendiamo il sentiero 302 per affrontare la parte più tosta e affascinante dell’intero giro: il passo Simal. Questo tratto si può evitare con la variante bassa, di cui comunque bisogna verificare le condizioni al rifugio.
Il sentiero 302 passa ai piedi del Redorta e si inerpica per sfasciumi e nevai, da attraversare con attenzione. I bastoncini e/o i ramponcini cominciano a diventare fondamentali per gli attraversamenti su neve, soprattutto per chi passi di qui al mattino presto, quando la neve è gelata. Noi siamo arrivati con il sole già alto e nella neve si camminava più serenamente, ma la severità di questo ambiente non va sottovalutata.
Il paesaggio si fa sempre più aspro e spettacolare quando, superato un primo canale di sfasciumi, arriviamo a un tratto quasi pianeggiante con roccia più solida. Per arrivare al laghetto e poi al Simal (2712 m) abbiamo dovuto attraversare un altro nevaio di qualche centinaio di metri, non particolarmente impegnativo con la neve morbida del primo pomeriggio, di sicuro più delicato per chi si trovasse a passare di qui di prima mattina.
Dal Simal, dove la vista si apre finalmente sulla valle successiva e sul Pizzo Coca, si scende lungo un canale di sfasciumi franosissimo, fortunatamente attrezzato con catene. Consiglio la massima attenzione, soprattutto quando ci sono altre persone nei paraggi. Dato che non ci sono premi in palio per chi arriva prima al Coca, forse è meglio metterci cinque minuti in più ed evitare di scaricare una frana su chi si trova più in basso.
Se alla fine del canale pensate che le difficoltà siano finite, vi sbagliate! Il sentiero 302 prosegue ancora a lungo tra saliscendi, roccette, piccoli nevai, tratti con catene. Non c’è un punto particolarmente difficile: la difficoltà sta nel mantenere costantemente alta l’attenzione, senza mai abbassare la guardia dal passo Valsecca al lago di Coca.
Dal lago al rifugio Merelli Coca (1892 m) possiamo finalmente tirare il fiato e camminare o corricchiare tranquilli su un comodo sentiero. Dal rifugio, tappa utile per un ultimo rifornimento d’acqua, scendiamo brevemente per attraversare il torrente e riprendiamo a salire in direzione Curò.
Questo tratto, pur classificato come EE, è meno impegnativo rispetto a quello appena affrontato, ma a questo punto la stanchezza si fa sentire e bisogna fare un doppio sforzo per rimanere concentrati. La traversata di solito è piuttosto panoramica, ma noi l’abbiamo fatta con visibilità zero, avvolti nella nebbia. Nebbia che si è diradata un po’ solo nel corso della discesa verso il lago del Barbellino, che alla fine, per fortuna, siamo riusciti a vedere sotto di noi. La diga ci ha ricompensato di tutte le fatiche con il caratteristico spettacolo degli stambecchi scalatori. Un’ultima salitella, un tratto in piano lungo il lago e, finalmente, siamo al Curò.
Ne approfitto per ringraziare i gestori del rifugio Curò, dove siamo stati trattati davvero benissimo!
Il terzo giorno, preparati ad affrontare la parte più lunga, almeno come chilometraggio, del sentiero delle Orobie, ci siamo messi in cammino di buon’ora, scendendo per un breve tratto lungo la strada che dal Curò porta a Valbondione. Si lascia la strada all’altezza del primo tornante per prendere il sentiero 304 verso il passo della Manina e il rifugio Albani. Ci facciamo largo nell’erba alta per qualche chilometro e, mentre usciamo dal bosco, la vista si apre sulla Presolana. Scendiamo fino a fondovalle e attraversiamo il torrente che, insieme a qualche ruscelletto nelle immediate vicinanze, rappresenta l’ultimo punto acqua per parecchio tempo: dalla Manina all’Albani non si incontrano fontane né rifugi, a meno di deviare verso Lizzola o il rifugio Mirtillo.
Raggiunta la graziosa chiesetta al passo della Manina (1799 m), si prosegue lungo il sentiero 401 seguendo le indicazioni per il rifugio Albani. Dopo un breve tratto in salita, usciamo dal bosco e ci troviamo catapultati in un ambiente quasi dolomitico, dove montagne di roccia chiara, calcarea, spuntano come funghi dal verde dei prati. Poco a poco si abbandonano i prati e ci si addentra tra rocce e ghiaioni – completamente diversi da quelli attraversati il giorno prima – in direzione della Presolana.
Il sentiero non presenta difficoltà, se non un breve canalino attrezzato con catene che, dopo il Simal, è davvero una passeggiata. La vista, in compenso, è mozzafiato. Passiamo ai piedi del monte Ferrante, superiamo gli impianti e proseguiamo su strada o su sentiero (meglio il sentiero, è più grazioso) fino al rifugio Albani (1939 m). Poco più in basso del rifugio ci sono delle baite: qui troviamo finalmente una fontana per riempire la borraccia, anche se una birretta all’Albani si è rivelata ben più dissetante.
Per tornare ad Ardesio si torna indietro seguendo brevemente il sentiero 401 fino al passo Scagnello (2080 m): da qui ci aspetta una lunghissima discesa lungo il sentiero 311 verso Valzurio e le baite di Moschel. Troviamo già anche le indicazioni per Ardesio, che seguiamo insieme ai bolli bianco-rossi passando ora su sentiero, ora su strada forestale. Senza scendere fino a Valzurio, si seguono sulla destra le indicazioni per Colle Palazzo e si prosegue con salitelle alternate a tratti in piano in un bel bosco. Arriviamo a Colle Palazzo (1300 m) con una comoda strada forestale, che abbandoniamo per prendere il sentierino in discesa verso Ardesio. Questo tratto di sentiero è davvero brutto, scivoloso e franoso anche in condizioni meteo ottimali, ma finisce presto. Si torna su strada carrozzabile e, continuando a seguire i bolli, si torna finalmente ad Ardesio. Si attraversa il centro, si svolta a sinistra e si segue la strada principale fino all’auto.
E con i piedi a mollo nell’acqua gelata del torrente si chiude questo lungo, fantastico viaggio nelle Orobie orientali!
Sentiero 4 luglio (32,5 km – 2700 m D+)
19 Agosto 2023 by marta • Orobie, Valtellina Tags: bivacco davide, campovecchio, cima sellero, corsa in montagna, maratona del cielo, orobie valtellinesi, passo sellero, passo telenek, sant'antonio, sentiero 4 luglio, skymarathon, skyrunning • 0 Comments
Sulle tracce di una delle più celebri skymarathon valtellinesi.
Periodo: Agosto 2023
Partenza: parcheggio Fucine-les, Corteno Golgi (BS)
Distanza: 32,5 km
Dislivello: 2700 m
Acqua: abbiamo seriamente patito la sete!
GPX (clic dx, salva link con nome)
Un percorso tecnicissimo per creste aeree e traversi esposti caratterizza buona parte del sentiero 4 luglio, dove ogni estate si corre una delle gare più importanti della Valtellina. Vedere i tempi dei più forti ci fa sentire delle cacchine, ma insomma noi Martas siamo poco ambiziose e giriamo più che altro per divertirci!
Il giro è bellissimo e merita una gita fuori gara, per godersi appieno i panorami e il silenzio di queste selvagge Orobie valtellinesi.
Abbiamo lasciato un’auto al parcheggio Fucine-Les di Corteno Golgi, all’imbocco della strada che sale verso Sant’Antonio, e l’altra a Santicolo, punto di arrivo della gara, per seguire il percorso ufficiale; un inaspettato maltempo, però, ci ha costretto a tagliare l’ultima parte, verso la fine delle creste, scendendo dalla val Torsolazzo verso Corteno Golgi anziché terminare il giro a Santicolo. Questa soluzione d’emergenza si è rivelata interessante, con una bella discesa facile e corribile, e mi sento di consigliarla.
Per andare a prendere il sentiero 4 luglio vero e proprio bisogna per prima cosa salire a Sant’Antonio (1125 m) lungo la strada asfaltata e, poi, seguire le indicazioni per Campovecchio. Da qui si prosegue in direzione passo Sellero: non dritto, come facciamo dapprima noi, attirate da un asinello che sembra un Trudy e dall’invitante indicazione “3.30 h”; bensì verso destra, seguendo il sentiero 107 che si inoltra nel bosco, con tempo di percorrenza 6 h.
Guadagniamo quota in modo costante, su comodo sentiero, fino allo Zapel dell’Asen (2026 m). Da qui alla Val Rosa ci aspetta un lungo e accidentato traverso di 6 km, dove con ogni probabilità i top runner corrono al quattro e trenta, mentre noi non vediamo altra soluzione che camminare di buon passo.
Per fortuna abbiamo l’idea di rabboccare le borracce a un ruscello: sarà l’unico punto acqua da qui alla fine del giro! Finalmente dalla Val Rosa (1970 m) riprendiamo a salire. Non c’è anima viva e ci godiamo lo spettacolo delle creste che andremo a percorrere nella pace e nel silenzio. Man mano che saliamo, l’erba cede il posto alla pietraia e il sentiero, sempre ben segnato, si inerpica verso il passo Telenek (2560 m).
Dal passo, ci dirigiamo verso la cima Sellero (2744 m), il punto più alto della gara. Da qui in avanti il sentiero segue il filo di cresta, ed è un vero spettacolo!
Ci aspetta ora il tratto più tecnico del giro, una discesa piuttosto ripida con catene che ci porta al passo Sellero (2400 m).
A questo tratto attrezzato seguono, prima e dopo il passo Sellero, crestine aeree e traversi esposti: se dovessi classificare questo sentiero 4 luglio, cosa che non farò perché non sono un CAI e non scrivo per gli escursionisti, lo definirei di grado FBLO (fa balaa l’oecc).
Arriviamo al bivacco Davide, intorno al 20esimo km, completamente disidratate: nonostante il cielo nuvoloso, la giornata è caldissima e di acqua proprio non ne abbiamo trovata. Nella disperazione, attingiamo a una tanica appartenente a tale Claudio (grazie, Claudio! se leggi questo post, scrivici, così ti offriamo una birra!) prendendo solo il minimo sindacale per arrivare alla fine del giro.
Dal bivacco, il sentiero diventa un po’ più semplice. Continuiamo sempre più o meno in cresta, aggirando una cimetta non meglio identificata con qualche catena (non necessaria) e superando un traverso dove le catene risultano un gradito corrimano. In generale, il sentiero è in ottime condizioni: le protezioni non annullano le difficoltà intrinseche del percorso, ma di sicuro lo rendono il più sicuro possibile.
Alla bocchetta del Palone succede quello che è inevitabile in giornate così calde e umide: comincia a tuonare e cadono le prime gocce. La situazione non sembra tragica e valutiamo anche di proseguire, ma alla fine decidiamo, studiando le mappe di Strava, di dare una chance all’invitante val Torsolazzo che si apre sotto di noi e che dovrebbe riportarci a Corteno Golgi in tempi sicuramente inferiori a quelli che impiegheremmo a raggiungere Santicolo.
Seguiamo dunque i segnavia, ottimamente tracciati, del sentiero 134 e nel giro di pochi minuti cominciamo a congratularci tra di noi per la saggia decisione, visto che comincia prima a diluviare, poi a grandinare. Il sentiero, prima su pietraia, poi su pratone e infine nel bosco, non è mai troppo ripido e ci permette di scendere in tempi relativamente brevi e senza inconvenienti, a parte uno scivolone su una roccia bagnata.
Arriviamo infine a una strada sterrata, che imbocchiamo verso destra in direzione Sant’Antonio. Finalmente troviamo una fontana, dove possiamo dissetarci e sciacquare le ferite. In pochi chilometri raggiungiamo Sant’Antonio e, da qui, ripercorriamo i nostri passi fino alla macchina.