Di solito non torno nello stesso posto due volte in un mese, ma per il monte Bassetta ho fatto un’eccezione: tra le vette valtellinesi facilmente raggiungibili in inverno è, infatti, in assoluto la più panoramica! Da questo spettacolare panettone la vista può spaziare dal Legnone al lago di Como e, soprattutto, alle cime della val dei Ratti e della Val Masino, come l’inconfondibile Sasso Manduino. Se nel giro fatto a inizio gennaio c’era ancora neve, adesso (30/01/2022) ne è rimasta davvero pochissima solo in cima al Bassetta.
Parcheggio a Cino, in via Garibaldi. Nello zainetto ho solo una flask – sono erroneamente convinta di trovare fontane ovunque -, una barretta e i ramponcini (just in case). Parto corricchiando lungo la strada che collega Cino e Cercino, due dei paesini sulla soleggiata costiera dei Cèch. Dopo un chilometro e mezzo più o meno in piano, si trova sulla sinistra una mulattiera in salita.
Le indicazioni da seguire sono quelle per “percorso didattico” e Bioggio. La mulattiera sale dapprima con decisione, poi con pendenza sempre più blanda, fino a spianare arrivando a Bioggio.
Dal santuario ho preso il sentiero in leggera salita, ma in realtà si può seguire anche la strada in leggera discesa: i due percorsi si ricongiungono poco dopo. All’incrocio, si prende la strada senza indicazioni che prosegue in salita.
Questa seconda carrozzabile sarebbe infinita, ma per fortuna un sentierino, difficile da vedere, mi permette di tagliare qualche tornante. Si tratta di un ripido sentiero da enduristi – ormai li riconosco a colpo d’occhio – e infatti ben presto trovo tre ragazzi che, lasciate le moto sulla strada, sono scesi a ripulire il sentiero dagli alberi caduti. Se in altri posti c’è antipatia tra escursionisti e motociclisti, in questi boschi le due specie convivono più o meno in pace. Certi sentieri che percorro abitualmente sarebbero del tutto impraticabili, coperti di vegetazione e ostruiti dai tronchi, se non vi passassero regolarmente le moto da enduro. Per cui saluto con gratitudine e continuo a salire.
Gli ultimi tornanti invece mi tocca farli tutti, perché non vedo più nessuna scorciatoia su sentiero. Arrivo finalmente a un bivio, dove la vegetazione si apre e mi permette di ammirare il Legnone in tutta la sua imponenza.
Al bivio si prende la strada che svolta tutto a sinistra, in discesa, verso Prati Nestrelli. Nella direzione opposta è indicato il monte Brusada e mi ripropongo di tornare in esplorazione più avanti con la bella stagione: per il momento preferisco attenermi al piano originale di salire al Bassetta da Prati Nestrelli.
La strada è lunga e faticosa, un po’ a saliscendi. Sulla destra trovo in successione ben due sentieri che salgono al monte Bassetta, al sentiero Bonatti e al rifugio Brusada. Li ignoro, sia perché non so a che altezza arrivano, sia perché fa caldo, ho quasi finito l’acqua e vorrei proprio passare dalla fontana di Prati Nestrelli prima di cominciare la salita al Bassetta. In realtà, scopro che il sentiero Prati Nestrelli-Bassetta comincia ben prima della fontana e, stupidamente, non allungo il percorso per riempire la borraccia.
Il sentiero che sale da Prati Nestrelli al Bassetta è bello, semplice e panoramico. L’altra volta lo avevo fatto in discesa e ne ho conservato un buon ricordo. In due chilometri e mezzo si guadagnano circa 500 m di quota, ben distribuiti. Finalmente arrivo in vista dell’alpe Bassetta.
Raggiungo l’alpe, sperando di trovarvi dell’acqua. Non ci sono fontane, ma trovo molti escursionisti intenti a bere e mangiare. Nessuno a quanto pare ha dell’acqua da cedermi. Mi viene offerta una lattina di red bull e ricevo anche un mezzo rimprovero quando la rifiuto, come se non avessi davvero sete. Signori, se volete provo a spiegarvi che cosa succederebbe al mio stomaco e al mio intestino se durante una corsa ingerissi una red bull. Ma facciamo che vi lascio alla vostra abbuffata e mi arrangio da sola. Grazie, eh.
Lascio l’alpe e salgo al monte Bassetta, dove è rimasta un po’ di neve che mi metto a masticare. Meglio di niente. Provvidenzialmente arriva una persona gentile, che mi offre dell’acqua (e anche del vino). Accetto con gratitudine un goccio d’acqua, che vedrò di farmi bastare fino all’alpe Piazza, dove spero finalmente di trovare una fontana.
Senza ripassare dall’alpe, taglio giù per il prato andando a intercettare il sentiero Bonatti, che dal Bassetta scende verso il monte Foffricio. Le foto non rendono la bellezza di questa discesa: sembra di andare a tuffarsi nel lago di Como! Sulla destra compare poi la Val Chiavenna con il lago di Novate Mezzola.
Il sentiero è molto secco e a tratti scivoloso, ma facile al pari di quello che sale da Prati Nestrelli. In meno di venti minuti sono al monte Foffricio, indicato da un cartello, altrimenti non mi accorgerei neanche di essere su un monte.
Prendo ora il sentiero verso destra, che in un chilometro di facile discesa mi porta all’alpe Piazza, dove finalmente trovo una fontana. Che bello bere quando si ha davvero sete!
Dall’alpe scendo a intercettare la strada, che percorro brevemente fino a trovare sulla sinistra un altro sentiero taglia-tornanti. Bisogna prendere quello in discesa, naturalmente.
Da questo sentiero evidentemente gli enduristi non passano, perché è coperto di foglie e mi costringe a procedere lentamente. Mi fa comunque risparmiare un bel tratto di strada: solo per gli ultimi 2 km mi tocca correre su asfalto fino a Cino.
Prendendo casa in Valtellina, terra di grandi atleti e sportivi, può facilmente capitare di trovarsi come compaesana una top runner come Lucia. Mi tira sempre il collo, eh. Anche quando è infortunata e il medico le ha prescritto di andare piano. Ma è la compagna ideale per esplorare queste bellissime montagne, selvagge e sconosciute al grande pubblico. Oggi è stata la volta della panoramica croce di Poverzone, una delle mete più amate da escursionisti e ciclisti in bassa Valtellina; per non farci mancare niente, poi, abbiamo fatto un salto al lago di Colina, altra piccola perla sconosciuta ai più, che per la prima volta ho visto ricoperto di neve.
Qualche piccola informazione di servizio: la traversata dalla croce al lago avviene lungo una comoda strada carrozzabile, perfettamente percorribile anche in mountain bike (in questo caso bisogna aggiustare la traccia in salita e in discesa, sostituendo alcuni sentieri con le strade che servono gli alpeggi). Ciò non significa, però, che questo giro si possa sempre fare in pieno inverno: quando nevica tanto, difficilmente la strada sarà praticabile anche a piedi. In questo gennaio 2022, particolarmente secco e caldo, abbiamo trovato solo a partire dai 1800 m poca neve ghiacciata. Ramponcini utili ma non indispensabili. Lo stesso si può dire della traccia gpx: non è strettamente necessaria, perché il giro è piuttosto intuitivo, ma torna utile in quanto le indicazioni sono rare.
La partenza è da Vendolo, un paesino che sorge sul versante solivo e lungo la via dei Terrazzamenti, così piccolo che non sto a spiegarvi dove parcheggiare: troverete da soli l’unico parcheggio lungo l’unica via del paese. Anticipate da Nami, la cagnolina montanara di Lucia, ci riscaldiamo con un breve tratto di strada più o meno pianeggiante, poco meno di 1 km, in direzione Castione Andevenno; poi prendiamo il sentiero in salita verso sinistra.
Questo primo tratto di sentiero, che collega Castione con Ligari, è davvero semplice, morbido e in ottime condizioni. Ben presto arriviamo a un paesino dal nome simpatico, Barboni di sotto. Siamo qui a 1150 m di quota e possiamo già ammirare la catena delle Orobie dall’altra parte della valle.
Da qui si può seguire la strada fino a Ligari, ma noi amanti del verticale (chi più, chi meno) preferiamo salire dritto per dritto lungo un sentiero un po’ dismesso, ma ancora visibile, fino a incrociare il più comodo sentiero che arriva da Ligari. Questo sentiero, fino alla croce di Poverzone, è ben segnato da bolli e persino con catarifrangenti, che lo rendono facilmente percorribile anche in notturna. Proseguiamo senza possibilità d’errore fino a sbucare dal bosco all’altezza di un piccolo alpeggio chiamato Piastorba.
Da qui, guardando in alto a sinistra, si vede già la croce di Poverzone. Noi dobbiamo però proseguire dritto, attraversando l’alpeggio e percorrendo per un tratto la strada in piano. Poi si trova sulla sinistra un altro sentiero, che riporta nel bosco per l’ultimo tratto di salita fino alla croce.
Ben presto torniamo a incrociare la strada, ora pianeggiante e innevata, e la seguiamo per un breve tratto fino a raggiungere la nostra prima meta, appunto la croce di Poverzone. Da qui la vista sulla Valtellina e sull’arco orobico è davvero fantastica.
Dopo le foto di rito, torniamo sulla strada carrozzabile e finalmente troviamo delle indicazioni scritte. Un cartello mostra il sentiero per il monte Rolla, poco sopra di noi, mentre la strada prosegue verso il lago di Colina, indicato a 5,5 km.
Lucia e Nami partono a tutta birra lungo la strada in leggera salita, mentre io mi affanno nel vano tentativo di tenere il loro passo. Da qui al lago si fanno ancora circa 200 m di dislivello, ben distribuiti ma comunque faticosi.
Sempre seguendo questa strada (ignorate la piccola deviazione che abbiamo fatto noi poco prima del lago) si arriva al lago di Colina, ghiacciato e ricoperto di neve, alle cui spalle svettano il monte Colina e il monte Caldenno. Dietro queste montagne, nascosti alla vista, si ergono i più imponenti Corni Bruciati, la cima di Corna Rossa e il Disgrazia: i rilievi, cioè, che separano la Valmalenco dalla Val Masino.
Torniamo sui nostri passi e andiamo a riprendere la strada in discesa verso l’alpe Colina.
La pacchia su strada dura poco: a Lucia piace seguire la linea più breve e ben presto ci troviamo a tagliare i tornanti scendendo di corsa per i prati. Una volta riguadagnata la strada, la seguiamo brevemente, fino a incontrare sulla sinistra le indicazioni per Postalesio.
La discesa da qui a Pra Lone è tracciata perfettamente, in quanto si tratta del percorso del Verti-Colina, gestito da SLAlom alle Piramidi. Si tratta semplicemente di seguire i cartelli e il sentiero che taglia i tornanti della strada.
A Pra Lone prendiamo il sentiero verso sinistra, seguendo le indicazioni per Dondolo. Fa rima con Vendolo ed è lì che ci porterà! Sempre in discesa, ora su tracce poco battute, ora su facile sentiero, arriviamo a incrociare la via dei Terrazzamenti, che imbocchiamo verso sinistra e che in un attimo ci riporta alla macchina.
In un lugubre fine settimana di inizio febbraio, sotto una pioggerella autunnale e immersi nella nebbia, io e super Tony abbiamo trovato comunque il modo di divertirci un po’ su un percorso facile e sicuro, che dall’Adda arriva al Monte di Brianza o di San Genesio che dir si voglia (877 m), passando per la città fantasma di Consonno.
Dopo avere parcheggiato alle Fornasette di Olginate, davanti alla Trattoria Cantù – ovviamente vale solo se dopo il giro ci si ferma a pranzo, altrimenti trovatevi un altro parcheggio! – abbiamo imboccato la pista ciclo-pedonale lungo l’Adda in direzione Lecco. Quando piove, fango e pozzanghere la fanno da padroni, ma non fatevi scrupolo a sporcarvi le scarpe: non è niente rispetto a quello che si troverà sui sentieri tra Consonno e San Genesio.
Costeggiamo l’Adda per poco più di 5 km; a Olginate, abbandoniamo la ciclabile e attraversiamo il paese in leggera salita (seguire la traccia gpx). All’inizio della lunga strada a tornanti, particolarmente amata dai ciclisti, che sale fino a Consonno, troveremo una mappa del parco del Monte di Brianza e le prime indicazioni che ci interessano, quelle del sentiero 209 per Consonno.
La segnaletica è chiarissima e non richiede ulteriori spiegazioni: si continua in salita, su un terreno piuttosto fangoso – e non è ancora niente rispetto a quello che ci aspetta tra un po’ – ma mai troppo ripido: si guadagnano circa 400 m in 2 km.
Quando il sentiero sbuca sulla strada asfaltata, svoltiamo a sinistra e scendiamo per la foto di rito nella spettrale Consonno, che con la nebbia sembra ancora più lugubre di quello che è. Costruita negli anni Sessanta con l’intento di farne una sorta di Las Vegas italiana, Consonno è rimasta incompiuta e nel tempo si è trasformata in una decrepita, grottesca città fantasma.
Dopo un giretto tra gli edifici diroccati, si torna indietro per riprendere la strada da cui siamo arrivati. Noi abbiamo tagliato per un sentierino sulla sinistra, ma vista la quantità di fango è probabilmente consigliabile seguire la strada asfaltata che gira intorno al monte Regina (820 m).
Abbandoneremo questa strada per prendere il fangosissimo sentiero n. 1 verso sinistra, in direzione San Genesio. Bisogna seguire questo sentiero, indicato in modo chiarissimo dal segnavia bianco-rosso (salvo un punto in cui bisogna stare un po’ a cercare le indicazioni, che comunque ci sono), fino al Monte di San Genesio. Non aspettatevi un panorama da “vetta”: rimaniamo sempre immersi nel bosco e, nel nostro caso, nella nebbia.
Dopo una meritata pausa al ristoro alpino, scendiamo le scale e torniamo sui nostri passi per prendere il sentiero in discesa, anche questo molto fangoso, seguendo le indicazioni per Aizurro.
Arrivati a Aizurro, svoltiamo a destra lungo la strada asfaltata e seguiamo in discesa il sentiero n. 4 che, tagliando i tornanti della strada, ci porta fino a Airuno.
Superiamo la linea ferroviaria e attraversiamo il paese (di nuovo, seguire la traccia gpx), fino a raggiungere una stradina sterrata tra i campi che ci riporterà alla ciclabile dell’Adda. La imbocchiamo verso sinistra e, in meno di un chilometro, siamo al punto di partenza.
Un super grazie a super Tony per le risate, le scivolate nel fango, la mangiata in compagnia e, least but not last, per avere posato come sempre per le foto a beneficio dei lettori di Trail Rings.
Filorera (Casa della Montagna) – Rifugio Scotti (1465 m) – Rifugio Ponti (2559 m) – Bocchetta Roma (2894 m) – Bivacco Kima (2750 m) – Passo Cameraccio (2950 m) – Bivacco Manzi (2562 m) – Passo Torrone (2518 m) – Rifugio Allievi-Bonacossa (2384 m) – Passo dell’Averta (2551 m) – Passo Qualido (2647 m) – Passo Camerozzo (2765 m) – Rifugio Gianetti (2534 m) – Passo Barbacan (2570 m) – Rifugio Omio (2108 m) – Bagni di Masino – San Martino – Filorera.
Periodo: Luglio 2020
Partenza: Filorera (841 m)
Distanza: 52 km
Dislivello: 4200 m
Acqua: fontana all’Allievi e alla Giannetti, per il resto ci siamo serviti ai ruscelli.
I numeri del Trofeo Kima, una delle più spettacolari skymarathon in Italia, sono impressionanti: 52 km, 4200 m di dislivello positivo e 7 passi ad alta quota, tecnicissimi, da superare in velocità lungo quella meravigliosa alta via che è il Sentiero Roma. Roba da top runner, insomma. Pensare ai tempi non solo di chi vince la gara in sei ore, ma anche di chi la chiude entro le undici ore concesse dal regolamento, mette davvero in soggezione i comuni mortali come me. Mai avrei immaginato di poterlo fare in un giorno solo.
Ma i super soci Meme e Samuel hanno deciso di osare: come avrei potuto tirarmi indietro senza poi passare la giornata a rosicare per non essere lì con loro? La mia idea era di partire con loro e a un certo punto ritirarmi in buon ordine: dall’Allievi scendendo per la val di Zocca, oppure più avanti, dal bivacco Molteni-Valsecchi per la Val del Ferro – le vie di fuga non mancano, in questo giro, e in tutta onestà è stata proprio la possibilità di abbandonare a convincermi a provare. Invece le gambe giravano, i soci mi aspettavano pazientemente e, in qualche modo, abbiamo trovato tutti e tre la motivazione per superare, uno dopo l’altro, i sette temibili passi del Kima e l’infinita discesa per chiudere il giro.
Ecco allora il racconto della nostra impresa, per chi vuole affrontare la stessa sfida e per chi preferisce dividere il percorso in due o più giorni: in entrambi i casi, sarà un viaggio indimenticabile.
Permettetemi innanzitutto di darvi qualche consiglio pratico. Primo, bisogna essere preparati ad affrontare un ambiente estremamente severo di alta montagna: provate magari a percorrere qualche pezzo del Sentiero Roma prima di affrontare il giro completo, in modo da rendervi conto delle difficoltà. Secondo, a meno che siate al tempo stesso alpinisti provetti e runner di livello, considerate dei tempi molto più lunghi di quelli che potreste impiegare, a parità di distanza e dislivello, in una gara trail. Terzo, aspettate che le condizioni meteo siano ideali: sarebbe pericoloso affrontare questo percorso con la pioggia o in condizioni di scarsa visibilità. Un altro fattore da tenere a mente è la neve: nel mese di luglio ce n’è ancora tanta e alcuni nevai permangono in agosto; la parte più alta del giro è anche quella che affronterete per prima, tra la Bocchetta Roma e il Passo Cameraccio, e passando al mattino presto rischiate di trovare neve ghiacciata. I ramponcini, se non proprio indispensabili per chi si sa muovere bene, sono comunque uno strumento fondamentale per superare velocemente e in sicurezza i primi traversi su nevaio. Infine, vi consiglio caldamente di affrontare l’impresa in compagnia di un paio di amici fidati: non solo perché è bello condividere gioie e dolori di questo percorso, ma anche perché è più facile arrivare alla fine con qualcuno accanto che ti incoraggia e ti tira su di morale negli inevitabili momenti di crisi.
La partenza è da Filorera, dal piazzale antistante la Casa della Montagna – dove, se volete, la gentilissima signora Iris vi offrirà una sistemazione per la notte e preziosi consigli sulle condizioni del percorso. Tutto il giro è perfettamente indicato, per cui mi sento di dire che la traccia gpx, che pure allego al post come al solito, in questo caso non serve se non a consumarvi la batteria dell’orologio. Una volta acquisito il segnale gps – operazione che nel nostro caso ha richiesto parecchio tempo – si attraversa il ponte e si parte!
Per i primi 7 km si segue la strada asfaltata che sale per la valle di Predarossa, passando per il Rifugio Scotti. In questo primo tratto si supera una galleria non brevissima, illuminata da una luce temporizzata la cui durata deve però essere stata calcolata sui tempi di Kilian – meglio tenere la frontale a portata di mano, se non la percorrete proprio di corsa. Dopo Sasso Bisolo, troviamo sulla sinistra un sentiero, poco battuto ma bene indicato, che taglia i tornanti e ci porta rapidamente a quota 1980 m, dove finisce la strada e comincia il sentiero per il Rifugio Ponti.
La vista da qui si apre, regalandoci un piccolo assaggio dello scenario che ci attende poco più in alto. Possiamo goderci un chilometrino di corsa in piano lungo il torrente, prima che il sentiero cominci di nuovo a inerpicarsi verso il Rifugio Ponti (2559 m) e poi ancora più su, sempre più in alto, fino ai 2894 m della Bocchetta Roma.
Niente male, se si pensa che abbiamo guadagnato in un sol colpo duemila metri di quota. Di fronte a noi troneggia il Disgrazia mentre, più che seguire una traccia, saltelliamo da un blocco di granito all’altro seguendo i bolli, sempre evidenti, del Sentiero Roma fino alla bocchetta omonima, il primo dei sette passi che ci aspettano.
Superata la bocchetta, ci aspetta una discesa vertiginosa, tutt’altro che banale, giù per enormi placche di granito attrezzate con catene. Purtroppo non ho foto per illustrare i punti più verticali: portavo i guanti, avevo le mani occupate con le catene e la testa concentrata sull’obiettivo sopravvivenza. Credetemi, però, se vi dico che scendere dalla Bocchetta Roma al nevaio sottostante, con il vento e la temperatura che può esserci a quella quota alle nove del mattino, può risultare impegnativo anche per i più esperti.
Si attraversano ora dei tratti su nevaio, alcuni un po’ delicati a causa della neve ghiacciata. I ramponcini si sono rivelati fondamentali in questa fredda, severa Val Cameraccio. Superiamo il bivacco Kima e proseguiamo in un fantastico anfiteatro di vette aguzze in direzione di quella più aguzza di tutte, il Pizzo Cameraccio.
Superando o aggirando, a seconda dei casi, qualche altra lingua di neve, ora più morbida perché esposta al sole, arriviamo al Passo Cameraccio, che con i suoi 2950 m è il punto più alto del giro. Anche qui, la discesa è molto ripida e la roccia, forse per la neve, forse per la pioggia del giorno prima, risulta bagnata e scivolosa: dobbiamo calarci facendo affidamento solo sulle catene e sulla forza delle braccia, il che per alcuni (vedi i miei soci) non rappresenta un problema, per altri (vedi me) può risultare impegnativo. Come prima, alla fine delle catene atterriamo su un bel nevaio in discesa.
Per fortuna adesso la neve è morbida e ci si può lasciare scivolare verso il basso, chi sciando con qualche tonfo (vedi i miei soci), chi usando direttamente il sedere come slittino (vedi me). Pur con qualche abrasione, siamo arrivati in fondo al nevaio, ritrovandoci in un ambiente fantastico, reso ancora più bello dai famosi “blocchi di ghiaccio che si aggirano” di cui mi aveva parlato la signora Iris, per il divertimento di Samuel e Meme. Una valanga, infatti, si era staccata dalle ripide pareti del Pizzo Cameraccio, dando a questa valle, già imponente, un aspetto più fiabesco del solito.
Perdiamo ora parecchia quota, passando per il bivacco Manzi e scendendo giù per la Val Torrone. Dopo tanto tempo a spasso su neve e pietraie oltre i 2700 metri, il paesaggio sembra addolcirsi e finalmente possiamo corricchiare su una parvenza di sentiero.
La discesa dura troppo poco e ben presto si riprende a salire, per arrivare al canalino attrezzato con catene che porta al Passo Torrone (2518 m). La difficoltà non ha niente a che vedere con quella dei due passi precedenti e, in ogni caso, a questa quota sembra tutto più facile. Entriamo ora in un nuovo anfiteatro roccioso, quello della Val di Zocca. Circa duecento metri più in basso vediamo il Rifugio Allievi-Bonacossa, che per noi segna la metà del percorso. Qui facciamo la prima vera pausa, con rifornimento d’acqua alla fontana e di coca cola al rifugio, poi, senza perdere troppo tempo, ripartiamo alla volta del Rifugio Gianetti, che i cartelli danno a 7 ore di cammino.
Superiamo pietraie e roccette attrezzate mentre ci avviciniamo al Passo dell’Averta (2551 m). Per superarlo ci aiutiamo in discesa con delle catene, con qualche passaggio non difficile, ma esposto. Altra valle, altro spettacolare anfiteatro di montagne: ma la stanchezza comincia a farsi sentire mentre di nuovo ci inerpichiamo verso il prossimo passo, il Qualido (2647 m).
A questo punto siamo a cinque passi su sette. Abbiamo sulle gambe tremila metri di dislivello e dobbiamo farne ancora mille. Abbiamo percorso circa trenta chilometri e sappiamo che ne mancano una ventina. Bene ma non benissimo, come si può dedurre dall’espressione di Meme qui sotto.
Ci facciamo coraggio e continuiamo in discesa lungo una canale franoso ma fortunatamente breve, trovandoci immersi nel fantastico scenario della Val del Ferro tra rocce, roccette ed enormi placche di granito. Il sentiero qui non esiste, bisogna seguire i bolli dipinti sulle rocce. Vediamo più in basso il bivacco Molteni-Valsecchi (2510 m), che per noi rappresenta l’uscita di emergenza: da qui si potrebbe scendere fino a raggiungere la Val di Mello, San Martino e poi Filorera in tempi relativamente brevi. La tentazione c’è, ma siamo determinati a proseguire.
Il prossimo ostacolo da superare è il Passo Camerozzo (2765 m), decisamente più impegnativo dei tre precedenti. Va detto che, seguendo il giro del Kima, ci troviamo ad affrontare la parte difficile di questo passo in salita, non in discesa come per la Bocchetta Roma e il Passo Cameraccio. Dobbiamo comunque mantenere alta la concentrazione per aggirare una lingua di neve e un paio di catene rotte mentre faticosamente ci arrampichiamo verso la bocchetta, che sembra non arrivare mai.
Invece arriva e, finalmente, davanti a noi si spalanca la Val Porcellizzo in tutta la sua bellezza, con il Rifugio Gianetti ancora lontano, ma perlomeno in vista. Per scendere dobbiamo superare ancora qualche roccetta attrezzata con catene, ma il peggio è passato. Da qui in avanti non saranno tanto le doti alpinistiche a fare la differenza, quanto la resistenza e la resilienza che sapremo trovare dentro di noi.
Al rifugio ci fermiamo giusto il tempo di rabboccare le borracce e ammirare il Cengalo e il Badile che, nonostante sia ormai sera, sono ancora ben visibili in questa giornata dal meteo semplicemente perfetto. Il prossimo rifugio, l’Omio, è indicato a tre ore e mezza di cammino. Proseguiamo più o meno in piano, attraversando la Val Porcellizzo fino alla salita, l’ultima, per il Passo Barbacan (2570 m).
Il passo, in sé, non è impegnativo: in salita c’è qualche tratto attrezzato con catene, di cui si può anche fare a meno, in discesa invece bisogna fare i conti con un sentiero ripido e scomodo, ma privo di particolari difficoltà. Quando ci è sembrato di avere finalmente raggiunto un terreno facile, poi, abbiamo dovuto fare i conti con un vero e proprio pantano che ha rallentato ulteriormente il nostro passo – soprattutto il mio.
La parte più dura di tutto il giro è stata la discesa, infinita: dal Rifugio Omio ai Bagni di Masino attraverso il bosco, ormai con la frontale accesa; dai Bagni di Masino per circa 7 km lungo la strada fino a San Martino e poi a Filorera. Dando fondo alle ultime energie rimaste e ignorando i dolori ai piedi e alle ginocchia, finalmente abbiamo guadagnato il parcheggio della Casa della Montagna, senza finish line e senza pubblico, è vero, ma con un bel trofeo morale da mettere in bacheca!
Conclusione raggiunta dopo 17 ore (ebbene sì) in giro per i monti: tutto si può fare, a patto di avere gambe allenate, forza di volontà e soprattutto un paio di buoni amici che ti sostengono quando gambe e testa vacillano, aiutandoti a superare i tuoi limiti e a raggiungere un obiettivo altrimenti irrealizzabile.
Se frequentate queste montagne, di sicuro vi sarà già capitato di percorrere, magari senza saperlo, qualche tratto del sentiero delle Orobie (orientali). Avrete raggiunto uno dei rifugi sul percorso e magari notato le indicazioni per quello successivo, apparentemente lontanissimo. Ora vi spiego come concatenarli tutti in un unico giro, da suddividere in più giorni in base alla propria preparazione.
Farlo in un’unica tirata o anche in due giorni, dal mio punto di vista, è una vera impresa. Per finirlo in tre giorni, come abbiamo fatto noi (Tony, mitico organizzatore del giro, e le due Martas), è necessario comunque un buon allenamento. Se volete camminare più rilassati e godervi ogni scorcio di questo meraviglioso itinerario, potete anche pensare di suddividere il percorso su quattro giorni.
Le tracce gpx che trovate qui sopra sono rispettivamente la traccia “fittizia” del giro completo e le tre tracce “reali” dei nostri tre giorni di cammino. Attenzione: quella del primo giorno riporta verso l’inizio un errore di percorso, da non ripetere. In ogni caso il giro si può fare senza tracce gpx, seguendo le indicazioni del CAI Bergamo che, salvo pochi casi, sono decisamente chiare.
Il percorso comincia e finisce ad Ardesio, uno dei primi paesi dell’alta val Seriana. Abbiamo deciso di spostare leggermente il punto di partenza rispetto alle indicazioni CAI, lasciando l’auto davanti al bar Florida, a pochi passi dal fiume: una strategia vincente che ci ha permesso, all’arrivo, di rinfrescarci i piedi nell’acqua ghiacciata prima di essere accolti dal gentilissimo personale del Florida con birra, pizza, hamburger e patatine, che qui vengono serviti a tutte le ore del giorno e per buona parte della notte.
Si attraversa il ponte e si prosegue sul marciapiede verso destra, fino a incontrare, poco più avanti, le indicazioni per il sentiero delle Orobie dall’altra parte della strada. Si seguono i bolli del sentiero 220 prima lungo la strada in salita e successivamente nel bosco, sbucando poi su un tratto in piano che passa per prati e alpeggi (con insetti piuttosto molesti). Rientrando nel bosco, il sentiero si sdoppia e bisogna mantenere la destra – c’è un bollo blu un po’ sbiadito – per proseguire in piano seguendo il fiume a fondovalle: qui noi abbiamo erroneamente preso a sinistra e continuato in salita (è questo l’unico punto in cui la traccia è sbagliata e non va seguita).
Arrivati a Valcanale, possiamo fare un primo rifornimento d’acqua alla fontana del paese; poi si prosegue lungo la strada, si supera il laghetto e si prende la noiosa mulattiera in salita per Alpe Corte, il primo dei tanti rifugi che incontreremo nel nostro percorso.
Dall’Alpe Corte (1410 m), come ha sentenziato il nostro Tony, “comincia la montagna”: la mulattiera diventa sentiero, il bosco cede il passo a un ambiente più alpino e, alle nostre spalle, la vista si apre sul pizzo Arera. Si segue ora il sentiero 216 in direzione Laghi Gemelli e ci si inoltra finalmente nelle selvagge Orobie, guadagnando rapidamente quota fino al passo dei Laghi Gemelli (2139 m). Da qui si scende all’omonimo rifugio (1969 m), costeggiando il lago sul lato sinistro. Il sentiero delle Orobie vero e proprio proseguirebbe ora verso il Calvi con il segnavia 213, mentre noi siamo passati dal passo d’Aviasco e dalla valle dei Frati – una variante che consiglio: la valle dei Frati è tra i posti più belli che abbiamo visto in questi tre giorni.
Dal rifugio Laghi Gemelli si attraversa la diga e si prende a sinistra il facile sentiero che porta al lago Colombo (2.046 m). Si supera questa seconda diga e si prosegue in salita lungo il sentiero 214 seguendo le indicazioni per il passo d’Aviasco (2.289 m), a cui si arriva piuttosto velocemente con un ultimo strappetto in salita. Da qui si scende nella valle dei Frati, in un ambiente davvero selvaggio tra pietraie, lingue di neve, fiori sgargianti e branchi di stambecchi.
Dopo una lunga e panoramica discesa, rientriamo nel bosco e incontriamo di nuovo il segnavia ufficiale, il n. 213, che seguiamo più o meno in piano, con qualche breve tratto in salita, fino al rifugio Calvi. Qui abbiamo dormito la prima notte, e all’alba del secondo giorno (beh, non proprio all’alba… ma per questa seconda tappa converrebbe partire il prima possibile) abbiamo ripreso il nostro cammino in direzione del passo Valsecca.
Il sentiero dal Calvi al Brunone è il 225, che passa alle pendici del Diavolino e del Diavolo di Tenda inerpicandosi fino al passo di Valsecca (2496 m). Se fino adesso il percorso è stato “escursionistico”, questa seconda tappa è decisamente “EE” e richiede un’attenta valutazione della propria preparazione, fisica e mentale.
In fondo alla valle, poco prima di arrivare al passo di Valsecca, abbiamo trovato ancora qualche nevaio (17 luglio), che siamo comunque riusciti ad attraversare tranquillamente senza ramponcini.
Dal passo di Valsecca si scende verso il bivacco Frattini, che dalla sua invidiabile posizione in cresta domina una valle selvaggia e incontaminata; dal bivacco si prosegue in discesa verso sinistra, inoltrandosi sempre di più, tra stambecchi, nevai e ghiaioni, in questo stupendo scenario orobico.
La discesa in alcuni punti è stata un po’ delicata, tra lingue di neve che si stanno ritirando e tratti in cui la neve appena sciolta ha lasciato il sentiero in parte franato, o comunque in condizioni non ottimali. Di sicuro tra qualche settimana sarà più agevole! Si continua a perdere quota fino ad attraversare, nel punto più basso e anche qui su nevaio, quel Fiume Nero che dà il nome al paese a fondovalle, mille metri più in basso. Da qui si riprende a salire, lungo un sentiero sempre nervoso, che richiede continua attenzione, fino al rifugio Brunone (2295 m).
Si tenga presente che, sia per questo tratto sia per quello successivo, dal Brunone al Coca, eravamo convinti che i tempi CAI (5 ore dal Calvi al Brunone, 6 ore dal Brunone al Coca) fossero assurdi, ma ci siamo dovuti ricredere: pur procedendo di buon passo, non abbiamo impiegato molto meno.
Dal Brunone prendiamo il sentiero 302 per affrontare la parte più tosta e affascinante dell’intero giro: il passo Simal. Questo tratto si può evitare con la variante bassa, di cui comunque bisogna verificare le condizioni al rifugio.
Il sentiero 302 passa ai piedi del Redorta e si inerpica per sfasciumi e nevai, da attraversare con attenzione. I bastoncini e/o i ramponcini cominciano a diventare fondamentali per gli attraversamenti su neve, soprattutto per chi passi di qui al mattino presto, quando la neve è gelata. Noi siamo arrivati con il sole già alto e nella neve si camminava più serenamente, ma la severità di questo ambiente non va sottovalutata.
Il paesaggio si fa sempre più aspro e spettacolare quando, superato un primo canale di sfasciumi, arriviamo a un tratto quasi pianeggiante con roccia più solida. Per arrivare al laghetto e poi al Simal (2712 m) abbiamo dovuto attraversare un altro nevaio di qualche centinaio di metri, non particolarmente impegnativo con la neve morbida del primo pomeriggio, di sicuro più delicato per chi si trovasse a passare di qui di prima mattina.
Dal Simal, dove la vista si apre finalmente sulla valle successiva e sul Pizzo Coca, si scende lungo un canale di sfasciumi franosissimo, fortunatamente attrezzato con catene. Consiglio la massima attenzione, soprattutto quando ci sono altre persone nei paraggi. Dato che non ci sono premi in palio per chi arriva prima al Coca, forse è meglio metterci cinque minuti in più ed evitare di scaricare una frana su chi si trova più in basso.
Se alla fine del canale pensate che le difficoltà siano finite, vi sbagliate! Il sentiero 302 prosegue ancora a lungo tra saliscendi, roccette, piccoli nevai, tratti con catene. Non c’è un punto particolarmente difficile: la difficoltà sta nel mantenere costantemente alta l’attenzione, senza mai abbassare la guardia dal passo Valsecca al lago di Coca.
Dal lago al rifugio Merelli Coca (1892 m) possiamo finalmente tirare il fiato e camminare o corricchiare tranquilli su un comodo sentiero. Dal rifugio, tappa utile per un ultimo rifornimento d’acqua, scendiamo brevemente per attraversare il torrente e riprendiamo a salire in direzione Curò.
Questo tratto, pur classificato come EE, è meno impegnativo rispetto a quello appena affrontato, ma a questo punto la stanchezza si fa sentire e bisogna fare un doppio sforzo per rimanere concentrati. La traversata di solito è piuttosto panoramica, ma noi l’abbiamo fatta con visibilità zero, avvolti nella nebbia. Nebbia che si è diradata un po’ solo nel corso della discesa verso il lago del Barbellino, che alla fine, per fortuna, siamo riusciti a vedere sotto di noi. La diga ci ha ricompensato di tutte le fatiche con il caratteristico spettacolo degli stambecchi scalatori. Un’ultima salitella, un tratto in piano lungo il lago e, finalmente, siamo al Curò.
Ne approfitto per ringraziare i gestori del rifugio Curò, dove siamo stati trattati davvero benissimo!
Il terzo giorno, preparati ad affrontare la parte più lunga, almeno come chilometraggio, del sentiero delle Orobie, ci siamo messi in cammino di buon’ora, scendendo per un breve tratto lungo la strada che dal Curò porta a Valbondione. Si lascia la strada all’altezza del primo tornante per prendere il sentiero 304 verso il passo della Manina e il rifugio Albani. Ci facciamo largo nell’erba alta per qualche chilometro e, mentre usciamo dal bosco, la vista si apre sulla Presolana. Scendiamo fino a fondovalle e attraversiamo il torrente che, insieme a qualche ruscelletto nelle immediate vicinanze, rappresenta l’ultimo punto acqua per parecchio tempo: dalla Manina all’Albani non si incontrano fontane né rifugi, a meno di deviare verso Lizzola o il rifugio Mirtillo.
Raggiunta la graziosa chiesetta al passo della Manina (1799 m), si prosegue lungo il sentiero 401 seguendo le indicazioni per il rifugio Albani. Dopo un breve tratto in salita, usciamo dal bosco e ci troviamo catapultati in un ambiente quasi dolomitico, dove montagne di roccia chiara, calcarea, spuntano come funghi dal verde dei prati. Poco a poco si abbandonano i prati e ci si addentra tra rocce e ghiaioni – completamente diversi da quelli attraversati il giorno prima – in direzione della Presolana.
Il sentiero non presenta difficoltà, se non un breve canalino attrezzato con catene che, dopo il Simal, è davvero una passeggiata. La vista, in compenso, è mozzafiato. Passiamo ai piedi del monte Ferrante, superiamo gli impianti e proseguiamo su strada o su sentiero (meglio il sentiero, è più grazioso) fino al rifugio Albani (1939 m). Poco più in basso del rifugio ci sono delle baite: qui troviamo finalmente una fontana per riempire la borraccia, anche se una birretta all’Albani si è rivelata ben più dissetante.
Per tornare ad Ardesio si torna indietro seguendo brevemente il sentiero 401 fino al passo Scagnello (2080 m): da qui ci aspetta una lunghissima discesa lungo il sentiero 311 verso Valzurio e le baite di Moschel. Troviamo già anche le indicazioni per Ardesio, che seguiamo insieme ai bolli bianco-rossi passando ora su sentiero, ora su strada forestale. Senza scendere fino a Valzurio, si seguono sulla destra le indicazioni per Colle Palazzo e si prosegue con salitelle alternate a tratti in piano in un bel bosco. Arriviamo a Colle Palazzo (1300 m) con una comoda strada forestale, che abbandoniamo per prendere il sentierino in discesa verso Ardesio. Questo tratto di sentiero è davvero brutto, scivoloso e franoso anche in condizioni meteo ottimali, ma finisce presto. Si torna su strada carrozzabile e, continuando a seguire i bolli, si torna finalmente ad Ardesio. Si attraversa il centro, si svolta a sinistra e si segue la strada principale fino all’auto.
E con i piedi a mollo nell’acqua gelata del torrente si chiude questo lungo, fantastico viaggio nelle Orobie orientali!
Ornica – Val Pianella – sentiero 107 – rifugio Benigni (2222 m) – sentiero 101 o delle Orobie occidentali – bocca di Trona (2224 m) – bocchetta d’Inferno (2306 m) – Pizzo dei Tre Signori (2554 m) – discesa dal sentiero 106 per la valle d’Inferno
Il Pizzo dei Tre Signori, che con i suoi 2554 m spicca tra le vette della Valsassina, particolarmente amate da noi milanesi, si può raggiungere anche dalla Val Brembana: non per niente rappresentava, un tempo, lo spartiacque tra lo Stato di Milano e la Repubblica di Venezia.
Questo giro parte da Ornica, piccolo borgo in posizione strategica ai piedi della val Pianella e della valle d’Inferno, attraversato dal torrente Valle d’Inferno. Si supera il centro del paese, seguendo il corso del torrente lungo via Santuario, fino alla zona di parcheggio appena dopo, appunto, il santuario.
Una volta lasciata l’auto, si prosegue a piedi lungo la strada in salita, dove comincia il sentiero 106 per la valle d’Inferno. Il sentiero segue la strada, tagliandone i tornanti, per qualche centinaio di metri: poi l’abbandona per inoltrarsi nella valle d’Inferno lungo l’omonimo torrente. Da qui torneremo alla fine del giro, mentre adesso dobbiamo prendere la strada che svolta tutto a destra, verso la val Pianella e i piani dell’Avaro. La percorriamo per circa un chilometro e mezzo, prima in leggera salita e poi in leggera discesa; dopo avere attraversato il torrente d’Ornica, troveremo le prime indicazioni per il rifugio Benigni e, poco dopo, abbandoneremo la strada per il sentiero 107.
Tutti i sentieri, da queste parti, sono perfettamente segnati, per cui questo giro si può fare in linea teorica senza la traccia gpx. Si tenga conto che i tempi per la salita indicati dai cartelli sono decisamente esagerati: dal parcheggio al rifugio Benigni ho impiegato meno di due ore, a passo tranquillo e perdendo anche un po’ di tempo per guadare il torrente nel punto sbagliato (che cosa non si fa per tornare indietro di venti metri!). Sul sentiero per il Benigni, che pure è uno, si trova ora il segnavia 107, ora il 108, ma per quello che interessa a noi è la stessa cosa.
Cominciamo a guadagnare quota salendo nel bosco, con pendenza costante ma mai eccessiva. Una volta fuori dal bosco, la vista si apre sulla bucolica val Pianella e ci avviciniamo via via al torrente scrosciante – che io ho trovato particolarmente in piena dopo una notte di pioggia torrenziale. Bisogna attraversarlo (mi raccomando, seguendo i segnavia!) perché il sentiero prosegue dall’altra parte, continuando a salire in un anfiteatro di prati verdeggianti e aspre pareti rocciose.
Sulla sinistra si stacca a un certo punto il sentiero 108A, con cui eventualmente si può accorciare il giro per prendere più avanti il sentiero 101 senza passare dal rifugio Benigni; sulla destra, poco oltre, troveremo invece la traccia che porta al passo Salmurano, da cui si passa nella vicina Val Gerola.
Noi seguiamo senza possibilità d’errore le indicazioni per il Benigni e ci arrampichiamo su per un ripido canalone detritico, che dopo la pioggia della notte precedente ho trovato trasformato in un torrente in piena – normalmente non vi scorre che un rigagnolo d’acqua, ma occorre lo stesso prestare attenzione. Usciti dal canale, un ultimo strappetto in salita ci porterà al Benigni (2222 m), che tra i diversi rifugi posti sul sentiero delle Orobie occidentali è forse quello che gode della posizione più invidiabile.
Questo territorio, al confine tra Val Brembana e Valtellina, è di una bellezza selvaggia e incontaminata, dove marmotte e stambecchi la fanno da padroni per gran parte del tempo – solo nei weekend estivi, quando il rifugio attira frotte di escursionisti per pranzo, il silenzio viene spezzato da voci e schiamazzi e gli animali si ritirano in buon ordine, in attesa del lunedì.
Da qui il giro prosegue più o meno in piano, con qualche saliscendi, lungo il sentiero 101, o sentiero delle Orobie occidentali. Lo si prende tornando indietro da dove siamo arrivati e seguendo le indicazioni per la Grassi, il rifugio successivo lungo questa spettacolare alta via.
Il primo tratto, dal rifugio alla bocca di Trona, è relativamente semplice e ci permette di godere del bellissimo paesaggio in cui siamo immersi. Il tratto successivo, dalla bocca di Trona alla bocchetta d’Inferno, soprattutto laddove i segnavia bianco-rossi sono sostituiti da semplici bolli rossi, presenta qualche punto un po’ antipatico: passaggi esposti non attrezzati, su scivolose zolle d’erba senza appigli, possono mettere in difficoltà e risultare pericolosi per chi non si senta completamente sicuro su questo tipo di terreno. Evitare assolutamente in caso di pioggia e di scarsa visibilità!
Questo tratto del sentiero delle Orobie si svolge per la maggior parte sul versante bergamasco ma, in corrispondenza dei passi, la vista si apre dall’altra parte sui laghi della Val Gerola e sulle montagne della Valtellina.
Arrivando dall’alto alla bocchetta d’Inferno, ai piedi del Pizzo dei Tre Signori, vediamo già sotto di noi, verso sinistra, il sentiero 106 che scende nella valle d’Inferno, per il quale torneremo a Ornica. Prima, però, seguiremo i segnavia bianco-giallo-rossi fino in vetta al Pizzo, che si raggiunge da questo lato senza particolari difficoltà se non quelle che può dare la neve, persistente, su questo versante, fino a estate inoltrata. A chi venga prima di luglio consiglio di portare i ramponcini, just in case! Si tratta, a ogni modo, di un itinerario molto battuto, per cui anche sui nevai basta mettere i piedi nelle impronte di chi ci ha preceduto.
Il tratto sommitale fino alla croce di vetta (2554 m) è attrezzato con un paio di catene, utili soprattutto per la discesa.
Il Pizzo dei Tre Signori è forse la montagna più popolare tra milanesi e brianzoli dopo le Grigne, per cui, se non ci siete mai stati, non aspettatevi arrivando in cima di godervi il panorama in silenzio e solitudine. Troverete picnic in corso e maglie stese ad asciugare sulla croce. La vista, in compenso, è bellissima e a trecentosessanta gradi sulla Valsassina, la Valtellina e la Val Brembana.
Scendiamo da dove siamo saliti e torniamo alla bocchetta d’Inferno, dove si prende il sentiero 106 per Ornica. Il sentiero passa ai piedi della Sfinge, imponente monolite di roccia, e prosegue verso valle senza mai essere ripido o tecnico. L’ideale per una discesa rilassante e veloce! Scendendo lungo la Valle d’Inferno incontreremo pascoli, baite e la caratteristica “asinovia”, un percorso pensato per portare i bambini in montagna a dorso d’asino. Si attraversa il torrente Valle d’Inferno su un ponticello di legno, si prosegue lungo la mulattiera e poi per sentiero fino a tornare sul percorso da cui siamo arrivati e, da qui, in pochi minuti siamo al parcheggio.
Approfittando di una bella e lunga serata estiva, siamo saliti a Erve in settimana – evitando le folle di gitanti che nel weekend risalgono il torrente e si accalcano alle pozze – e da qui siamo partiti per un giretto panoramico e relativamente veloce: salita al Magnodeno, sentiero attrezzato lungo la cresta della Giumenta in direzione passo del Foo, discesa dal sentiero 11, passando per la sorgente San Carlo e seguendo fino in paese il corso del torrente Gallavesa, le cui acque cristalline si sono rivelate anche utili per una doccetta rinfrescante all’arrivo.
A Erve si segue la strada principale, lungo la quale si trovano diversi parcheggi, tutti ugualmente validi: prima si parcheggia, più lungo sarà il tratto di asfalto alla fine del giro; viceversa, se si lascia l’auto più avanti, il tratto su asfalto sarà un po’ più lungo all’inizio e un po’ più breve alla fine.
Noi, sapendo che avremmo finito con il buio, abbiamo deciso di lasciare l’asfalto alla fine e siamo partiti dal primo parcheggio utile, nella piazzetta Giorgio La Pira, davanti alla chiesa – dove è recentemente arrivato il segnale telefonico e Samuel ha potuto concludere felicemente la confcall con cui ci ha allietato il viaggio.
Da qui per cominciare il nostro percorso basta attraversare il vicino ponticello e prendere la strada in salita dall’altra parte del torrente. Si segue questa strada per meno di un chilometro, fino a trovare sulla sinistra, subito dopo un tornante, il sentiero per il monte Magnodeno. Le indicazioni sono un po’ sbiadite, ma sempre visibili. Si prosegue ora in ripida salita nel bosco: dall’inizio del sentiero alla croce sono circa due chilometri e mezzo con 600 m di dislivello.
A un bivio con indicazioni per un capanno di caccia teniamo la destra. Man mano che si guadagna quota, la vegetazione si dirada e cominciamo a intravedere la cima del Magnodeno, verso sinistra, e sulla destra le creste del Resegone.
Una volta in vetta (1241 m) troveremo un bivacco e, poco più in basso, la croce: da qui si domina tutta Lecco e la vista può spaziare dalla Brianza fin quasi alla Valtellina.
Per imboccare la cresta della Giumenta dobbiamo tornare brevemente sui nostri passi e ripassare dal bivacco. Teniamo la sinistra e scendiamo brevemente lungo un ripido sentiero attrezzato con una catena. A un primo bivio teniamo la sinistra e al secondo prendiamo il sentiero in leggera discesa verso destra. Perdiamo un po’ di quota attraversando il bosco fino ad arrivare a una fontanella.
In questo punto si dividono il sentiero 23 (indicato come EEA) e il 24 (escursionistico): entrambi portano al passo del Foo e si ricongiungono un chilometro e mezzo più avanti.
Si tenga presente che il sentiero 23, stando ai cartelli, richiederebbe l’attrezzatura da ferrata, ma per quanto ne so viene comunemente percorso senza – per quanto impegnativo, mi sento di definirlo quantomeno equivalente, se non più semplice, rispetto a tanti sentieri classificati come EE sulle Grigne. In ogni caso, chi vuole evitare di arrampicarsi per vertiginose roccette in cresta può sempre optare per la variante bassa, il sentiero 24 appunto.
Il passo del Foo è dato a 1 ora dall’attacco del sentiero. Senza arrivare al passo, noi in circa mezz’ora abbiamo superato la cresta e preso il ripido sentiero in discesa verso destra. A un secondo bivio, ritrovando il sentiero 24, lo abbiamo imboccato verso sinistra, arrivando ben presto a incontrare il sentiero 11 poco più in basso rispetto a Capanna Monza.
A questo punto si prende l’11 verso destra (a meno che siate particolarmente assetati: in questo caso andando a sinistra verso Capanna Monza si arriva in pochi minuti a una fonte) seguendo le indicazioni per Erve. Abbiamo due opzioni: il sentiero classificato come impegnativo che passa più in alto e quello, più semplice e corribile, che si prende tenendo la sinistra al crocefisso e seguendo le indicazioni per la fonte San Carlo.
Noi siamo passati da quest’ultimo, anche per il rifornimento d’acqua alla sorgente. Questo sentiero, come si è detto, segue il corso del torrente fino a Erve. Diventa, nell’ultima parte, una facile mulattiera e prosegue poi come strada asfaltata, da seguire senza possibilità di errore fino al punto in cui abbiamo lasciato l’auto.
Grazie ai soci per avermi aspettato con l’espressione paziente che si vede nel selfie qui sopra, e un doppio grazie a Meme che ha fatto anche il servizio fotografico per Trail Rings!
Un vero e proprio “classico” delle Orobie, questo percorso si fa di solito al contrario – affrontando subito il temibile vertical da Valbondione al rifugio Coca, poi la traversata lungo il sentiero 303 con arrivo al Curò e, infine, la facile discesa lungo la mulattiera per Valbondione. Io ve lo propongo nel senso opposto, con il vantaggio di anticipare al Curò la fiumana di escursionisti che vi si trova nelle belle giornate e di arrivare al Coca, meno frequentato, in tempo per l’ora di pranzo!
Si parte da Valbondione: l’ideale è lasciare l’auto in via Beltrame subito prima del tornante, nel punto in cui comincia il sentiero 301 per il rifugio Coca, in modo da recuperarla comodamente al ritorno. Non sempre è possibile, vista la popolarità di questo posto. In ogni caso ci si può arrangiare parcheggiando un po’ prima o un po’ dopo, dove si riesce. Consiglio comunque di partire di buon mattino per evitare il bagno di folla.
Ci si incammina lungo la strada in leggera salita fino a incontrare sulla destra il sentiero per il rifugio Curò: è difficile sbagliare, i sentieri da queste parti sono indicati molto bene. Ben presto si arriva alla trafficata mulattiera che sale lentamente verso il rifugio. Possiamo tagliare un po’ di tornanti prendendo il ripido sentierino che si stacca sulla sinistra a circa 4 km dalla partenza. Una volta al Curò, dove si arriva dopo circa 1000 m di dislivello, la vista si apre sul lago del Barbellino e sulle spettacolari vette circostanti.
Da qui si prende il sentiero 303 per il rifugio Coca. Si tratta di un EE, piuttosto tecnico nella parte alta, da affrontare solo con la dovuta esperienza e con condizioni meteo buone. Il periodo giusto è da giugno a ottobre, quando non c’è neve. Conviene comunque verificare con i rifugisti le condizioni della traversata prima di intraprenderla. Si comincia con un tratto in piano lungo il lago e una breve discesa verso la base della diga – dove non è insolito trovare atletici stambecchi in arrampicata libera.
Seguiamo sempre le indicazioni per il Coca, attraversando il fondovalle e il torrente Valmorta, per poi cominciare la faticosa risalita – in un chilometro e mezzo guadagneremo circa 500 m di quota – che ci porterà alla traversata vera e propria, ai piedi del Pizzo di Coca. Da qui la vista, che pure finora non è stata male, diventa davvero fantastica; dobbiamo però prestare attenzione a dove mettiamo i piedi, perché ora comincia il tratto più tecnico del giro. Un ripido canalino in discesa, pieno di sfasciumi, è attrezzato con catene, mentre in altri punti un po’ esposti o franosi non si può fare altro che procedere con cautela. Dal passo del Corno (2220 m) vedremo finalmente il rifugio Coca, parecchio più in basso.
Ancora qualche saliscendi, poi una bella discesa e finalmente arriviamo al ponticello che attraversa il torrente Coca. Il rifugio è poco più sopra e vale davvero la pena di farvi una sosta.
Volendo allungare di poco il giro, si può salire al vicino lago di Coca, sempre debitamente indicato. Altrimenti si riattraversa il ponticello e, senza possibilità d’errore, si prosegue in ripida ma facile discesa lungo il sentiero 301, seguendo le indicazioni per Valbondione. Si attraversa il fiume Serio e si risale alla strada dove si è parcheggiato.
Lungo l’anello del Resegone per il passo della Porta e la Pasada (1244 m) – sentiero delle creste (EE) da nord a sud con tappa al rifugio Azzoni e alla croce di vetta (1875 m) – ritorno lungo l’anello del Resegone passando per il passo del Giuff (1515 m), le Forbesette e il rifugio Resegone.
Guardando il Resegone, che prende il nome proprio dalla sua inconfondibile sagoma, non viene forse voglia di arrampicarsi da una guglia all’altra e percorrere tutto quel bel profilo seghettato? Non è un percorso banale: richiede senza dubbio esperienza – il sentiero è classificato come EE, per escursionisti esperti – e particolare attenzione in condizioni invernali, quando la difficoltà aumenta e piccozza e ramponi diventano d’obbligo.
Il sentiero delle creste collega due passi agli antipodi dell’anello del Resegone, la Pasada (1244 m) a sud e il passo del Giuff (1515 m) a nord; si può percorrere in entrambi i sensi, ma presenta meno difficoltà nella direzione sud-nord, quindi dalla Pasada al passo del Giuff.
All’anello del Resegone, punto di partenza per raggiungere le creste, si può arrivare sia dal lecchese sia dalla bergamasca. Questo giro parte da Brumano, un grazioso borgo della Valle Imagna. Dato che le escursioni per il Resegone sono molto popolari, abbiamo deciso di avventurarci sulle creste nel tardo pomeriggio, per godercele in solitudine con la luce del crepuscolo.
A Brumano, si trova parcheggio poco prima o poco dopo la chiesa, lungo la strada principale. Il sentiero parte in salita proprio dalla chiesa: seguiamo le indicazioni per La Pasada, fino a raggiungere il sentiero che circumnaviga il massiccio del Resegone e che si chiama appunto “anello del Resegone”. Lo imbocchiamo verso sinistra in direzione della Pasada, passo sempre ben indicato. Il sentiero nel bosco è in gran parte pianeggiante e piacevolmente corribile.
Dopo avere superato il passo della Porta, cominciamo a guadagnare quota fino alla Pasada, dove un cartello dall’aria vissuta segnala il punto di partenza del sentiero delle creste. Il primo, massiccio torrione che si staglia davanti a noi è la Cima Quarenghi, da dove la vista può spaziare a trecentosessanta gradi: di fronte, seguendo il filo delle creste, si vede già la croce di vetta del Resegone; alle nostre spalle il monte Tesoro, il Linzone e le inconfondibili antenne di passo Valcava; a sinistra il lago di Lecco e a destra la verdeggiante valle Imagna.
Segue, tra ripide salite e discese – non adatte a chi soffra di vertigini o di equilibrio precario -, una serie di altre cime, di cui pochi ricordano i nomi: Cima Piazzo, I Solitari, Pizzo Brumano, Pizzo Daina, Torre di Valnegra. La roccia è bella e invoglia all’arrampicata; il sentiero è sempre indicato da bolli bianco-rossi non proprio freschissimi, che in alcuni casi può risultare difficile individuare: se vi perdete tra le roccette, tornate indietro e cercate i bolli, prima o poi si trovano. Meglio non cercare soluzioni fantasiose in questo ambiente così selvaggio!
A ogni cima, si apre una prospettiva nuova e inaspettata. La luce calda del tramonto e la compagnia di branchi di camosci, nel nostro caso, ha reso l’esperienza ancora più intensa. Finalmente sbuchiamo sul sentiero n. 10 e vediamo di fronte a noi il rifugio Azzoni e la croce di vetta (1875 m). Sulla destra, vediamo un sentiero che scende verso valle: è una buona via di fuga in caso si voglia accorciare il giro – le creste richiedono tanto tempo, che poi può variare parecchio a seconda delle capacità di ciascuno: indicativamente un paio d’ore per le creste sud e un’ora per le creste nord (secondo i cartelli, anche il doppio). Se, dunque, si è fatto tardi e si preferisce tornare a Brumano senza affrontare la seconda parte del percorso, si può imboccare il sentiero in discesa sulla destra prima del rifugio Azzoni e ci si ricongiungerà alla traccia del ritorno sull’anello del Resegone.
Se invece si decide di proseguire, dalla croce basta continuare a seguire i bolli lungo il sentierino scosceso che ci riporta per un tratto sul sentiero n. 10; proseguendo, torneremo sul sentiero delle creste (un cartello indica il passo del Giuff a due ore: a passo tranquillo, ne abbiamo impiegata forse una). Superiamo la Cima Pozzi e il Pizzo Morterone, ma il sentiero è principalmente in discesa. Più scosceso e franoso rispetto alle creste sud, l’ambiente richiede sempre molta attenzione. Sulla sinistra troneggiano le Grigne, ma la vista più bella a questo punto è alle nostre spalle, sulla strada percorsa dalla vetta a qui.
Una volta arrivati al passo del Giuff, le difficoltà sono finite. Si riprende l’anello del Resegone verso destra, in leggera discesa. Dalle Forbesette, dove troviamo una sorgente, bisogna seguire le indicazioni per il rifugio Resegone (1266 m) e, da qui, quelle per Brumano.
Milano, fase 2. Runner con una voglia matta di tornare a correre su sentiero, dopo due mesi di prigionia tra asfalto e cemento, si scontrano con i piccoli comuni al lago e in montagna, terrorizzati all’idea di trovarsi invasi da orde di milanesi in cerca di un po’ di verde.
Possiamo prendercela con le autorità che si trincerano dietro ordinanze di dubbia legittimità, o comprendere, se non condividere, la preoccupazione per l’impossibilità di controllare così tante persone che tendono a prediligere sempre le stesse mete.
Tra lo scontro rabbioso con il sistema e una triste inattività c’è però, dal mio punto di vista, una terza via: rimanere positivi e collaborare con gli altri per semplificare la vita di tutti, senza rinunciare a quello che ci piace fare. Lo spazio a nostra disposizione è aumentato enormemente rispetto a una settimana fa e le possibilità sono tante: bastano un po’ di fantasia e di spirito di avventura, e magari resteremo anche piacevolmente sorpresi da quello che offre il territorio intorno a noi!
Innanzitutto, nessuno meglio di noi amanti della montagna può capire quanto sia importante limitare le emissioni, non solo in questo momento particolare, ma anche per il futuro. Spostamenti più brevi in auto, se non addirittura in bici, sono un contributo importante che ognuno di noi può dare all’ambiente, a prescindere da decreti e ordinanze.
Possiamo anche provare a puntare la sveglia un po’ prima al mattino, oppure portarci dietro la frontale e approfittare delle ore serali, soprattutto adesso che le giornate sono lunghe e calde: si tratta solo di cambiare in parte le proprie abitudini per ridurre l’affollamento di sentieri e piste ciclabili, lasciando le ore centrali della giornata alle famiglie con bambini, che non possono certo uscire con il buio.
Dove fare trail, dunque, senza andare in montagna? Vi propongo qualche soluzione nella vicina Brianza.
La Valle del Lambro. Risalendo il corso del fiume Lambro da Milano verso le sue sorgenti, nel triangolo lariano, si passa per il centro e per il parco di Monza – quest’ultimo a oggi (08/05/2020) chiuso al pubblico per emergenza covid-19 – e ci si inoltra in una Brianza collinare e verdeggiante, tutta da scoprire. Il primo parcheggio utile è a Biassono, all’angolo tra via Parco e via Madonna delle Nevi, oppure se ne trova un altro poco più avanti proseguendo lungo via Madonna delle Nevi con la ferrovia sulla destra. All’altezza di questo secondo parcheggio si attraversa la ferrovia e si prende la ciclabile verso sinistra. Si può seguire il corso del Lambro per una decina di chilometri, arrivando sino a Briosco. Si tratta di sentiero principalmente pianeggiante, con qualche saliscendi, ottimo anche per le mountain bike. Di facile accesso, questa ciclabile è molto frequentata durante il giorno. Al mattino presto e di sera, invece, potete scatenarvi indisturbati!
La Val Pegorino. Affluente del Lambro, il Rio Pegorino ha scavato una valle affascinante, selvaggia e poco frequentata, facilmente concatenabile alla ciclabile del Lambro per giri di corsa trail e mountain bike. Il parcheggio più comodo è a Macherio, in fondo a via Lambro, poco prima del ponte che attraversa appunto il fiume Lambro. Da qui si può prendere la ciclabile di cui sopra, oppure attraversare il ponte e dirigersi verso la Val Pegorino. L’attraversamento non è bellissimo: superato il ponte, si svolta a destra e si percorre un breve tratto di strada statale senza protezioni, per poi trovarsi sulla sinistra il sentiero. Lo si può percorrere inoltrandosi nella valle per circa 5 km, con un centinaio di metri di dislivello. Di sentieri, a dire il verso, se ne incrociano parecchi: per non sbagliare, bisogna cercare di rimanere il più vicino possibile al letto del Rio Pegorino, che si attraversa diverse volte. Sconsigliato in caso di piena, percorso divertentissimo nella stagione secca!
Montevecchia. Qui ci troveremmo già in territorio “proibito”, in quanto in provincia di Lecco; tuttavia sono abituata a pensare a Montevecchia come a un colle tutto brianzolo, facilmente raggiungibile anche da Usmate-Velate, in provincia di Monza e Brianza. Andando al mattino presto o la sera, in ogni caso, troverete una rete di sentieri e strade sterrate tutta per voi. Montevecchia è un vero parco giochi per la corsa come per la bici, con infiniti giri possibili. A oggi (08/05/2020) è chiuso il “sentiero dei guadi”, mentre gli altri percorsi sono accessibili e in buone condizioni. Il centro di Montevecchia è dominato dalla famosa chiesetta, la cui scalinata è spesso profanata dai runner in allenamento. Dietro alla chiesetta si apre un mondo di colline, vigneti e cipressi. (Scrivetemi in privato se volete qualche traccia gpx).
In attesa della libertà e della vera montagna, possiamo goderci queste piccole perle del nostro territorio. Buona corsa a tutti!
Bassetta da Cino (19,8 km – 1400 m D+)
30 Gennaio 2022 by marta • Senza categoria, Valtellina Tags: corsa in montagna, costiera dei cech, monte bassetta, monte foffricio, percorso trail, sentiero bonatti, trail running, val chiavenna, valtellina • 0 Comments
Percorso trail da Cino sulla soleggiata costiera dei Cèch, con salita al panoramico monte Bassetta (1744 m).
Periodo: Gennaio 2022
Partenza: Cino (SO)
Distanza: 19,8 km
Dislivello: 1400 m
Acqua: fontana all’alpe Piazza
GPX (clic dx, salva link con nome)
Di solito non torno nello stesso posto due volte in un mese, ma per il monte Bassetta ho fatto un’eccezione: tra le vette valtellinesi facilmente raggiungibili in inverno è, infatti, in assoluto la più panoramica! Da questo spettacolare panettone la vista può spaziare dal Legnone al lago di Como e, soprattutto, alle cime della val dei Ratti e della Val Masino, come l’inconfondibile Sasso Manduino. Se nel giro fatto a inizio gennaio c’era ancora neve, adesso (30/01/2022) ne è rimasta davvero pochissima solo in cima al Bassetta.
Parcheggio a Cino, in via Garibaldi. Nello zainetto ho solo una flask – sono erroneamente convinta di trovare fontane ovunque -, una barretta e i ramponcini (just in case). Parto corricchiando lungo la strada che collega Cino e Cercino, due dei paesini sulla soleggiata costiera dei Cèch. Dopo un chilometro e mezzo più o meno in piano, si trova sulla sinistra una mulattiera in salita.
Le indicazioni da seguire sono quelle per “percorso didattico” e Bioggio. La mulattiera sale dapprima con decisione, poi con pendenza sempre più blanda, fino a spianare arrivando a Bioggio.
Dal santuario ho preso il sentiero in leggera salita, ma in realtà si può seguire anche la strada in leggera discesa: i due percorsi si ricongiungono poco dopo. All’incrocio, si prende la strada senza indicazioni che prosegue in salita.
Questa seconda carrozzabile sarebbe infinita, ma per fortuna un sentierino, difficile da vedere, mi permette di tagliare qualche tornante. Si tratta di un ripido sentiero da enduristi – ormai li riconosco a colpo d’occhio – e infatti ben presto trovo tre ragazzi che, lasciate le moto sulla strada, sono scesi a ripulire il sentiero dagli alberi caduti. Se in altri posti c’è antipatia tra escursionisti e motociclisti, in questi boschi le due specie convivono più o meno in pace. Certi sentieri che percorro abitualmente sarebbero del tutto impraticabili, coperti di vegetazione e ostruiti dai tronchi, se non vi passassero regolarmente le moto da enduro. Per cui saluto con gratitudine e continuo a salire.
Gli ultimi tornanti invece mi tocca farli tutti, perché non vedo più nessuna scorciatoia su sentiero. Arrivo finalmente a un bivio, dove la vegetazione si apre e mi permette di ammirare il Legnone in tutta la sua imponenza.
Al bivio si prende la strada che svolta tutto a sinistra, in discesa, verso Prati Nestrelli. Nella direzione opposta è indicato il monte Brusada e mi ripropongo di tornare in esplorazione più avanti con la bella stagione: per il momento preferisco attenermi al piano originale di salire al Bassetta da Prati Nestrelli.
La strada è lunga e faticosa, un po’ a saliscendi. Sulla destra trovo in successione ben due sentieri che salgono al monte Bassetta, al sentiero Bonatti e al rifugio Brusada. Li ignoro, sia perché non so a che altezza arrivano, sia perché fa caldo, ho quasi finito l’acqua e vorrei proprio passare dalla fontana di Prati Nestrelli prima di cominciare la salita al Bassetta. In realtà, scopro che il sentiero Prati Nestrelli-Bassetta comincia ben prima della fontana e, stupidamente, non allungo il percorso per riempire la borraccia.
Il sentiero che sale da Prati Nestrelli al Bassetta è bello, semplice e panoramico. L’altra volta lo avevo fatto in discesa e ne ho conservato un buon ricordo. In due chilometri e mezzo si guadagnano circa 500 m di quota, ben distribuiti. Finalmente arrivo in vista dell’alpe Bassetta.
Raggiungo l’alpe, sperando di trovarvi dell’acqua. Non ci sono fontane, ma trovo molti escursionisti intenti a bere e mangiare. Nessuno a quanto pare ha dell’acqua da cedermi. Mi viene offerta una lattina di red bull e ricevo anche un mezzo rimprovero quando la rifiuto, come se non avessi davvero sete. Signori, se volete provo a spiegarvi che cosa succederebbe al mio stomaco e al mio intestino se durante una corsa ingerissi una red bull. Ma facciamo che vi lascio alla vostra abbuffata e mi arrangio da sola. Grazie, eh.
Lascio l’alpe e salgo al monte Bassetta, dove è rimasta un po’ di neve che mi metto a masticare. Meglio di niente. Provvidenzialmente arriva una persona gentile, che mi offre dell’acqua (e anche del vino). Accetto con gratitudine un goccio d’acqua, che vedrò di farmi bastare fino all’alpe Piazza, dove spero finalmente di trovare una fontana.
Senza ripassare dall’alpe, taglio giù per il prato andando a intercettare il sentiero Bonatti, che dal Bassetta scende verso il monte Foffricio. Le foto non rendono la bellezza di questa discesa: sembra di andare a tuffarsi nel lago di Como! Sulla destra compare poi la Val Chiavenna con il lago di Novate Mezzola.
Il sentiero è molto secco e a tratti scivoloso, ma facile al pari di quello che sale da Prati Nestrelli. In meno di venti minuti sono al monte Foffricio, indicato da un cartello, altrimenti non mi accorgerei neanche di essere su un monte.
Prendo ora il sentiero verso destra, che in un chilometro di facile discesa mi porta all’alpe Piazza, dove finalmente trovo una fontana. Che bello bere quando si ha davvero sete!
Dall’alpe scendo a intercettare la strada, che percorro brevemente fino a trovare sulla sinistra un altro sentiero taglia-tornanti. Bisogna prendere quello in discesa, naturalmente.
Da questo sentiero evidentemente gli enduristi non passano, perché è coperto di foglie e mi costringe a procedere lentamente. Mi fa comunque risparmiare un bel tratto di strada: solo per gli ultimi 2 km mi tocca correre su asfalto fino a Cino.