Un percorso tecnicissimo per creste aeree e traversi esposti caratterizza buona parte del sentiero 4 luglio, dove ogni estate si corre una delle gare più importanti della Valtellina. Vedere i tempi dei più forti ci fa sentire delle cacchine, ma insomma noi Martas siamo poco ambiziose e giriamo più che altro per divertirci!
Il giro è bellissimo e merita una gita fuori gara, per godersi appieno i panorami e il silenzio di queste selvagge Orobie valtellinesi.
Abbiamo lasciato un’auto al parcheggio Fucine-Les di Corteno Golgi, all’imbocco della strada che sale verso Sant’Antonio, e l’altra a Santicolo, punto di arrivo della gara, per seguire il percorso ufficiale; un inaspettato maltempo, però, ci ha costretto a tagliare l’ultima parte, verso la fine delle creste, scendendo dalla val Torsolazzo verso Corteno Golgi anziché terminare il giro a Santicolo. Questa soluzione d’emergenza si è rivelata interessante, con una bella discesa facile e corribile, e mi sento di consigliarla.
Per andare a prendere il sentiero 4 luglio vero e proprio bisogna per prima cosa salire a Sant’Antonio (1125 m) lungo la strada asfaltata e, poi, seguire le indicazioni per Campovecchio. Da qui si prosegue in direzione passo Sellero: non dritto, come facciamo dapprima noi, attirate da un asinello che sembra un Trudy e dall’invitante indicazione “3.30 h”; bensì verso destra, seguendo il sentiero 107 che si inoltra nel bosco, con tempo di percorrenza 6 h.
Guadagniamo quota in modo costante, su comodo sentiero, fino allo Zapel dell’Asen (2026 m). Da qui alla Val Rosa ci aspetta un lungo e accidentato traverso di 6 km, dove con ogni probabilità i top runner corrono al quattro e trenta, mentre noi non vediamo altra soluzione che camminare di buon passo.
Per fortuna abbiamo l’idea di rabboccare le borracce a un ruscello: sarà l’unico punto acqua da qui alla fine del giro! Finalmente dalla Val Rosa (1970 m) riprendiamo a salire. Non c’è anima viva e ci godiamo lo spettacolo delle creste che andremo a percorrere nella pace e nel silenzio. Man mano che saliamo, l’erba cede il posto alla pietraia e il sentiero, sempre ben segnato, si inerpica verso il passo Telenek (2560 m).
Dal passo, ci dirigiamo verso la cima Sellero (2744 m), il punto più alto della gara. Da qui in avanti il sentiero segue il filo di cresta, ed è un vero spettacolo!
Ci aspetta ora il tratto più tecnico del giro, una discesa piuttosto ripida con catene che ci porta al passo Sellero (2400 m).
A questo tratto attrezzato seguono, prima e dopo il passo Sellero, crestine aeree e traversi esposti: se dovessi classificare questo sentiero 4 luglio, cosa che non farò perché non sono un CAI e non scrivo per gli escursionisti, lo definirei di grado FBLO (fa balaa l’oecc).
Arriviamo al bivacco Davide, intorno al 20esimo km, completamente disidratate: nonostante il cielo nuvoloso, la giornata è caldissima e di acqua proprio non ne abbiamo trovata. Nella disperazione, attingiamo a una tanica appartenente a tale Claudio (grazie, Claudio! se leggi questo post, scrivici, così ti offriamo una birra!) prendendo solo il minimo sindacale per arrivare alla fine del giro.
Dal bivacco, il sentiero diventa un po’ più semplice. Continuiamo sempre più o meno in cresta, aggirando una cimetta non meglio identificata con qualche catena (non necessaria) e superando un traverso dove le catene risultano un gradito corrimano. In generale, il sentiero è in ottime condizioni: le protezioni non annullano le difficoltà intrinseche del percorso, ma di sicuro lo rendono il più sicuro possibile.
Alla bocchetta del Palone succede quello che è inevitabile in giornate così calde e umide: comincia a tuonare e cadono le prime gocce. La situazione non sembra tragica e valutiamo anche di proseguire, ma alla fine decidiamo, studiando le mappe di Strava, di dare una chance all’invitante val Torsolazzo che si apre sotto di noi e che dovrebbe riportarci a Corteno Golgi in tempi sicuramente inferiori a quelli che impiegheremmo a raggiungere Santicolo.
Seguiamo dunque i segnavia, ottimamente tracciati, del sentiero 134 e nel giro di pochi minuti cominciamo a congratularci tra di noi per la saggia decisione, visto che comincia prima a diluviare, poi a grandinare. Il sentiero, prima su pietraia, poi su pratone e infine nel bosco, non è mai troppo ripido e ci permette di scendere in tempi relativamente brevi e senza inconvenienti, a parte uno scivolone su una roccia bagnata.
Arriviamo infine a una strada sterrata, che imbocchiamo verso destra in direzione Sant’Antonio. Finalmente troviamo una fontana, dove possiamo dissetarci e sciacquare le ferite. In pochi chilometri raggiungiamo Sant’Antonio e, da qui, ripercorriamo i nostri passi fino alla macchina.
Uno dei passi più spettacolari del sentiero Roma, con salita tostissima dalla valle del Ferro e discesa panoramica dalla val Porcellizzo.
Filorera – San Martino – val di Mello – casera Ferro – bivacco Molteni-Valsecchi (2515 m) – passo Camerozzo (2765 m) – rifugio Gianetti – Bagni di Masino – San Martino – Filorera.
Quest’anno l’occasione è stata la salita al Badile di Samu e Meme: decido di aspettarli alla Gianetti e, per ingannare l’attesa, di spararmi una bella salita nella valle del Ferro scavallando in val Porcellizzo dal passo Camerozzo. Roberto, che conosce le tracce di Trail Rings meglio di me, è in vacanza in Valtellina e decide di accompagnarmi. Il cielo è terso e la giornata non potrebbe cominciare meglio!
Parto da Filorera, dove trovo facilmente posto lungo il torrente poco dopo la Casa della Montagna – dove comincia e finisce il Kima, uno dei giri più belli che abbia mai fatto. Roberto mi aspetta al campo sportivo di San Martino, che in effetti sarebbe il punto di partenza più logico per il nostro giro: ma alla ressa dei villeggianti a caccia di selfie in val di Mello preferisco un paio di chilometri di corsa lungo la ciclabile che collega i due paesi. Insieme prendiamo il sentiero che si addentra in val di Mello e lo percorriamo per poco meno di un chilometro; attraversiamo il torrente e seguiamo brevemente la strada fino a trovare le indicazioni per la valle del Ferro.
La prima parte di salita nel bosco è facile e piacevole, con pendenza moderata e sentiero ben segnato, ma sappiamo che la pacchia durerà poco. Entrambi, infatti, dopo avere percorso una volta la valle del Ferro in discesa ci siamo ripromessi di non commettere più questo errore. In salita, invece, è un’altra storia: il percorso, faticoso ma fattibile, si svolge in un bellissimo anfiteatro di placche granitiche e cascatelle, che si apprezzano appieno solo in questo senso di marcia.
La parte più dura della salita è quella che va dalla casera Ferro al bivacco Molteni-Valsecchi: un pratone ripido e poco battuto, dove il sentiero si perde nell’erba alta e la pendenza aumenta esponenzialmente insieme alla quota (o almeno dà questa impressione).
Man mano che saliamo, davanti a noi si apre il classico sfondo del sentiero Roma: vette aguzze come lame affilate – in questo caso i pizzi del Ferro e, a sinistra, il pizzo Camerozzo con l’omonimo passo – contro un cielo blu cobalto. Ho perso il conto delle volte che sono stata da queste parti, ma ogni volta la meraviglia è la stessa.
Finalmente raggiungiamo il bivacco e ci concediamo una meritata pausa, ma siamo ben presto messi in fuga da una pecora assassina che ha deciso di mangiare o me, o il Tronky nel mio zainetto: entrambe le soluzioni mi sembrano inaccettabili. Pazienza, siamo ormai arrivati sul sentiero Roma che, dal bivacco al passo Camerozzo, è quasi pianeggiante e ci permette di tirare il fiato.
Il sentiero Roma, a differenza della salita dalla valle del Ferro, è segnato ottimamente e piuttosto battuto, nonostante la difficoltà del percorso. Tra i sette passi, il Camerozzo è uno dei più alti e difficili: per chi non si senta più che sicuro in questo tipo di ambiente, è raccomandato l’uso di imbrago e kit ferrata.
La salita verso il passo è la parte più lunga e impegnativa, mentre la discesa è più breve e pochi tratti attrezzati, in cui comunque bisogna fare attenzione, ci depositano sul lungo sentiero che attraversa la val Porcellizzo. Davanti a noi si stagliano il Cengalo e il Badile, e vediamo già la Gianetti in lontananza.
La traversata non è breve, ma alla fine raggiungiamo il rifugio, dove vado a informarmi sulle cordate dirette al Badile. Mi dicono che dovrò aspettare almeno un paio d’ore, per cui mi metto comoda, mentre Roberto dopo un’oretta comincia a scendere. Vado in fissa sul Badile (scottandomi la faccia, perché il sole splende proprio in quella direzione) e finalmente vedo scendere i miei amici.
La mia discesa con Meme e Samu appesantiti da zaini e corde è bella rilassata: per una volta corrono al mio passo! Senza contare che il sentiero dalla Gianetti è decisamente più semplice rispetto a quello percorso in salita. Ai Bagni di Masino li saluto per proseguire in discesa verso San Martino e poi Filorera – ma con tempismo perfetto ci ritroviamo al bar di Ardenno per l’aperitivo!
Finalmente è arrivata la settimana di scarico: vietato faticare, via libera alle passeggiate con gli amici! I giri più belli con la mia amica Marta sono sempre ambientati tra le meravigliose montagne della Valmalenco, che anche questa volta si sono rivelate all’altezza delle aspettative. Con Meme, Erica e tre quadrupedi abbiamo pensato di accamparci sotto la diga di Campo Moro, a 2000 m di quota, per passare una bella notte al fresco e partire di buon’ora senza levataccia.
Il punto migliore da cui partire per il percorso che abbiamo in mente è più indietro, nei pressi del rifugio Poschiavino, ed è qui che riportiamo il furgone di Erica dopo averlo stipato con tutti i nostri averi. A piedi torniamo indietro: meglio togliersi subito questo paio di chilometri su asfalto, piuttosto che doverli percorrere alla fine. Seguendo le indicazioni per l’alpe Gembrè, prima tappa del nostro giro, saliamo in cima alla diga e, senza attraversarla, continuiamo a camminare sul lato destro del lago di Gera.
Sulla sinistra, dall’altra parte del lago, si vede il rifugio Bignami e ogni tanto tra le nuvole sbuca anche il ghiacciaio Fellaria, la grande attrazione di questa valle. La vedretta è meravigliosa, ma siamo ben contenti di svoltare verso destra e di inoltrarci nella meno turistica Val Poschiavina.
Superata l’alpe Gembrè, dove si trova l’unica fontana che ricordo di avere visto in questo giro, il sentiero spiana e attraversa un pratone incredibilmente panoramico. Proseguendo dritto si arriverebbe al bivacco Anghileri-Rusconi, da cui si può raggiungere la cima Fontana – un tremila facile e di grande effetto. Noi invece prendiamo il sentiero (o meglio la traccia) a destra, verso il passo d’Ur.
Dopo un tratto pianeggiante e piuttosto bagnato, il sentiero guadagna quota e ci porta nella parte più selvaggia della Val Poschiavina, dove per chilometri e chilometri non incontriamo anima viva al di fuori delle marmotte.
Davanti a noi si para il monte Spondascia, che inizialmente avevo incluso come tappa del nostro giro. Trattandosi di una cima piuttosto impervia, decidiamo però di evitarla per via del meteo incerto: non dovrebbe piovere, ma la visibilità è scarsa. È un peccato che la vista non si apra mai sul pizzo Scalino, che pure è lì dietro da qualche parte, ma questo bel sentiero ad alta quota con le cime più alte immerse nelle nubi è davvero suggestivo.
Il sentiero, a volte molto evidente, a volte più difficile da trovare (utile la traccia gpx), ci porta infine al lago d’Ur e al passo omonimo, a 2514 m di quota. Alcune pietre miliari segnalano il confine con la Svizzera. Proseguendo in direzione passo di Campagneda, incrociamo il sentiero più battuto, quello che passa sul fondo della Val Poschiavina. Per la prima volta incontriamo altre persone, dirette come noi verso il passo di Campagneda.
L’ultimo tratto prima del passo ci lascia a bocca aperta: ai piedi del pizzo Scalino e delle altre imponenti cime della Val Poschiavina è spuntato un immenso tappeto di fiori gialli, bellissimo.
Dal passo scendiamo verso i laghetti di Campagneda, una destinazione facilmente raggiungibile e quindi più frequentata rispetto al sentiero per il passo d’Ur. Qualche staffa e catena aiutano nella discesa nei pochi punti tecnici, ma si può tranquillamente farne a meno.
La direzione da seguire è ora Ca’ Runcasch: superato questo rifugio, si prende il sentiero per Campo Moro e per il rifugio Zoia. Dopo un breve tratto in leggera salita, il sentiero passa ai piedi di una falesia dove climber coraggiosi si stanno cimentando con tiri durissimi; poi cominciamo a perdere quota, superiamo il rifugio Zoia (affollatissimo) e finalmente raggiungiamo il parcheggio.
Il giro del Confinale è perfetto per un lungo allenamento estivo: i suoi scorci meravigliosi, i sentieri facili ma in alta quota, le fontane e i rifugi lungo tutto il percorso lo rendono particolarmente appetibile in questo periodo dell’anno.
Mi sono permessa di apportare qualche modifica a questo anello perfetto perché il giro del Confinale è lungo “solo” una quarantina di chilometri, mentre a me serviva farne sessanta. In realtà le aggiunte, inserite solo ai fini dell’allenamento, si sono rivelate anche meglio del percorso originale: il sentiero glaciologico dei Forni, in particolare, è stato una vera scoperta.
Mentre il giro del Confinale comincia a Niblogo, io sono partita un po’ più in basso, da Bormio, raggiungendo Niblogo per stradine secondarie. Ho seguito il percorso classico fino al rifugio Pizzini, per poi deviare sul sentiero glaciologico che passa dal rifugio Branca e poi dal Forni. Sono scesa a Santa Caterina Valfurva dalla strada e poi, per sentieri, ho raggiunto Bormio 2000. Pochi chilometri su pista e strada, infine, mi hanno riportato al punto di partenza. Tempo di percorrenza: 12 ore incluse lunghe soste ai rifugi, effettive 10 ore e mezza. Più di metà del percorso rimane sopra i 2000 m e il punto più alto è il passo Zebrù, a 3005 m. Chi ama le lunghe letture troverà qui di seguito il resoconto dettagliato; gli altri possono limitarsi a scaricare la traccia: il percorso, per quanto lungo, è uno dei meno problematici che conosca.
Per poter rientrare a un’ora decente, decido di partire prestissimo e all’ultimo mi prenoto una stanza all’hotel Eira, un ottimo due stelle comodo e pulito: è qui che inizia e finisce la mia traccia gpx. Dall’hotel seguo la strada in discesa verso il centro di Bormio e imbocco il sentiero Frodolfo, una pista ciclo-pedonale che segue il corso dell’omonimo torrente. Corricchiando in leggera salita, raggiungo Uzza e poi San Nicolò.
Non mi dilungherò su questa parte del giro, in assoluto la meno interessante: basta seguire la traccia gpx o, alla peggio, la strada. Da Niblogo cambia tutto, perché la vista si apre sulla spettacolare Val Zebrù, ancora tutta in ombra benché si preannunci una giornata spettacolare.
I primi chilometri del Confinale sono tutti da correre. Si guadagna dislivello in modo insopportabilmente lento su una strada sterrata, noiosa ma funzionale allo scopo di togliermi in fretta i primi 15 km. Si passa per infinite malghe, ma si entra nel vivo del percorso solo a partire dalla Baita Pastori: qui faccio il primo vero rifornimento d’acqua in vista della salita per il rifugio Quinto Alpini.
Il sentiero, o meglio la strada, si allontana sempre più dal fondovalle per inerpicarsi verso il gruppo Zebrù, Gran Zebrù, Orles, ancora immersi nell’ombra e nelle nubi.
Dall’altro lato della valle, illuminato dalle prime luci, è invece facilmente individuabile il monte Confinale, quello che dà il nome al mio giro.
Le ultime tracce di verde scompaiono e mi ritrovo nell’infinita pietraia che mi aveva impressionato già cinque anni fa, al mio primo giro del Confinale. La magia di questo ambiente lunare è un po’ guastata dalla fiumana di persone che sta scendendo dal rifugio, ma d’altra parte è normale che un posto così bello sia affollato. Saluto tutti e mi arrampico fino alle bandierine tibetane che troneggiano poco sopra il tetto giallo del Quinto Alpini, da cui la vista può spaziare dalla vedretta dello Zebrù fin giù per tutta l’omonima valle.
Batto un po’ i denti (sono in canotta, mentre gli ospiti del Quinto Alpini indossano il piumino) ma mi godo l’arietta di alta montagna: la prossima settimana a Milano ne sentirò senz’altro la mancanza. Volgo uno sguardo al rifugio sotto di me, che nel frattempo si è svuotato, e decido che è ora di fare colazione.
Una fetta di torta al grano saraceno con marmellata di mirtilli mi rimette al mondo, mentre mi scambio racconti di montagna con i gentilissimi gestori del rifugio. Ristorata e riscaldata dai primi raggi di sole, che finalmente stanno illuminando anche questo lato della valle, lascio il Quinto Alpini e ridiscendo per qualche centinaio di metri dalla stessa pista da cui sono salita. Al bivio prendo il sentiero a sinistra e inizio la traversata verso il passo Zebrù, con lo sfondo del monte Confinale.
Questo bel traverso su pietraia è tutto facile, per lo più corribile. Perdo un po’ di quota prima di riprendere a salire verso il passo, superando alcuni gruppi di escursionisti incredibilmente gentili: in tutto il giorno non ho avuto bisogno di chiedere permesso neanche una volta e la presenza di tante persone non mi ha infastidito né rallentato, caso più unico che raro sulle montagne “facili”.
Lungo la salita c’è solo un breve tratto che può risultare difficoltoso, un canalino ripido e pieno di sfasciumi, ma qualche catena al posto giusto aiuta nella progressione. Occhio a non seguire le tracce degli animali (come ho fatto io), ma i bolli e appunto le poche catene. Dopo il canale raggiungo il passo da un sentiero facile e super panoramico, nell’aria fresca e rarefatta dei 3000 m.
Al passo, il Gran Zebrù fa capolino a sinistra da dietro una montagna più bassa, che potrebbe essere la Cima della Miniera, mentre di fronte a me si apre la valle di Cedec, con il Cevedale e la sua vedretta che incombono su un minuscolo rifugio Pizzini.
La discesa al rifugio è piacevole e divertente: più che su un sentiero, sembra di correre per strada. Non per niente incrocio innumerevoli escursionisti e persino dei ciclisti in mountain bike. Dietro al rifugio Pizzini trovo una fontana, dove riempio le flask prima di avviarmi verso il sentiero glaciologico per il Branca: da qui in avanti il percorso differisce dal giro del Confinale, che passa invece per il sentiero panoramico parallelo al glaciologico.
Perdo ancora un po’ di quota prima di cominciare un lungo tratto di saliscendi, così panoramico che quasi non mi rendo conto di avere già macinato 30 km. La vista si apre, sempre più spettacolare, sul ghiacciaio dei Forni.
Al rifugio Branca, affollatissimo all’ora di pranzo, mi fermo il tempo di un caffè, poi riparto seguendo sempre il sentiero glaciologico. Sono ora circondata da enormi rocce scavate dal ghiacciaio, che ormai si è ritirato, ma rimane pur sempre uno spettacolo maestoso.
Anche questo percorso è, giustamente, piuttosto affollato. Mi sorprende vedere diverse famiglie con bambini anche piccoli: il sentiero è sì facile, ma non una strada sterrata come quella che attraversa la Val Zebrù. Supero infine il rifugio Forni e comincio la discesa su strada, circa 6 km, verso Santa Caterina. Solo qui comincio a patire un po’ il caldo, ma per fortuna trovo subito una bella fontana per fare rifornimento – non lo so ancora, ma sarà l’unico punto acqua da qui a Bormio 2000. Attraverso il centro del paese e il torrente Frodolfo, poi prendo la strada in salita seguendo le indicazioni per Monti di Sclanera.
Prima su strada sterrata, poi su una ripida pista supero il bosco e torno a quota 2000 m, dove il caldo dà un po’ di tregua. I Monti di Sclanera, scopro, non sono dei monti ma un bell’alpeggio dove il sentiero spiana e mi permette di tirare il fiato, prima di riprendere a salire in direzione Baitin dei Pastori. In alto vedo la stazione di Bormio 3000, e ringrazio mentalmente me stessa per essermi risparmiata una salita così tosta dopo più di 40 km.
In realtà anche questa salita, molto più breve, verso il Baitin dei Pastori mi sta lentamente distruggendo, complice il fatto che ho quasi finito l’acqua e non mi fido a bere dai ruscelli. Il paesaggio però è molto più bello di quanto mi sarei aspettata da questo versante dei monti di Bormio, addomesticati con ovovie e diavolerie varie. Dopo una breve discesa, raggiungo quello che identifico come il Baitin (ma a questo punto sono molto stanca e potrei sbagliarmi) e trovo le indicazioni per Bormio 2000, la mia ultima meta per oggi. Una breve salita mi porta su un altro sentiero corribile e panoramico, con una vista sul Confinale che mi sembra la degna conclusione del mio anello (anche se alla conclusione mancano ancora 13 km).
Il sentiero mi porta a una lunga, estenuante strada sterrata, dove nessuno ha pensato di piazzare una fontana, nonostante l’acqua sgorghi da tutte le parti. Stanca e disidratata, mi trascino per 5 km in leggera discesa, che mi sembrano 10 km in leggera salita, fino all’apparizione celestiale dei cavi dell’ovovia. Bormio 2000 sembra un grande parco divertimenti per persone poco sportive, ma in questo momento voglio solo una coca gelata con tanto limone e, in un grande parco divertimenti, ho la certezza di trovarla.
L’assunzione di liquidi, zucchero e caffeina mi dà una botta di vita insperata: riparto di buon passo seguendo prima una pista in ripida discesa, poi la strada asfaltata a tornanti che, passando per San Pietro e per Eira, mi riporta finalmente al parcheggio dell’hotel.
Primo lungo dell’anno, dove andare? Il primo posto che mi viene in mente è la mia amata Val Grosina, i cui sentieri si prestano particolarmente bene alla corsa in montagna.
50 km sono tanti e decido di limitare al massimo gli imprevisti, mantenendomi per lo più su percorsi noti. Cedo solo alla tentazione di fare un ingresso trionfale in Val Grosina dal passo Schiazzera, anziché dalla solita strada per Eita: a parte questo passaggio ignoto, che in effetti mi ha un po’ rallentato, il resto del giro si è rivelato, come previsto, semplice e relativamente corribile. Tempo di percorrenza 10 ore totali (inclusa una lunga sosta a Biancodino), effettive circa 9 ore.
Parcheggio alla centrale idroelettrica di Grosotto, ai piedi del castello. Seguo per un chilometro via Milano, fino al centro del paese. Qui trovo una bella fontana e i primi cartelli: le indicazioni da seguire sono quelle per la torre di Vione, lungo il giro dei castelli. Consiglio di usare la traccia gpx, perché le indicazioni agli incroci non sono chiarissime. Alla torre arrivo dopo un altro paio di chilometri di saliscendi, tra borghi e bosco.
Dalla torre continuo a seguire il sentiero 205 (con l’aiuto della traccia gpx, più che dei cartelli) fino a Bosca, dove mi ritrovo sull’infinita salita per il rifugio Schiazzera – fresca nella memoria per averla percorsa appena una settimana fa, nella Doppia W Sky 30. Da qui in avanti i bastoncini sono d’obbligo, almeno per me, dato che mi aspetta una salita di 1600 m. Certo è un bel vantaggio conoscere i sentieri, soprattutto durante un lungo: per esempio, so dove si trova l’unico punto acqua da Bosca al rifugio Schiazzera, un tubo che emerge dal bosco poco prima dell’alpe Susen, sul quale ho concentrato tutte le mie speranze di rifornimento.
Da Susen al rifugio Schiazzera mancano “solo” 500 m di dislivello, che tutto sommato passano abbastanza in fretta. Finalmente il bosco finisce e arrivo al rifugio, che questa mattina è affollatissimo: lo supero in fretta, concedendomi una sosta poche centinaia di metri più avanti. Lungo il sentiero c’è infatti una fontana, dove mi fermo per riempire le flask e godermi la bellezza di questa piana incoronata dalle montagne.
Proseguo verso il lago Schiazzera, seguendo il giro della Doppia W nonché il Sentiero Italia. La salita ora è molto meno ripida, anzi, in alcuni tratti il sentiero è quasi pianeggiante. Circondata da rododendri in fiore, il silenzio interrotto solo dai fischi delle marmotte che a turno si alzano ad annunciare il mio arrivo, procedo di buon passo in pace con il mondo.
Dal lago Schiazzera seguo le indicazioni per Malghera (Sentiero Italia) e quelle per il passo di Schiazzera. Dopo un breve tratto in leggera discesa, i due sentieri si dividono e io prendo quello di sinistra, in salita. Il passo si vede chiaramente, un centinaio di metri sopra di me: lo raggiungo con uno strappetto breve ma intenso, seguendo la traccia sempre più labile e i bolli bianco-rossi, che sono stati invece ripassati di recente e risultano visibilissimi.
La discesa da qui è segnalata come “Tracce EE”, espressione che mi si chiarisce non appena comincio a scendere. Ogni volta che vedo un EE spero in roccette e catene dove divertirmi, ma si tratta solo, in successione, di un pezzetto di pietraia e di un ripidissimo sentiero, largo non più di 10 cm e abbarbicato su una parete verticale ricoperta di rododendri.
Questo tipo di sentiero, di solito, risulta divertente in un giro breve ed estremamente irritante durante un lungo. Ho appena cominciato a brontolare contro le tracce EE, quando trovo una balisa arancione e realizzo che la Doppia W 100 deve essere passata di qui. Nella direzione opposta, voglio sperare! Ad ogni modo smetto subito di lamentarmi, io che sto facendo solo 50 km. Raccolgo la balisa, che altrimenti chissà per quanto ancora rimarrà qui, e proseguo.
La pendenza diminuisce e mi trovo in un pratone con una piccola pozza d’acqua, il cui nome non riesco a identificare. Continuo a seguire i bolli sulle rocce fino a una baita; da qui in avanti, ricomincia il sentiero vero e proprio: lo percorro in discesa, ora in fretta e senza intoppi, fino al rifugio Casina di Piana (dove lascio la balisa a un signore gentile che si offre di portarla a valle) e poi giù per il sentiero 249 verso Presacce. Sempre sul percorso della Doppia W, attraverso un bosco infestato da formiche aggressivissime e raggiungo infine la strada per Malghera.
Imbocco la strada verso destra, in direzione opposta rispetto a Malghera, e la percorro per meno di un chilometro fino alla località Dosa, dove comincia la mulattiera per Biancadino. A questo punto fa caldissimo e ho finito da tempo l’acqua, ma provvidenzialmente trovo una fontana proprio all’inizio della salita.
Altre balise, e scopro di trovarmi questa volta sul percorso del Valgrosina Trail, che si correrà a inizio agosto. Anche in questo caso sto girando in senso opposto al percorso della gara, che scenderà da questa lunga mulattiera (poco meno di 1000 m di dislivello) da cui io sto faticosamente salendo. Fa caldissimo e le due flask che ho appena riempito sono praticamente esaurite quando arrivo a Biancadino, dove spero comunque di poter trovare o acquistare dell’acqua.
In realtà non ho bisogno di cercare: alla prima baita, dove una targa mi conferma di essere arrivata in un piccolo paradiso in terra, una famiglia generosissima mi invita a unirmi al pranzo della domenica. Devo a malincuore rifiutare salamella e zucchine, ma accetto con gioia acqua naturale per le flask, acqua frizzante da bere in compagnia, e una torta spettacolare cotta in stufa che barretta energetica scansate proprio.
Mi fermo volentieri a chiacchierare, ora che non ho risolto il problema dell’acqua, e dopo una mezz’oretta mi rimetto in marcia, rigenerata dall’acqua frizzante e con lo zainetto pieno di torta. Un ultimo strappetto mi porta al panoramico sentiero per Vermulera, che rimane intorno a quota 2300 m per un paio di chilometri di pura goduria.
Comincia poi la discesa, sempre facile e corribile, per Vermulera, un grazioso alpeggio a poco meno di 2000 m di quota; scendo poi lungo la mulattiera che mi deposita sulla strada asfaltata per Eita, il borgo nel cuore della Val Grosina. La strada va imboccata verso sinistra, in leggera salita.
L’acqua, da Vermulera in avanti, non è più un problema: ogni pochi chilometri si trovano fontane, dove non perdo occasione di mettere la testa sotto l’acqua fredda, viste le temperature che diventano sempre più impegnative man mano che perdo quota. Da Eita mi mancano circa 13 km, facili facili nonostante la stanchezza: basta seguire le indicazioni per Grosio, che mi portano giù per una lunga mulattiera ombreggiata e poi sulla strada asfaltata, che seguo per parecchi chilometri nonostante ci siano alternative più simpatiche su sentiero. Supero Fusino e solo al 47esimo chilometro abbandono l’asfalto per infilarmi in una mulattiera.
A questo punto mi fa male tutto, e ogni passo in discesa sul sentiero sconnesso è una sofferenza. Ma devo solo resistere per pochi chilometri! Arrivo infine in vista del Castello Vecchio di Grosotto e so che, da qui, manca davvero poco.
Quando raggiungo la macchina scopro che la temperatura a valle ha raggiunto i 35 gradi. Per il prossimo lungo dovrò inventarmi un giro più ad alta quota! Intanto però saluto con gratitudine la mia Val Grosina, che anche oggi mi ha dato grandi soddisfazioni. Non ultima la torta di Biancadino, che continua a nutrirmi anche durante il viaggio di ritorno!
Tirano – Baruffini – Rogorbello/Bertoli (771 m) – Susen (1508 m) – rifugio Schiazzera (2097 m) – sentiero 217 per Baruffini/Tirano – Pra Baruzzo (1450 m) – Sasso del Gallo – sentiero del Contrabbando – Roncaiola – Tirano.
Periodo: Maggio 2023
Partenza: Tirano (stadio)
Distanza: 29 km
Dislivello: 2100 m
Acqua: fontane in salita a Rogorbello e Quattro Rui; in discesa dopo Pra Baruzzo.
Manca un mese alla Doppia W Sky 30 km – per le ultra non sono ancora pronta, così mi sono buttata su una specialità che non è esattamente il mio forte – e ho deciso di dare un’occhiata al percorso.
Come punto di partenza e arrivo per il mio giro, in mancanza della navetta che ci assisterà nel giorno della gara, ho scelto il parcheggio della piscina Yellow Submarine, accanto allo stadio di Tirano. L’idea era raggiungere per sentieri Rogorbello/Bertoli, dove passa la Doppia W, e seguire il percorso della gara da qui al rifugio Schiazzera e al passo Portone. Il meteo non ottimale e la neve marcia che, secondo i rifugisti, avrei trovato a Pian Fusino mi hanno spinto a cambiare programma e accorciare il giro: per godermi il panorama dai 2620 m del passo Portone dovrò aspettare il giorno della gara!
Il parcheggio si trova lungo l’Adda, che attraverso dal ponticello pedonale di fronte allo stadio. Per prima cosa devo salire a Baruffini, un paesino a 800 m di quota, raggiungibile dalla strada oppure per sentieri e mulattiere: come vedrete, la mia traccia evita il più possibile l’asfalto e sale dritto per dritto dai sentieri, attraversando i vigneti e i meleti tipici della zona.
Da Baruffini seguo le indicazioni per Rogorbello (che sulle mappe si chiama Bertoli), altro piccolo borgo più o meno alla stessa altezza: 4 km di sentiero corribilissimo, con qualche saliscendi ma prevalentemente in discesa, separano i due paesi e mi permettono di riscaldare bene le gambe prima della salita vera e propria. L’unico punto in cui ho avuto un dubbio è il bivio che vedete qui sotto: il bollo più fresco invita a scendere verso destra, ma il sentiero corretto è quello a sinistra. Per il resto si tratta di un percorso intuitivo e facile da seguire.
A Rogorbello riempio bene le flask, che avevo lasciato vuote perché sapevo di trovare una fontana in questo punto strategico, e proseguo lungo la strada verso la chiesa. Qui svolto tutto a sinistra e comincio la lunga salita verso il rifugio Schiazzera: 1300 m di dislivello positivo in 7 km.
Le indicazioni da seguire sono quelle per le baite di Susen, più o meno a metà salita, e per il rifugio. Anche qui si tratta di un percorso molto semplice e intuitivo, in parte su facile sentiero e in parte su mulattiera, che attraversa più volte i tornanti della strada di servizio del rifugio.
Praticamente tutta la salita si svolge nel bosco, che oggi è particolarmente umido e soffocante; quando finalmente, in prossimità del rifugio, gli alberi si diradano, non riesco comunque a vedere un granché perché le montagne sono immerse nelle nubi.
Il rifugio è ancora chiuso, ma fervono i preparativi per la prossima apertura e per la Doppia W. Chiedo consiglio ai rifugisti anche se in realtà, vista la scarsa visibilità, ho già deciso di rinunciare a salire al passo Portone. Una ragazza gentilissima mi spiega che al Pian Fusino si affonda nella neve e mi consiglia, in alternativa, il sentiero a mezza costa che aggira la montagna, rimanendo più o meno all’altezza del rifugio.
Seguo le indicazioni per il passo Portone, ma solo fino alle baite che si vedono già dal rifugio; attraverso il torrente e raggiungo il sentiero a mezza costa che mi è stato indicato, dove trovo le indicazioni per scendere verso Baruffini e Tirano.
Dopo un ultimo tratto in leggera salita, comincia una lunga discesa su facile (ma fangoso) sentiero, che in 5 km mi porta a Pra Baruzzo. Da qui, continuo a seguire le indicazioni per Baruffini/Tirano, ora su strada sterrata semi-pianeggiante. Finalmente trovo una fontana: stavo razionando l’acqua in attesa di questo momento!
Questa stradina si rivela antipatica, oltre che noiosa, dal momento che ha in serbo per me altri 100 m di dislivello positivo. Ma ben presto ricomincio a scendere e, anziché seguire le indicazioni per Baruffini, prendo il sentiero verso Sasso del Gallo, che non è un sasso ma una località; da qui lungo il sentiero del Contrabbando scendo a Roncaiola e, senza ripassare da Baruffini, mi trovo sulla mulattiera da cui sono salita all’andata.
Si tratta ora semplicemente di ripercorrere i miei passi tra vigneti e meleti, riattraversare l’Adda dal ponte pedonale di fronte allo stadio e tornare al parcheggio della piscina Yellow Submarine.
La grande novità del Colmen Trail 2023 è un percorso lungo 33 km, che ha incuriosito tanti runner affezionati a questa impervia montagnetta della bassa Valtellina, ma non abbastanza scattanti per il velocissimo percorso della Colmen “classica”.
Inutile dire che tra gli iscritti figuro anche io, in fase di recupero e ancora meno scattante del solito! A una settimana dalla gara, ho deciso di provarla, approfittando della traccia fornita dall’organizzazione e del balisaggio in parte già effettuato.
Prima di passare alla descrizione del percorso di gara, di cui mi avete chiesto i dettagli non appena la mia attività è comparsa sui social, lasciatemi fare qualche considerazione:
il tracciato è una bellissima fotografia del territorio in cui si svolge, con il passaggio prima sul freddo e ombroso lato orobico della valle, poi sull’Adda e infine sul soleggiato (anche troppo) versante retico;
la gara è, dal mio punto di vista, molto corribile, ma di asfalto ce n’è poco e i sentieri, pur quasi sempre facili, costringono anche in piano a un passo piuttosto lento;
si tratta di un percorso molto nervoso che non molla mai: qualunque discesa è interrotta sul più bello da un’antipatica salitella; faticosissimo e spacca gambe, soprattutto nella parte finale.
Parcheggio a Morbegno nei pressi del ponte romano o di Ganda, uno dei miei punti di partenza preferiti per il sentiero Valtellina e per la costiera dei Cech. Mi lascio alle spalle l’Adda e i terrazzamenti inondati dal sole per dirigermi verso le Orobie, ancora immerse nell’ombra. L’aria è frizzante e parto con guanti e manicotti.
Un paio di chilometri su strada, che sembra in piano ma non lo è, mi portano nel cuore di Morbegno: il centro è completamente deserto alle nove della mattina di Pasqua. Seguendo le indicazioni per la via Priula, si imbocca una stradina in salita, dove già vedo impiantati i fenomeni che regolarmente partono al quattro e dieci e chiudono la gara con le scope.
Se si considerano questi primi due chilometri un riscaldamento e non una gara di mezzofondo, si dovrebbe arrivare alla mulattiera per Valle con energia sufficiente a risalirla di corsa: il dislivello, circa 750 m in meno di 5 km, è distribuito in modo uniforme, con diversi punti in cui si riesce anche a tirare un po’ il fiato.
Dopo qualche tornante su ciottolato, si prende un sentiero in salita, sempre con pendenza moderata, e si arriva a Valle incrociando la strada asfaltata. Il passaggio sulla strada è brevissimo e subito si riprende a salire su mulattiera e facile sentiero.
Da qui mancano ancora quasi 200 m di dislivello alla fine di questa prima salita. Si sale nel bosco, ora su sentiero vero e proprio, fino a raggiungere il punto più alto della gara, a 1000 m di quota.
Chi si aspetti di trovare, da qui, una bella discesa liberatoria, probabilmente non ha guardato bene il profilo altimetrico: si comincia, sì, a perdere quota, ma la discesa è continuamente interrotta da salitelle e tratti in piano.
Di sicuro c’è tanto da correre, in questa prima metà di gara. Per chi è bene allenato (non è il mio caso), è certamente possibile arrivare a Talamona senza avere mai camminato. Il terreno ora è piuttosto vario: si va dal sentiero facile al sentiero stretto e tecnico, dal pratone alla strada carrozzabile. Le foglie secche rendono alcuni punti insidiosi, almeno per le mie scavigliatissime caviglie.
Si arriva infine alla strada e il percorso ci concede finalmente un chilometrino di tranquilla discesa su asfalto. Mi fermo a una fontanella per rabboccare la flask, che è ancora quasi piena: con l’arietta gelida delle Orobie, non ho praticamente bevuto e non immagino che mi troverò, nel giro di un’ora, del tutto disidratata!
Sono ormai a fondovalle e seguo le indicazioni CT sull’asfalto, che mi portano ad attraversare l’Adda e a imboccare il sentiero Valtellina in direzione Sondrio. C’è ancora un chilometro da correre in piano prima di arrivare alla seconda salitona, quella per la Colmen. La montagnetta che dà il nome alla gara si staglia ora, un po’ minacciosa, davanti a me.
Un breve tratto su sentiero, con qualche saliscendi, porta a Desco, da dove parte la salita vera e propria. Sono circa 700 m di dislivello da qui alla vetta della Colmen (950 m), lungo un sentiero che prima aggira la montagna, con qualche tratto in piano e in discesa, per poi inerpicarsi con decisione fino in cima.
Il terreno è molto diverso rispetto a quello della prima salita: non mulattiera ma sentiero a tratti tecnico – le catene non sono altro che corrimano, ma è necessario prestare attenzione – e a tratti ripido, sempre molto faticoso. Il percorso di gara si ricongiunge qui con la Colmen classica di 16 km, con cui condivide, com’è naturale, il tratto più caratteristico.
Si tratta di sentieri che conosco molto bene, ma con quasi venti chilometri sulle gambe la salita mi sembra infinita. Il clima, poi, è cambiato radicalmente: fa caldissimo e, quando raggiungo la cima della Colmen, ho finito l’acqua e so, ahimè, che fino a Dazio non ne troverò.
Comincia ora uno dei miei sentieri preferiti, quello che attraversa il bosco di betulle verso la cresta ovest della Colmen. Anche qui c’è da correre, per chi ne ha: un chilometro di facile sentiero in leggera discesa anticipa la discesa vera e propria verso Dazio, più tecnica e con qualche tratto roccioso. Si sbuca infine sulla strada sterrata che, penso erroneamente, mi porterà ben presto in paese e a una fontana.
Contro le mie aspettative, si torna invece nel bosco, per di più in salita! Stanca e assetata, raggiungo il bivio dove la gara classica svolta a sinistra per Dazio e scopro che il mio percorso va invece verso destra, allontanandosi ulteriormente da qualsiasi fonte d’acqua! Si scende, infine, e si imbocca la via dei Terrazzamenti, un percorso che conosco bene e che spero di seguire da qui a Morbegno.
Una breve salita mi porta a un gruppetto di case e, finalmente, a una fontana. Reidratata, riprendo fiducia e proseguo in salita. Scopro che la via dei Terrazzamenti deve essere sembrata troppo facile agli organizzatori del Colmen Trail, perché il percorso devia subito e prende la mulattiera in salita per Regolido.
Si tratta solo di un centinaio di metri di dislivello, ma per me è la salita più dura di tutto il percorso. E quando finalmente finisce, la discesa dura qualcosa come tre secondi: subito si torna su un sentiero nervoso, dove non si riesce mai a lasciare andare le gambe e ogni momento felice di discesa è spezzato da uno strappetto in salita, da una mulattiera con ciottoli mortali, da un tratto spacca gambe su cemento. Si torna infine a Dazio e si riprende la via dei Terrazzamenti, con un’ultima salita che per fortuna conosco; arrivo infine a Cerido, poi a San Bello e da qui prendo la ripida mulattiera che scende verso il ponte romano, portandomi alla fine delle mie fatiche.
Venerdì 23 settembre si è corso l’ultratrail dell’Adamello e, con la mia amica Marta iscritta alla 90 km e una giornata dal meteo semplicemente perfetto, ho colto l’occasione per prendere un giorno di ferie, staccare pc e telefono e mettermi sulle tracce della gara.
Il giro che mi sono inventata in questa occasione è un bel lungo, facile e corribile, che mi ha richiesto circa 7 ore. Sono passata principalmente per stradine sterrate e mulattiere, con appena un quarto del percorso su sentieri degni di questo nome, comunque mai impegnativi. Al passo di Pietrarossa, a quasi 3000 m di quota, si arriva con un sentiero poco più che escursionistico, che in assenza di neve non presenta alcuna difficoltà.
Parcheggio al centro eventi di Vezza d’Oglio, da dove la gara di Marta è partita stamattina alle sette. Sono ormai quasi le dieci, ma il fondovalle è ancora in ombra e la temperatura non supera i dieci gradi. Poco male, i primi chilometri sono tutti da correre e mi riscaldo in fretta. Seguo per 3 km la pista ciclo-pedonale che costeggia il fiume Oglio, fino al piccolo centro di Stadolina.
Qui abbandono la ciclabile e svolto a sinistra, per poi prendere la stradina che sale in paese. Trovo una fontana dove mi fermo a riempire la flask e togliere la giacca, visto che al sole la temperatura è decisamente più gradevole. Dopo una ripida salita imbocco verso destra via Dante Alighieri, che mi porta al paese successivo, Vione.
Seguendo le balise della gara, risalgo verso il centro del paese e arrivo alla chiesa, ma poi mi accorgo di essere salita troppo e mi tocca scendere un pezzetto: devo infatti prendere la mulattiera per Molina Lecanù e Roncal, che passa poco più in basso.
Le indicazioni da seguire fino a Roncal sono quelle per il percorso mountain bike n. 11, una stradina semipianeggiante, morbida e corribile.
A Roncal, di nuovo, attraverso il paese in salita e, superate le ultime case, raggiungo una cappelletta. Qui abbandono il percorso n. 11 e prendo la mulattiera in salita verso sinistra, che porta verso le baite di Castèl. Si tratta di un altro percorso mountain bike, il n. 58, che seguirò da qui fino Sant’Apollonia.
Non vedo più le balise e mi convinco di avere sbagliato i calcoli: pensavo che questa salita, in cui guadagnerò circa 800 m di dislivello, coincidesse con una discesa della gara in cui intendevo incrociare Marta, ma evidentemente mi sono sbagliata. L’unica cosa che posso fare ormai è salire il più in fretta possibile, sperando di incrociare il percorso di gara alla fine della mulattiera. La fortuna è dalla mia parte e mi ritrovo effettivamente sul sentiero balisato (che poi è sempre il n. 58) da cui stanno arrivando i concorrenti della 90 km. Metto la giacca e faccio uno spuntino, in attesa di vedere arrivare la mia amica.
Marta arriva prima del previsto perché, come scoprirò più tardi, non siamo al 35° ma solo al 28° km della gara. Evidentemente non ci ho capito una mazza, ma sono stata fortunata e l’ho incrociata per puro caso dopo appena cinque minuti dal mio arrivo. In fretta e furia tolgo la giacca e mi metto a correrle dietro, ché il passo di Marta è micidiale anche in una gara così lunga.
Percorro con lei un paio di chilometri in leggera discesa e, alla baita Somalbosco, la saluto e prendo il sentiero in discesa per Sant’Apollonia (sempre il n. 58). Arrivata in paese, svolto a sinistra in direzione del passo di Gavia e prendo la mulattiera pianeggiante che passa poco sotto la strada. Sono di nuovo sul percorso di gara, ma questa volta in senso opposto.
Le indicazioni da seguire, da qui fino al passo di Pietrarossa, sono quelle del sentiero n. 158 per il rifugio Valmalza e il bivacco Linge. Da entrambi passa la gara e mi rendo conto che è lungo questa mulattiera, e non quella precedente, che avevo calcolato di incrociare Marta! La rivedo passare, in effetti, a metà tra il rifugio e il bivacco.
Superato il bivacco (2273 m), mi lascio alle spalle i volontari, i concorrenti e il clima festoso della gara e mi avvio in solitaria verso il passo di Pietrarossa, che non è indicato ma si vede in lontananza. Da qui in poi non incontro anima viva se non stambecchi, cervi e marmotte. Il sentiero non è sempre evidente, né su questo né sull’altro versante, ma i bolli ci sono e basta seguirli. La traccia gpx può aiutare a procedere più in fretta e consiglio, a chi voglia ripetere il giro, di scaricarla.
Con un ultimo strappetto su pietraia raggiungo finalmente il passo di Pietrarossa (2958 m), da dove si apre una vista spaziale sulla Valle dei Messi, da cui arrivo, e sulla Val Grande, da dove scenderò per tornare a Vezza d’Oglio.
In realtà, guardando oltre il passo, vedo solo un enorme precipizio e mi domando se non sarebbe stato opportuno prendere qualche informazione sul sentiero per la discesa. Vedo tuttavia che i cartelli indicano Vezza d’Oglio a 4 ore di cammino non in direzione del precipizio, ma verso le montagne a sinistra. Seguo dunque i bolli lungo un breve tratto di roccette in cresta, forse l’unico punto un po’ esposto del giro, e raggiungo una croce e un altro passo non meglio identificato.
Da qui il panorama è ancora più bello e, soprattutto, la discesa assume un aspetto decisamente più umano!
Seguo i bolli giù per la pietraia, accompagnata dagli stambecchi che non si fanno scrupoli a smuovere sassi, e comincio piano piano a perdere quota. A tratti riesco a corricchiare, mentre altri punti sono sdrucciolevoli e mi costringono a procedere più lentamente. La pietraia cede via via il passo a un pratone, dove i bolli sono meno visibili e il sentiero è stato danneggiato dalle piene dei torrenti. Niente di difficile, ma perdo un po’ di tempo per capire da che parte andare. Finalmente il prato finisce e raggiungo una comoda mulattiera.
Devo avere superato velocemente sia il bivacco S. Occhi, sia la malga Val Grande, ma non posso fornire dettagli a riguardo perché non mi sono mai fermata. Dall’inizio della mulattiera manca una decina di chilometri a Vezza d’Oglio, ma ormai posso procedere a passo di corsa e ben presto raggiungo il parcheggio al centro eventi. Manca ancora parecchio ai primi arrivi della 90 km, ma io il mio dovere per oggi l’ho fatto e, nell’attesa, posso concedermi una meritata birretta!
Da Monastero a Monastero: una traversata che accarezzo dallo scorso inverno, quando sul monte Bassetta scoprii l’esistenza del sentiero Walter Bonatti. L’idea di partire da Monastero di Dubino, dalla casa del più grande alpinista di tutti i tempi, e arrivare a casa mia a Monastero di Berbenno, era così bella che non vedevo l’ora dell’estate per metterla finalmente in pratica. E chi poteva essere così fuori di testa da accompagnarmi, se non la mia socia omonima?
Si tratta di un giro davvero tosto, dove chilometri e dislivello non rendono la minima idea delle difficoltà. Noi stesse abbiamo sottovalutato parecchio i tempi di percorrenza, convinte che un buon allenamento e una traccia gpx fossero sufficienti a cavarcela bene e in fretta. Ma nel bel mezzo del sentiero Bonatti – un percorso selvaggio, poco segnato e ancor meno battuto – ci siamo trovate con un Garmin morto e l’altro scarico, quindi senza traccia; e l’allenamento serve a poco, quando ogni due passi bisogna fermarsi per capire da che parte andare. Avevamo calcolato non più di 8 ore da Dubino alla Omio: ce ne abbiamo messe 11!
Il sentiero Roma, che si connette con il sentiero Bonatti all’altezza del rifugio Omio, è invece terreno noto per me: si tratta di un percorso difficile ma più “addomesticato”, ben segnato e pieno di gente. Anche qui pecco di eccessiva sicurezza, calcolando i tempi di percorrenza sulla base del giro del Kima provato due anni fa, senza tenere conto dei 3200 m di dislivello positivo che già abbiamo sulle gambe e del fatto che Marta non è abituata ad arrampicarsi per roccette attrezzate. Pensavo di fare la traversata Omio-Ponti in 10-11 ore: ce ne abbiamo messe 13, arrivando giusto in tempo prima del buio.
Almeno per il terzo giorno si sperava di avere fatto bene i conti: l’idea era quella di seguire l’anello dei Corni Bruciati, passando prima dal passo di Corna Rossa, ultima bocchetta del sentiero Roma, poi dal passo di Caldenno e dal passo Scermendone, con una puntata al pizzo Bello per chiudere in bellezza e da qui per sentieri arcinoti scendere a Monastero. Mal consigliate, abbiamo seguito il “sentiero” Corna Rossa-Caldenno su orribile pietraia, impiegando più del doppio del tempo previsto. Arrivate finalmente al passo di Caldenno, eravamo talmente cotte che abbiamo saltato l’ultima parte e siamo scese dalla val Caldenno, per sentieri facili ma interminabili.
A chi volesse ripetere il giro, suggerisco di seguire il sentiero Roma dal passo di Corna Rossa al rifugio Bosio e, da qui, o scendere a Torre di Santa Maria o risalire al passo di Caldenno per proseguire con l’anello dei Corni Bruciati. La traversata su pietraia è stata davvero la parte peggiore del nostro giro e la sconsiglio.
Ecco allora la relazione della traversata.
SENTIERO WALTER BONATTI
La mattina di ferragosto, verso le 7, parcheggiamo alle scuole di Dubino in via Cappelletta e da qui andiamo a prendere il sentiero Walter Bonatti, indicato già lungo la strada. Saliamo a Monastero, dove comincia il sentiero vero e proprio. Occhio solo a un bivio poco chiaro: non bisogna salire verso le falesie, ma svoltare a sinistra seguendo il segnavia bianco-rosso. La prima tappa, che raggiungiamo in fretta su facile sentiero, è l’alpe Piazza, dove conviene fare scorta d’acqua perché fino al bivacco Primalpia non si trovano altre fontane.
Proseguiamo ora verso il monte Foffricio, l’altura che sovrasta l’alpe Piazza, e da qui raggiungiamo l’ampia cresta che ci porta al monte Bassetta (1744 m). Conviene abbandonare il sentiero, che passa sotto la cima vera e propria, e salire di pochi metri per ammirare il panorama che si apre sulla valle dei Ratti con l’inconfondibile sfondo del Sasso Manduino, oggi purtroppo immerso nelle nubi.
Fin qui tutto facile: sono passate due ore e mezza dalla partenza e abbiamo fatto quasi metà del dislivello. Non possiamo certo immaginare che staremo in ballo ancora più di otto ore, ma cominciamo a renderci conto che il sentiero è poco battuto già nel primo tratto dopo il Bassetta. Passiamo a sinistra del monte Brusada e con un traverso poco corribile, ma facilmente camminabile, raggiungiamo l’alpe Codogno.
Ci troviamo sopra il lago di Novate Mezzola e la val Chiavenna; ben presto arriviamo in vista di Frasnedo, per cui troviamo anche qualche indicazione. Da Frasnedo si passa per il giro del Tracciolino, molto bello ma purtroppo al momento inagibile.
Superiamo l’alpe Codogno (1790 m) e continuiamo a salire, mentre l’ambiente intorno a noi si fa sempre più selvaggio. Le uniche forme di vita sono capre, pecore e mucche, oltre a un paio di pastori di cui sentiamo le urla in lontananza. Trovare il sentiero comincia a diventare complicato, ma a questo punto il mio Garmin è ancora vivo e ci affidiamo alla traccia gpx, qui davvero indispensabile.
Si superano diverse bocchette, di cui mi ero anche segnata i nomi come punti di riferimento, ma non sono indicate e sapere come si chiamano è poco utile. Si tenga conto invece dei seguenti riferimenti: alpe Piempo (2050 m), bivacco Primalpia (1980 m), lago dal Marzel (2310 m). Sono gli unici punti dove si trova un cartello per orientarsi e farsi un’idea di dove ci si trova.
Passiamo per le prime pietraie, che personalmente preferisco rispetto all’erba alta, in cui le marmotte la fanno da padrone e i bolli si perdono di vista. Riusciamo comunque a sbagliare strada in diversi punti, perché le indicazioni sono minime e da queste parti non passa davvero nessuno. Sorprendentemente, invece, il telefono prende piuttosto bene in diversi punti del percorso.
Il tratto più difficile, almeno dal punto di vista dell’orientamento, è quello tra l’alpe Piempo e il bivacco Primalpia. Bisogna dapprima attraversare un pratone con rari bolli consumati dal tempo; poi arrampicarsi per un ripido canale erboso, verticalissimo, con la speranza che la discesa dall’altra parte sia meno scoscesa; infine superare un traverso, con erba alta e tane di marmotte lungo tutto il sentiero, e scendere fino al bivacco.
Al bivacco troviamo una fontana dove finalmente possiamo riempire le borracce, e un gruppo di asinelli che ci fanno compagnia mettendosi a bere con noi. Siamo incredule quando leggiamo che da qui alla Omio il tempo di percorrenza CAI è 5 ore e mezza: mancano pochi chilometri e neanche così tanto dislivello! Invece non è molto meno di quanto ci metteremo.
Il paesaggio diventa sempre più bello man mano che guadagniamo quota. Sopra i 2200 m bolli e indicazioni si fanno più evidenti, forse perché siamo in prossimità di alcune vie di arrampicata e cime importanti, per esempio il Ligoncio che dovrebbe trovarsi da queste parti.
Superato il minuscolo lago dal Marzel, continuiamo a inerpicarci tra erba scivolosa e roccette taglienti seguendo i bolli, che ora si vedono – per fortuna, perché l’orologio di Marta è scarico e il mio è improvvisamente morto senza spiegazioni. Comincia ora la faticosa pietraia che ci porterà alla bocchetta del Calvo, a quota 2700 m circa, da cui dovremmo infine cominciare a scendere verso il rifugio Omio.
Il passo sembra rimanere sempre alla stessa distanza, dalla lentezza con cui ci muoviamo tra questi sassoni di granito. Il cielo ora è bello scuro e speriamo quantomeno di superare la bocchetta prima del temporale, previsto per le 18. Noi contavamo di essere al rifugio per le 14 o le 15 al più tardi!
Il passo di per sé non è particolarmente impegnativo. Si percorre una lunga cengia, in parte coperta di erba scivolosa, che è stata messa in sicurezza con catene. Solo una è divelta, per il resto sono in ottimo stato e ci affidiamo a loro per scendere il più in fretta possibile.
A differenza dei sette passi del Kima, tenuti puliti dal passaggio frequente e attrezzati con catene dall’inizio alla fine, la bocchetta del Calvo è piena di sfasciumi che nessuno ha ancora avuto modo di far cadere e, per di più, è attrezzata solo nei tratti resi pericolosi dall’erba. In altri punti, ripidi e scivolosi per il ghiaino, dobbiamo cavarcela senza catena. Finalmente individuiamo il rifugio, lontanissimo ma almeno in vista: il temporale si sta avvicinando e per fortuna abbiamo superato la parte più pericolosa.
Ci fermiamo giusto il tempo di mettere la giacca a vento e proseguiamo il più velocemente possibile sotto la grandine battente, tra erba fradicia e lastroni scivolosi. Arriviamo finalmente al rifugio poco prima delle 18, bagnate come pulcini ma felici di avercela fatta! Per fortuna alla Omio ci permettono di mettere le scarpe ad asciugare vicino alla stufa. La birra è fantastica e la cena ancora meglio. Dormiamo il sonno del giusto e alle 7 del mattino siamo pronte per ripartire alla conquista del sentiero Roma.
SENTIERO ROMA
Ci aspettano ora i sette passi del giro del Kima, fatti in senso opposto: Barbacan (2570 m), Camerozzo (2765 m), Qualido (2647 m), Averta (2551 m), Torrone (2518 m), Cameraccio (2950 m), Roma (2894 m). Per fare il giro con calma bisognerebbe passare una notte al rifugio Allievi-Bonacossa, a poco più di metà strada tra la Omio e la Ponti, ma noi abbiamo gambe forti e soprattutto la testa dura, e siamo determinate a fare tutto in una volta.
1° PASSO: BARBACAN
La bocchetta si raggiunge senza troppa fatica dal rifugio Omio: la conosco bene per averla percorsa più volte (qui il link del giro più recente). Fate attenzione a non perdere di vista i bolli, perché ci sono sentierini alternativi molto ripidi, scavati dal passaggio degli animali. Io sbaglio sempre e anche oggi non mi smentisco, arrampicandomi per placchette e zolle d’erba mentre Marta sale tranquilla dal sentiero corretto. Di là dal passo, scendiamo con l’aiuto delle catene e ben presto ci troviamo nella fantastica val Porcellizzo.
Riconosciamo i profili del Badile e del Cengalo, le due cime più note di questa valle, che si possono raggiungere partendo dal rifugio Gianetti.
Il rifugio stesso non è troppo lontano: rabbocchiamo le borracce alla fontana esterna, che oggi troviamo aperta, e senza indugio proseguiamo verso il passo Camerozzo. La val Porcellizzo è lunghissima, ma finalmente arriviamo nei pressi della bocchetta.
2° PASSO: CAMEROZZO
Si tratta, insieme forse al Cameraccio, del passo più impegnativo, soprattutto percorso nel nostro senso di marcia: saliamo infatti con tratti di sentiero e poche facili catene fino al punto più alto, mentre molto più lunga e vertiginosa risulta la discesa. Sotto di noi si apre la val del Ferro, che con le sue enormi placche granitiche è uno dei punti più caratteristici del sentiero Roma. È anche l’unica valle dove il telefono prende bene.
Poco più in basso vediamo il bivacco Molteni-Valsecchi, un altro dei tanti punti di appoggio per chi percorre il sentiero Roma in più giorni.
3° PASSO: QUALIDO
Al passo Qualido si arriva abbastanza facilmente risalendo un ripido pendio di sfasciumi. Tra i sette, è forse il passo meno impegnativo. Si scende in val Qualido lungo una semplice cengia, di cui solo l’ultimo tratto è attrezzato con un paio di catene.
4° PASSO: AVERTA
Anche il passo dell’Averta è abbastanza semplice: ci si arriva superando un punto un po’ verticale con l’aiuto di un paio di catene e si scende senza troppi problemi nell’ampia val di Zocca, dove dovrei saper riconoscere la punta Allievi e la cima Castello, ma ancora non ho capito con esattezza quali siano.
La val di Zocca è larga più o meno quanto la val Porcellizzo e attraversarla richiede parecchio tempo. Il sentiero scende al di sotto del rifugio Allievi-Bonacossa e ci costringe a un’ultima faticosa salita per raggiungerlo. Il limite massimo che ci siamo date per arrivare all’Allievi sono le 14: dopo quest’ora, rischiamo di finire il giro con il buio. Arriviamo alle 13:59 e decidiamo di proseguire, non prima di avere acquistato due panini e quattro bottigliette di acqua frizzante (la fontana davanti al rifugio è chiusa). Abbiamo impiegato 7 ore dalla Omio all’Allievi e, tenendo lo stesso passo, dovremmo mettercene 6 da qui alla Ponti.
5° PASSO: TORRONE
Al passo Torrone si arriva da un facile, panoramico e piacevolissimo sentiero. È la prima volta che faccio questo passo in discesa e devo dire che in salita mi è sempre parso molto più semplice. Si scende per un ripido canalino, come sempre attrezzato con catene, e si perde parecchia quota addentrandosi nella selvaggia val Torrone.
Il sentiero Roma passava originariamente più in alto su ampie placche di granito. Il percorso è stato cambiato diversi anni fa, dopo un incidente dovuto proprio a una placca bagnata, ed è ora più faticoso ma sicuro. Nonostante il vecchio sentiero sia ancora chiaramente battuto, seguiamo il percorso corretto che ci fa scendere parecchio sotto le placche e poi risalire verso il bivacco Manzi e il passo Cameraccio.
6° PASSO: CAMERACCIO
È il mio passo preferito, nonché il più alto di tutto il sentiero Roma. Due anni fa lo feci in discesa e con la neve: ora ha cambiato completamente faccia, ma lo trovo sempre bellissimo. Il percorso originale è stato modificato per i crolli dovuti alla siccità di quest’anno e si passa ora sul lato sinistro della valle, seguendo i bolli più recenti e gli ometti. Risaliamo a fatica il pendio di instabili sfasciumi (molto meglio la neve!) e finalmente raggiungiamo la sicurezza delle catene, con cui percorriamo gli ultimi 100 m di dislivello che ci separano dalla bocchetta.
Dal passo si scende per facile pietraia verso la val Cameraccio. Piano piano, ma senza mai fermarci, arriviamo al bivacco Kima e cominciamo l’ultima parte del giro, che ho ben stampata in mente per averla provata di recente (qui il link).
7° PASSO: BOCCHETTA ROMA
Assomiglia un po’ al passo Cameraccio, ma è più breve: la bocchetta Roma si raggiunge dopo avere attraversato un pendio di sfasciumi davvero molto instabile, dove conviene tenere sempre la destra e seguire accuratamente i bolli fino all’inizio delle catene.
Con l’aiuto delle catene si scalano le ultime, ripide placche per arrivare alla bocchetta e, da qui, la vista si apre finalmente sulla valle di Predarossa, dal Disgrazia ai Corni Bruciati.
Scendiamo di buon passo verso il rifugio Ponti: sono quasi le 20 e siamo in ritardo per cena! La pietraia è impervia nella parte più alta, dove bisogna seguire scrupolosamente i bolli senza inventarsi soluzioni originali, perché la valle di Predarossa può riservare brutte sorprese; poi il sentiero si addolcisce e ci porta finalmente al rifugio, dove ci ristoriamo con una birra e un’ottima cena.
ANELLO DEI CORNI BRUCIATI
La mattina del terzo giorno ci avviamo verso il passo di Corna Rossa, seguendo le indicazioni per il monte Disgrazia. Il cielo è cupo ma non sono previsti temporali prima del tardo pomeriggio.
Le strade per il Disgrazia e per la bocchetta si dividono dopo la morena: seguiamo ora le indicazioni per l’ex rifugio Desio. Si risale il solito pendio di sfasciumi, qui particolarmente brutto anche perché il passaggio è nettamente inferiore rispetto al giro del Kima; la roccia è diversa, più liscia e scivolosa rispetto a quella incontrata finora. I tratti migliori, più solidi, sono sempre quelli attrezzati con catene.
Raggiungiamo il passo di Corna Rossa (2836 m) e l’ex rifugio Desio, un tempo punto di partenza per il Disgrazia, oggi abbandonato e pericolante.
La vetta del Disgrazia è purtroppo immersa nelle nubi, altrimenti la vista sarebbe spettacolare. Cominciamo la discesa verso la Valmalenco, un po’ su ghiaino scivoloso e un po’ su solida pietraia; alcune placche rosse con un grip pazzesco ci permettono di procedere un po’ più spedite, almeno in alcuni punti.
Arriviamo infine al punto in cui comincia il traverso per il passo di Caldenno, che ci è stato consigliato come “pietraia facile”. A vederlo non sembra granché e valutiamo anche la comoda alternativa di scendere fino al rifugio Bosio lungo il sentiero principale, risalendo da lì al passo di Caldenno per pratoni, ma alla fine decidiamo di fidarci e di passare dalla pietraia – che di facile, ahimè, non avrà proprio niente.
Lentamente, faticosamente, percorriamo questo instabile traverso, senza neanche poterci consolare con un bel risparmio di dislivello – l’altro sentiero, in alcuni punti, passa appena cinquanta metri sotto di noi. Fosse capitato il primo giorno, l’avremmo vissuto più serenamente, ma trovarsi davanti a una difficoltà inaspettata dopo due giorni di fatiche è davvero troppo!
Finalmente arriviamo al passo e di comune accordo decidiamo che per oggi è l’ultimo. Mancherebbe ancora il passo Scermendone, ripido per quanto tecnicamente semplice, ma davvero non ne abbiamo più. Scendiamo allora giù per la val Caldenno.
Arriviamo a Prato Isio, da dove si potrebbe raggiungere Berbenno di Valtellina; noi proseguiamo invece lungo la traversata per Prato Maslino, che sembra breve quando si passa di corsa, ma oggi è davvero infinita; scendiamo poi per sentieri a Gaggio di Monastero. Con poche speranze di potercela cavare con un autostop, ci avviamo lungo la strada a tornanti per Monastero, che giustamente è una delle meno trafficate della Valtellina (ho scelto Monastero in quanto esatto opposto di Milano). Come un miraggio, però, un’auto appare alle nostre spalle: una super nonna e due nipoti adolescenti si fanno in quattro per stringersi e permetterci di infilarci dentro con loro, risparmiandoci gli ultimi chilometri di cammino. Un enorme GRAZIE, come sempre, a chi è gentile con i viandanti!
Spettacolare cavalcata tra due valli meravigliose: da Arnoga (Valdidentro) a Eita, laghi di Très, lago Negro, passo Dosdè (2824 m) e per finire laghi della Val Viola.
Decido per una volta di allontanarmi dalle aspre montagne della bassa Valtellina e di guidare fino a Bormio, in cerca di pendenze più dolci e di sentieri corribili.
Vorrei esplorare la val Viola, dove non sono mai stata: cercandola sulla cartina, scopro che poco lontano c’è un altro posto scoperto di recente, la val Grosina, e mi viene l’idea di concatenare le due valli in un unico, lungo ma relativamente veloce anello, tutto da correre. Il giro è di difficoltà escursionistica, eccetto il passo Desdè, che si raggiunge su pietraia e in un ambiente severo di alta montagna. Per il passo è necessario avere esperienza e attendere condizioni meteo favorevoli, mentre il resto del giro si potrebbe fare anche sotto la pioggia.
Rispetto ai sentieri a cui sono abituata, qui sembra di stare in Trentino: comode mulattiere e pendenze quasi collinari, valli ampie e aperte e, per quanto riguarda la val Viola, anche un certo numero di turisti attratti dal rifugio e dai laghi facilmente accessibili. La val Grosina, invece, rimane per fortuna meno frequentata.
La partenza è da Arnoga, sopra Valdidentro. L’ideale è lasciare l’auto alla Baita Viola, ma il parcheggio è piccolo e potrebbe essere pieno: in alternativa c’è un parcheggione poco più avanti, dopo il tornante. Sono mattiniera e, al mio arrivo, il termometro segna 10 gradi. Venendo da lidi più temperati, sono in canotta e nello zainetto non ho altro che un antivento leggero, ma dopo il caldo degli ultimi due mesi decido che un po’ di aria fresca non può farmi male!
Il sentiero comincia subito dopo il parcheggio della Baita Viola ed è così pianeggiante che fa venire voglia di partire in quarta. Un po’ mi dispiace avere le gambe cotte dai giri precedenti, perché 3 km così piatti a 1800 m di quota non li avevo davvero mai visti. Al bivio, prendo la stradina in discesa con una curva a gomito verso sinistra: senza possibilità d’errore, questa mulattiera va seguita per una decina di chilometri fino a Eita.
Freddo è freddo, ma tengo botta e confido nel sole, che prima o poi dovrà pur fare capolino dalle montagne. Percorro circa 400 m di dislivello, arrivando intorno a 2300 m di quota, per poi scollinare in val Grosina, finalmente al sole e al caldo. Il clima, da questa parte delle montagne, è più mite e finalmente mi dà un po’ di tregua il vento gelido che mi ha accompagnato per tutta la salita.
Ben presto raggiungo dall’alto il laghetto Acque Sparse, da cui passa il Valgrosina trail, a cui ho partecipato appena una settimana fa (bella gara, ve la consiglio!).
Continuo la discesa, seguendo per un tratto il percorso della gara, e arrivo a Eita, graziosissimo paesino immerso nel verde della val Grosina.
Da qui abbandono il giro del Valgrosina trail, ma resto comunque su un percorso noto, quello provato con Marta un mesetto fa (qui il link). Prendo la strada asfaltata verso destra e seguo le puntuali indicazioni per i laghi di Très (il plurale continua a rimanere un mistero, a me anche questa volta è sembrato un lago solo).
Dopo un breve tratto in discesa prendo la stradina in cemento che sale verso destra e raggiungo l’alpeggio di Vermulèra. Da qui comincia il sentiero per i laghi di Très, la prima vera salita del mio giro. Il paesaggio è bucolico e in giro non c’è quasi nessuno, come ricordavo. Già mi pregusto il silenzio dell’alta montagna, quando dal nulla sbuca una motoretta da trial. A bordo, un aitante centauro a malapena maggiorenne, con annessa fidanzatina isterica che scopre nel bel mezzo della val Grosina di avere paura della moto. Passino il rumore e la puzza, ma le scenate in montagna anche no!
Supero in fretta il lago, dove la coppietta ha pensato bene di fermarsi a litigare con urla che echeggiano per tutta la valle, e proseguo in direzione lago Negro. L’altra volta, con Marta, ero invece andata verso il passo di Vermolera e sono curiosa di esplorare questo nuovo lato della val Grosina. Il sentiero è sempre facile e la pendenza moderata. Certo, me la godrei di più se la coppia malefica non fosse rimontata in sella per superarmi in salita e continuare a seminare smog e inquinamento acustico davanti a me.
A parte il rimbombo della motoretta, tutto tace intorno a me e cerco di concentrarmi sulle cose belle: l’enorme pietraia che mi circonda, il sentiero ancora facile e a tratti corribile, le cime che coronano la vallata. Un’ultima salita mi porta infine al lago Negro, oltre i 2500 m di quota.
I ragazzini hanno spento il motore, ma in compenso si sono rimessi a litigare, per la felicità di un povero escursionista solitario che deve essersi da poco accampato in riva al lago per godersi un po’ di pace e silenzio. Frustrata da tanta maleducazione, mi fermo giusto il tempo di una foto e riprendo subito il sentiero in direzione del passo Dosdé, che si intravede ora verso destra, alle spalle del lago. Con somma gioia vedo che comincia la pietraia, dove la maledetta motoretta non potrà seguirmi.
Giro intorno al lago e comincio a salire verso il passo. La pietraia è un po’ antipatica perché i bolli sono pochi e poco visibili. Cerco di dare il mio contributo aggiungendo sassi ai rari ometti che aiutano nell’orientamento e penso che non vorrei trovarmi qui in condizioni di scarsa visibilità: non ci sono tratti esposti o particolarmente pericolosi, ma l’ambiente è davvero severo a questa quota.
Arrivo infine alla bocchetta e per un attimo resto perplessa: intorno a me un’enorme pietraia – rispetto alla salita cambia solo il colore delle rocce – e nessuna traccia di una via di discesa. Per di più sono di nuovo sul versante settentrionale delle montagne e torno a essere sferzata dallo stesso vento gelido di stamattina.
Eppure ci deve essere una costruzione, ricordo di averla intravista mentre salivo. E un cartello, un’indicazione, un bollo o un ometto per la discesa… cammino un po’ tra le rocce e finalmente arrivo al passo vero e proprio, dove in effetti si trova un bivacco.
Trovo qui anche qualche indicazione: per il rifugio Federico, che mi sembra di capire sia il punto di appoggio per le scialpinistiche al pizzo Dosdè, e per il rifugio Viola, da dove rientrerò poi ad Arnoga. Vedo un bollo per la discesa e conto di impiegare non più di un’oretta dal passo al rifugio Viola, indicato a 3h20′.
Come sempre accade quando faccio i conti e decido di essere quasi arrivata, cominciano gli imprevisti. Intanto scopro che la discesa non è più facile della salita: tratti di sentiero si alternano alla pietraia, dove ometti e bolli sono sempre rari. Per di più, quando la pietraia sembra finalmente finita, mi trovo a un bivio: un bollo manda verso destra, un altro verso sinistra. A sinistra si vede una traccia, a destra più niente dopo il primo bollo, per cui vado a sinistra. Dopo qualche minuto capisco il motivo dell’esistenza di un secondo sentiero: quello principale è franato.
Quello che un mese fa doveva essere un torrente impetuoso non è che un rigagnolo, per cui non mi preoccupo troppo di non poterlo attraversare e continuo a scendere più o meno a caso nel letto vuoto del fiume, a destra rispetto al sentiero principale e al corso d’acqua che sento gorgogliare poco lontano.
La pendenza diminuisce e mi riavvicino al sentiero. Devo solo attraversare qualche ruscelletto e finalmente torno sulla retta via, dove posso rimettermi a correre. Ho perso parecchio tempo a ravanare nella pietraia, ma da qui in avanti dovrebbe essere tutto facile.
Il sentiero è facile e super panoramico, ora a destra ora a sinistra del torrente, tra ampi pascoli e cime maestose. Proseguo verso l’alpe Dosdè senza passare dal rifugio Federico, che vedo dall’altra parte del torrente.
Da questa malga si può ammirare quello che resta del nevaio del pizzo Dosdè. Seguo ora le indicazioni per il rifugio Viola, lungo un grazioso sentierino in leggera salita. La val Viola, come immaginavo, è più affollata rispetto alla val Grosina, ma fino ai primi laghetti incontro solo escursionisti educati e sorridenti. Davanti al rifugio, invece, la fauna umana è più varia: ciclisti veri e ciclisti in e-bike, famiglie, anziani, gruppi civili e gruppi schiamazzanti.
Supero in fretta e furia il rifugio e vado a prendere la strada sterrata in leggera discesa, da cui ancora qualcuno sta salendo e scendendo. Per fortuna è ora di pranzo e la gran parte dei turisti è seduta a mangiare al rifugio, ma anche così la mulattiera è affollata. Niente, per godermi questa val Viola avrei probabilmente dovuto fare il giro al contrario, passando di qui di prima mattina. Adesso c’è troppa gente, sono stanca e non vedo l’ora di raggiungere la macchina.
La strada sterrata diventa asfaltata, supero qualche parcheggio e proseguo ora in discesa, ora in piano, ora con un’ultima cattivissima salita. Ancora pochi chilometri e sono al punto di partenza.
Sentiero 4 luglio (32,5 km – 2700 m D+)
19 Agosto 2023 by marta • Orobie, Valtellina Tags: bivacco davide, campovecchio, cima sellero, corsa in montagna, maratona del cielo, orobie valtellinesi, passo sellero, passo telenek, sant'antonio, sentiero 4 luglio, skymarathon, skyrunning • 0 Comments
Sulle tracce di una delle più celebri skymarathon valtellinesi.
Periodo: Agosto 2023
Partenza: parcheggio Fucine-les, Corteno Golgi (BS)
Distanza: 32,5 km
Dislivello: 2700 m
Acqua: abbiamo seriamente patito la sete!
GPX (clic dx, salva link con nome)
Un percorso tecnicissimo per creste aeree e traversi esposti caratterizza buona parte del sentiero 4 luglio, dove ogni estate si corre una delle gare più importanti della Valtellina. Vedere i tempi dei più forti ci fa sentire delle cacchine, ma insomma noi Martas siamo poco ambiziose e giriamo più che altro per divertirci!
Il giro è bellissimo e merita una gita fuori gara, per godersi appieno i panorami e il silenzio di queste selvagge Orobie valtellinesi.
Abbiamo lasciato un’auto al parcheggio Fucine-Les di Corteno Golgi, all’imbocco della strada che sale verso Sant’Antonio, e l’altra a Santicolo, punto di arrivo della gara, per seguire il percorso ufficiale; un inaspettato maltempo, però, ci ha costretto a tagliare l’ultima parte, verso la fine delle creste, scendendo dalla val Torsolazzo verso Corteno Golgi anziché terminare il giro a Santicolo. Questa soluzione d’emergenza si è rivelata interessante, con una bella discesa facile e corribile, e mi sento di consigliarla.
Per andare a prendere il sentiero 4 luglio vero e proprio bisogna per prima cosa salire a Sant’Antonio (1125 m) lungo la strada asfaltata e, poi, seguire le indicazioni per Campovecchio. Da qui si prosegue in direzione passo Sellero: non dritto, come facciamo dapprima noi, attirate da un asinello che sembra un Trudy e dall’invitante indicazione “3.30 h”; bensì verso destra, seguendo il sentiero 107 che si inoltra nel bosco, con tempo di percorrenza 6 h.
Guadagniamo quota in modo costante, su comodo sentiero, fino allo Zapel dell’Asen (2026 m). Da qui alla Val Rosa ci aspetta un lungo e accidentato traverso di 6 km, dove con ogni probabilità i top runner corrono al quattro e trenta, mentre noi non vediamo altra soluzione che camminare di buon passo.
Per fortuna abbiamo l’idea di rabboccare le borracce a un ruscello: sarà l’unico punto acqua da qui alla fine del giro! Finalmente dalla Val Rosa (1970 m) riprendiamo a salire. Non c’è anima viva e ci godiamo lo spettacolo delle creste che andremo a percorrere nella pace e nel silenzio. Man mano che saliamo, l’erba cede il posto alla pietraia e il sentiero, sempre ben segnato, si inerpica verso il passo Telenek (2560 m).
Dal passo, ci dirigiamo verso la cima Sellero (2744 m), il punto più alto della gara. Da qui in avanti il sentiero segue il filo di cresta, ed è un vero spettacolo!
Ci aspetta ora il tratto più tecnico del giro, una discesa piuttosto ripida con catene che ci porta al passo Sellero (2400 m).
A questo tratto attrezzato seguono, prima e dopo il passo Sellero, crestine aeree e traversi esposti: se dovessi classificare questo sentiero 4 luglio, cosa che non farò perché non sono un CAI e non scrivo per gli escursionisti, lo definirei di grado FBLO (fa balaa l’oecc).
Arriviamo al bivacco Davide, intorno al 20esimo km, completamente disidratate: nonostante il cielo nuvoloso, la giornata è caldissima e di acqua proprio non ne abbiamo trovata. Nella disperazione, attingiamo a una tanica appartenente a tale Claudio (grazie, Claudio! se leggi questo post, scrivici, così ti offriamo una birra!) prendendo solo il minimo sindacale per arrivare alla fine del giro.
Dal bivacco, il sentiero diventa un po’ più semplice. Continuiamo sempre più o meno in cresta, aggirando una cimetta non meglio identificata con qualche catena (non necessaria) e superando un traverso dove le catene risultano un gradito corrimano. In generale, il sentiero è in ottime condizioni: le protezioni non annullano le difficoltà intrinseche del percorso, ma di sicuro lo rendono il più sicuro possibile.
Alla bocchetta del Palone succede quello che è inevitabile in giornate così calde e umide: comincia a tuonare e cadono le prime gocce. La situazione non sembra tragica e valutiamo anche di proseguire, ma alla fine decidiamo, studiando le mappe di Strava, di dare una chance all’invitante val Torsolazzo che si apre sotto di noi e che dovrebbe riportarci a Corteno Golgi in tempi sicuramente inferiori a quelli che impiegheremmo a raggiungere Santicolo.
Seguiamo dunque i segnavia, ottimamente tracciati, del sentiero 134 e nel giro di pochi minuti cominciamo a congratularci tra di noi per la saggia decisione, visto che comincia prima a diluviare, poi a grandinare. Il sentiero, prima su pietraia, poi su pratone e infine nel bosco, non è mai troppo ripido e ci permette di scendere in tempi relativamente brevi e senza inconvenienti, a parte uno scivolone su una roccia bagnata.
Arriviamo infine a una strada sterrata, che imbocchiamo verso destra in direzione Sant’Antonio. Finalmente troviamo una fontana, dove possiamo dissetarci e sciacquare le ferite. In pochi chilometri raggiungiamo Sant’Antonio e, da qui, ripercorriamo i nostri passi fino alla macchina.