Alta via di Fundres (76 km – 5400 m D+)
Da Vipiteno a Brunico lungo un’alta via selvaggia, durissima, semplicemente spettacolare.
Primo giorno (40,5 km – 3600 m D+): Vipiteno / Sterzing – Malga Simile / Mahd (2011 m) – Lago Selvaggio / Wilder See – Forcella Rauhtal (2807 m) – Rifugio Bressanone / Brixen (2307 m) – Forcelle Steinkar, Keller e Donnel – Gaisscharte (2700 m) – Rifugio Ponte di Ghiaccio / Edelraut (2545 m).
Secondo giorno (35,5 km – 1800 m D+): Rifugio Ponte di Ghiaccio – Baita Gruipa – Baita Gambia – Forcella Sega Alta / Hohe Säge (2610 m) – Rifugio Lago di Pausa / Tiefrasten (2312 m) – Kleines Tor (2375 m) – Cima delle Dodici / Zwölferspitz (2351 m) – Cime di Putzen – Cime Valperna e Plattner – Monte Sommo / Sambock (2396 m) – Kofl – San Giorgio (Brunico).
Periodo: Agosto 2021
Partenza: Vipiteno
Arrivo: San Giorgio (Brunico)
Distanza: 76 km
Dislivello: 5400 m
Acqua: si trova regolarmente, tranne sulla lunga cresta tra Kleines Tor e il monte Sommo.
GPX (clic dx, salva link con nome)
Chiunque ci conosca sa che, a noi Martas, le cose facili non piacciono. E l’alta via di Fundres, una lunga e intensa traversata tra i monti dell’Alto Adige da Vipiteno a Brunico, non è stata certo una passeggiata. Il divertimento, d’altra parte, è proporzionale alle difficoltà superate – e noi ci siamo divertite tantissimo.
La logistica di questo giro non è banale: Vipiteno non è proprio dietro l’angolo e prenotare una stanza all’ultimo momento per il 12 agosto non è stato semplice, così come trovare posto al rifugio Ponte di Ghiaccio – per fortuna i gestori sono stati solidali con la nostra piccola impresa e ci hanno riservato due letti di emergenza, sapendo che non avevamo soluzioni alternative per percorrere l’alta via in due giorni. Il giro finisce poi a San Giorgio (Brunico) e da lì abbiamo dovuto prendere un autobus e due treni per tornare a Vipiteno.
Problematico è stato anche il reperimento di informazioni precise sul percorso. Le poche relazioni disponibili in italiano (solo a giro concluso ho visto che ci sono relazioni migliori in tedesco) riportano dislivelli errati – in particolare per il secondo giorno ci aspettavamo dai 1200 ai 1400 m di dislivello positivo, ma ne abbiamo fatti più di 1800! – e non rendono neanche vagamente la difficoltà di questa alta via che passa per pietraie, traversi esposti senza protezioni, torrenti da attraversare senza ponte. Tutti problemi che sappiamo affrontare, ma che non ci aspettavamo: dai siti italiani questo giro sembrava una passeggiata per famiglie, divisa in sei comode tappe, quando in realtà richiede esperienza e dimestichezza con un ambiente davvero selvaggio di alta montagna.
A chi volesse provare lo stesso percorso consiglio di tenere a mente quanto segue: 1) il primo giorno è durissimo, ma anche il secondo non scherza; 2) la parte più tosta del giro si affronta alla fine del primo giorno e culmina nella ferratina per scendere dalla forcella Gaisscharte, a 2700 m di altezza, quando ormai è sera e sulle gambe si hanno 3500 m di dislivello; 3) i tratti “corribili” su questa alta via sono pochi e per lo più si procede con lentezza esasperante; 4) per la maggior parte del percorso, compreso il rifugio Ponte di Ghiaccio, il telefono non prende; 5) l’alta via è bene indicata, ma la traccia gpx aiuta e, per avere dei riferimenti, conviene segnarsi i nomi tedeschi: quelli italiani spesso non sono riportati sui cartelli. Con la giusta preparazione, sarà un giro indimenticabile!
Si parte dunque da Vipiteno, dove si può lasciare l’auto nell’ampio parcheggio gratuito della stazione. Si attraversa la ferrovia dal sottopasso poco distante e si segue la ciclabile lungo la strada per Wiesen (Prati). In tutto sono un paio di chilometri in piano prima di cominciare la salita per la val di Vizze. Poco prima del cimitero si svolta a destra e si attraversa il Rio di Vizze; subito dopo il ponte si svolta ancora a destra e si trova sulla sinistra un sentiero in salita: l’avventura comincia qui! Le indicazioni da seguire sono sempre quelle per Pfunderer Höhenweg (alta via di Fundres in tedesco) e un inequivocabile cerchio bianco e rosso.
La salita non comincia proprio nel migliore dei modi: il bosco è umido, infestato da zanzare cattivissime e pieno di alberi caduti da scavalcare. Per di più dobbiamo superare recinzioni per il bestiame che sembrano fortezze, con tanto di filo spinato e nessun passaggio per gli escursionisti. Accaldate, punzecchiate e anche un po’ irritate mettiamo insieme i primi mille metri di dislivello nella speranza che il bosco finisca quanto prima e che cominci finalmente la vera montagna.
Superiamo delle baite e continuiamo verso Jagerjöchl, la prima delle tante forcelle da cui ci troveremo a passare in questo lungo viaggio. Per lo più, in realtà, le attraverseremo inconsapevolmente: se dalle nostre parti ogni bocchetta è identificata da un cartello con il nome e l’altitudine, qui le indicazioni sono più rare. Da Jagerjöchl, in ogni caso, siamo sopra i duemila metri e non scenderemo più sotto questa quota se non alla fine del percorso. Finalmente le zanzare ci lasciano in pace e la vista può spaziare sulle montagne che ci circondano.
Arrivate a una seconda forcella, che potrebbe essere il giogo di Trens, ma chi lo sa, troviamo le indicazioni per la malga Simile, il primo dei punti di appoggio per chi percorre l’alta via in sei giorni. Poco dopo vediamo dall’alto la malga, servita da una strada pastorale, e la raggiungiamo con una ripida discesa. Siamo, qui, a circa 15 km dalla partenza, troppo presto per fare una vera pausa. Ci limitiamo dunque a riempire le borracce al lavatoio fuori dalla malga e riprendiamo l’alta via in salita verso il lago Selvaggio (Wilder See).
Si guadagna quota senza grandi difficoltà, in un ambiente che a ogni passo diventa più bello. Attraversiamo ampie vallate verdeggianti e bucoliche, percorse da torrentelli, popolate da placide mucche e colonie di marmotte. Arriviamo a quota 2600 m e davanti a noi si apre lo spettacolo del lago Selvaggio, che costeggiamo continuando a salire.
Proseguiamo fino al punto più alto del percorso, la Forcella Rauhtal (2807 m). Solo qui abbiamo trovato qualche piccolo nevaio, comunque facilmente attraversabile senza ramponcini. Siamo circondate da cime rocciose, invitanti, e in effetti questo è uno dei pochi punti dell’alta via in cui incontriamo qualche escursionista.
Scendiamo, con attenzione ma senza grandi difficoltà, e raggiungiamo il rifugio Bressanone (Brixen). A questo punto abbiamo percorso 24 km e 2200 m di dislivello e, ingenuamente convinte che non ci manchino più di 5 ore, ci concediamo un panino con lo speck e un litro e mezzo di acqua frizzante – in attesa della meritata birra che ci aspetta al Ponte di Ghiaccio. Per chi non volesse acquistare l’acqua al rifugio, c’è anche anche una fontana dove si possono rabboccare le borracce.
In realtà la parte più lunga, difficile e faticosa di questo primo giorno deve ancora cominciare. Avevamo preventivato 10-11 ore in tutto, ma alla fine ce ne abbiamo messe più di 13 (12 in movimento). Dal rifugio Bressanone al Ponte di Ghiaccio non abbiamo incontrato un solo essere umano: solo mucche, pecore e una miriade di marmotte.
Dobbiamo superare quattro bocchette: prima Steinkarscharte, Kellerscharte e Donnelscharte, poi la più temibile Gaisscharte (2700 m). Prese singolarmente, non sono niente di eccezionale, a parte forse l’ultima che comprende una ripida parete da disarrampicare con l’aiuto di una catena – paragonabile alla bocchetta Roma nel giro del Kima, per intenderci. Questa ferratina è l’unico punto indicato sulle relazioni come moderatamente difficile (io toglierei il “moderatamente”). Ma la vera difficoltà sta non in un punto particolare, bensì nel mantenere sempre alta la concentrazione su pietraie e sentieri stretti, esposti e privi di protezioni, dove poche centinaia di metri richiedono spesso decine di minuti.
Dopo Steinkarscharte, dove tra l’altro prendiamo uno scroscio di pioggia e grandine, per fortuna di breve durata, scendiamo in una valle ampia e verdeggiante, ancora più suggestiva perché in tanto spazio non si vede alcun segno della presenza dell’uomo se non i bolli rotondi della nostra alta via. Diversi torrenti scendono dalle montagne circostanti e le mucche pascolano felici in questi enormi prati verdi.
I torrenti sono tanto belli visti dall’alto, quanto fastidiosi se vanno attraversati. In assenza di qualsivoglia forma di ponte, dobbiamo fare almeno tre guadi abbastanza impegnativi, seguite in ogni passaggio dallo sguardo imperturbabile delle mucche.
Anche qui perdiamo parecchio tempo a cercare, per ogni torrente, il punto migliore per attraversare. Avendo entrambe una caviglia fasciata causa scavigliate pregresse, cerchiamo in tutti i modi di evitare di bagnarci i piedi. Inutilmente: ci aspetta una pioggia torrenziale verso la fine della giornata, ma questo ancora non lo sappiamo!
Risaliamo e superiamo anche Kellerscharte: anche da qui si apre una vista semplicemente fantastica. Le difficoltà però aumentano: il sentiero è sempre più stretto, in molti punti esposto, e alle nostre spalle il cielo ha preso un colore inquietante.
Arriviamo infine alla forcella di Don, o Donnelscharte. Siamo qui a più di 35 km dalla partenza e avremmo dovuto già incontrare il bivacco Brenninger, che le relazioni davano a 34,5 km. Il fatto di non vederlo ancora, nemmeno in lontananza, ci preoccupa un po’: sia perché sta chiaramente per venire un temporale, sia perché ci viene il dubbio che il Ponte di Ghiaccio sia più lontano di quanto pensassimo. In realtà, scopriremo poi, era semplicemente sbagliata la posizione del bivacco nella relazione.
Finalmente, dopo 36 km e qualcosa, troviamo le indicazioni per il bivacco, che però non si trova sul percorso: bisogna scendere un po’ per raggiungerlo, i cartelli lo danno a 20′. Come potete intuire dall’espressione di Marta qui sopra, a questo punto siamo un po’ scoraggiate e valutiamo anche di scendere al bivacco e da lì a valle. Poi però ci facciamo coraggio: non piove ancora e decidiamo di proseguire per il rifugio Ponte di Ghiaccio, che non è mai indicato con questo nome, bensì con il corrispettivo tedesco (Edelrauthütte).
La salita verso l’ultima bocchetta di oggi, Gaisscharte, è lunga e faticosa, tutta su pietraia. I tuoni sono sempre più vicini, ma per ora non piove. Salendo, studio i massi più grossi per capire dove potremmo ripararci in caso il temporale ci sorprenda a questa quota. Le pecore che pascolano poco più in alto non sembrano porsi il problema, così decido di non preoccuparmi troppo nemmeno io.
L’atarassia delle pecore sembra portarci fortuna: arriviamo alla bocchetta senza che sia ancora caduta una goccia d’acqua. Meno male, penso quando mi affaccio dall’altra parte e butto un occhio sulla via di discesa.
La discesa in disarrampicata è ripida e impegnativa, ma si tratta di non più di una ventina di metri. Nel momento in cui tocchiamo terra, scoppia il temporale. Siamo state davvero fortunate: pochi minuti prima ci avrebbe sorpreso sulla ferrata.
Bagnate come pulcini, ma grate di averla scampata sulla parte più difficile, ci incamminiamo per la pietraia domandandoci quanto mai potrà mancare al rifugio, che ancora non si vede. Perdiamo un po’ di quota e ai massi bagnati e scivolosi si alternano tratti su erba bagnata e scivolosa: bene ma non benissimo. Poi all’improvviso, evidentemente stufa dei nostri piagnistei, Madre Natura decide di zittirci con l’arcobaleno più colorato e luminoso che ci sia mai capitato di vedere. Uno spettacolo che, peraltro, ci siamo godute solo noi di tutto il genere umano!
Finalmente compare sotto di noi il lago Ponte di Ghiaccio e, sul cocuzzolo a sinistra, l’omonimo rifugio. Bisogna faticosamente scendere e poi risalire per un centinaio di metri, ma ce l’abbiamo fatta! Non ci sembra vero di trovare la birra, una bella cena calda (cucina top!) e persino una Trockenraum (stanza asciugatura) da cui scarpe e zainetto sono poi riemersi completamente asciutti. Una bella notte di sonno più o meno ristoratore, colazione sostanziosa e via! si parte per la seconda giornata.
L’inizio è promettente: un comodissimo e corribilissimo sentiero, il paradiso dopo le pietraie di ieri, ci deposita addirittura su una strada carrozzabile, che percorriamo in discesa sempre seguendo i bolli dell’alta via. Cominciamo poi a risalire verso la forcella delle Vacche (Kuhscharte) e, da lì, proseguiamo più o meno in piano lungo un sentiero (non più corribile) che attraversa ripide valli, prati e torrenti, fino alla baita Gruipa.
La tappa successiva è la baita Gambia, ma lì non abbiamo trovato acqua: conviene quindi rabboccare le borracce alla fontana della baita Gruipa. Il sentiero tra le due malghe è facile e ci permette di procedere di buon passo, se non proprio di corsa. Dalla baita Gambia ricominciamo a salire verso la Forcella Sega Alta (Hohe Säge) a 2610 m, il punto più alto di questa seconda parte di alta via, passando dal Passenjoch a 2440 m. Da Passenjoch a Hohe Säge i pascoli cedono di nuovo il passo a pietraie e laghetti alpini.
Continuiamo a guadagnare quota, chiedendoci da dove mai potremo passare per superare una corona di montagne dall’aspetto davvero severo. Il sentiero, in realtà, è ripido ma non difficile.
Da qui vediamo il laghetto della Pausa, prossima tappa dell’alta via, e l’omonimo rifugio, che in tedesco si chiama Tiefrastenhütte. Si scende da una scalinata ripida e vertiginosa, dove incontriamo diversi escursionisti che probabilmente arrivano dal rifugio.
Per la prima volta dalla Val di Vizze il telefono torna a dare segni di vita. Al rifugio prendiamo una coca e ci facciamo preparare un panino da portare via. Abbiamo percorso 15 km e circa 800 m di dislivello, per cui siamo (erroneamente) convinte che la salita sia quasi finita. Scendiamo lungo il facile e affollato sentiero per il rifugio fino a trovare sulla sinistra le indicazioni dell’alta via e quelle per il sentiero 5A. All’inizio si tratta dello stesso sentiero, poi al bivio si abbandona il 5A e si prosegue in salita per l’alta via.
Continuiamo a salire verso il passo che si vede in lontananza verso sinistra, Kleines Tor. Per arrivarci attraversiamo una valle dove scorre qualche ruscello e troviamo un provvidenziale tubo da cui escono poche gocce d’acqua. Armate di pazienza, ci prendiamo tutto il tempo necessario per riempire le borracce, e per fortuna: ancora non lo sappiamo, ma per più di 10 km non troveremo altre fonti d’acqua. Il sentiero sale poi verso sinistra e in breve raggiungiamo il passo, da cui l’alta via prosegue in direzione Zwölferspitz (Cima delle Dodici), dove comincia la lunga cresta che percorreremo fino al monte Sommo.
Si tratta ora di superare una cimetta dopo l’altra, su facile sentiero – a parte pochi tratti su roccette – fino al monte Sommo, dove la salita diventa invece un po’ più tecnica. Siamo circondate da un ambiente bellissimo, che non ci godiamo appieno solo per il fatto che ci aspettavamo meno salita.
Il sentiero lungo le creste disegna un ampio arco verso destra, che culmina appunto nel monte Sommo. Questa è davvero l’ultima salita! In basso, a sinistra rispetto alla cima, si vede finalmente Brunico.
L’ultimo tratto di salita in alcuni punti è un po’ esposto, altro dettaglio mai menzionato nelle relazioni. Arriviamo in cima stanche e assetate, con 1800 anziché 1200 m di dislivello sulle gambe, brontolando contro chi ha scritto relazioni così superficiali. Ma il genere umano subito si riscatta grazie a una coppia gentilissima che, salita dalla parte opposta, ci offre dell’acqua e ci rassicura sulla presenza di una fontana un po’ più avanti.
Cominciamo a scendere verso San Giorgio: il sentiero è lungo, ma tutto facile e corribile. Ben presto troviamo la fontana che ci è stata indicata, una vera benedizione dopo diverse ore al sole e al vento. Bisogna seguire le indicazioni per Kofl e, da qui, il sentiero 66 per San Giorgio. Non sappiamo esattamente che cosa indichi il “Grosse Pippe” che leggiamo su un cartello in legno, ma si sposa bene con il nostro stato d’animo dopo 7 km di discesa nel bosco.
Sempre seguendo il sentiero 66 arriviamo a San Giorgio, dove si segue la strada verso il torrente Aurino; dopo il ponte a destra troviamo la fermata dell’autobus (il biglietto si fa a bordo) che ci porterà alla stazione di Brunico, in tempo per prendere il treno delle 17,31, nonché una piazzetta con fontana per rinfrescarci un po’ prima di prendere i mezzi (per fortuna ci sono social distancing e mascherine). Ecco, l’alta via finisce ufficialmente qui. Per chi volesse vedere le nostre facce da Pfunderer Höhenweg, metto la foto qui sotto. Tschüss!
Bivacco Kima e bocchetta Roma (33 km – 2100 m D+)
11 Agosto 2022 by marta • Valtellina Tags: alta via, bivacco kima, bocchetta roma, corsa in montagna, filorera, kima, predarossa, rasica, rifugio ponti, sentiero roma, skyrace, trail running, val cameraccio, val di mello, val masino, valtellina • 0 Comments
Con gli imprevisti tipici del sentiero Roma, è uscito un giro diverso da quello che avevo in mente, ma comunque un gran bel giro!
Periodo: Agosto 2022
Partenza: Filorera (841 m)
Distanza: 33 km
Dislivello: 2100 m
Acqua: fontane solo in discesa, ma ci sono tanti ruscelli!
GPX (clic dx, salva link con nome)
“Mi raccomando, non perdetevi” (cit. signora Luisella, h 7:00).
Detto, fatto: h 9:00, perse. Ecco il racconto di un’ordinaria giornata sul sentiero Roma con Lucia.
Attenzione: percorso adatto solo a escursionisti/runner più che esperti, e occhio al meteo!
L’idea era quella di risalire la val di Mello, andare a intercettare il sentiero Roma nell’austera val Cameraccio, seguire il percorso del Kima (per chi fosse interessato, ecco il link dell’epico giro provato nel 2020) giù per il passo Cameraccio, superare il passo Torrone, raggiungere il rifugio Allievi e da lì scendere per la val di Zocca fino a San Martino. Per aumentare il chilometraggio ed evitare il caos di San Martino Beach, dove orde di bagnanti rendono ormai invivibile la bella val di Mello, abbiamo deciso di partire da Filorera, dove i parcheggi sono gratuiti e le pozze meno affollate.
A Filorera lasciamo l’auto lungo il torrente e prendiamo la pista ciclo-pedonale che in 2 km ci porta a San Martino. Percorriamo così a ritroso gli ultimi 2 km del Kima, nota skyrace a cui Lucia è iscritta per l’ennesima volta e che si svolgerà tra poco, nell’ultimo weekend di agosto. Il sentiero Roma in queste settimane è affollatissimo di atleti che si preparano appunto a questa gara, forse la più selettiva nel panorama dello skyrunning italiano.
Da San Martino prendiamo il sentiero che risale la val di Mello a destra del torrente: dall’altra parte c’è la strada, molto più affollata. Sono le 7 e mezza del mattino e la valle è ancora quieta, complice probabilmente il cielo nuvoloso. Meteo non ideale per il sentiero Roma, ma di sicuro perfetto per la val di Mello!
Sono circa 5 km di sentiero morbido e corribile, prima del vertical che ci aspetta da Rasica al sentiero Roma. Il bosco qua e là si apre lasciando intravedere le famose pozze del torrente Mello, dove si riflettono le imponenti pareti di granito che racchiudono la valle.
Attraversiamo infine il torrente e seguiamo le indicazioni per Rasica, senza prendere il sentiero che sale verso la val di Zocca e il rifugio Allievi. Tra le valli laterali della val di Mello, da cui si può accedere al sentiero Roma, la val di Zocca è l’unica un po’ battuta, con un sentiero degno di questo nome. Tutte le altre, inclusa la val Cameraccio dove ci accingiamo a salire, sono ripide e selvagge, frequentate quasi esclusivamente dagli animali. Il telefono non prende quasi mai e i “sentieri” non sono altro che sequenze di bolli tra l’erba alta, spesso poco visibili. Insomma, un ambiente impervio e ostile, ma proprio per questo estremamente affascinante.
Raggiungiamo Rasica e siamo ormai alla fine della val di Mello. Abbiamo fatto solo 500 m di dislivello in 7 km e non vediamo l’ora che il sentiero si impenni un po’, in modo da avere una buona scusa per smettere di correre. Il bivacco Kima da qui è indicato a 7 ore di cammino, forse un po’ eccessivo anche per i tempi CAI… ci ho messo 7 ore a fare tutto il giro, comprese le ricerche di Lucia!
Ci inoltriamo nel bosco dove incontriamo due signori in cerca della val Torrone: con una certa convinzione li rimando indietro, per poi ricordarmi – troppo tardi – che per la selvaggia val Torrone si segue per un tratto lo stesso nostro sentiero e si prende poi un sentierino secondario verso sinistra. Spero che non mi abbiano odiato troppo!
Fino alla casera di Pioda il sentiero è in ottime condizioni. Oltre la casera, ringraziamo solo che prima di noi siano passate delle mucche, altrimenti non vedremmo neanche la traccia nell’erba alta. La salita è ripida e faticosa, tra zolle di terra che si staccano, rigagnoli da attraversare, erbacce e arbusti che ci graffiano le gambe. Lucia è parecchio avanti, mi fermo un paio di volte per foto e spuntino e tanto basta per perderla completamente di vista.
Man mano che guadagno quota la valle si apre e, nonostante la nebbia, mi perdo nella contemplazione di questo ambiente unico, delle aspre pareti di granito che svettano tutto intorno, della solitudine e del silenzio interrotto solo dai fischi delle marmotte. Arrivo a un bivio: a destra si va per la Ponti (indicata da una scritta sulla pietra), a sinistra per il passo Cameraccio (non indicato, ma è qui che dobbiamo dirigerci). Ora, da che parte sarà andata Lucia? Provo a chiamarla, aspetto un po’, riprovo, ma niente.
Bon, la direzione giusta è a sinistra, ci sono i bolli e per di più l’erba è calpestata. Decido di andare a sinistra. (Se rifate il giro, naturalmente vi conviene prendere il sentiero per la Ponti che vi fa tagliare un po’ di strada rispetto alla mia variante).
Non è stata Lucia a calpestare l’erba lungo il mio percorso e me ne rendo conto quando mi trovo muso a muso con una mucca, sbucata come un fantasma dalla nebbia che ormai pervade completamente la valle. Il nebbione non è anomalo da queste parti, è anzi una costante e rappresenta il primo fattore di rischio sul sentiero Roma.
I bolli e gli ometti qua e là si perdono, o quantomeno io li perdo di vista, ma riesco sempre a individuarne uno in lontananza per capire almeno indicativamente in che direzione muovermi. Un po’ per volta i pascoli cedono il posto alla pietraia: ormai non deve mancare molto al sentiero Roma, intorno ai 2500 m di quota.
Intercetto l’alta via e mi trovo davanti le indicazioni per il bivacco Kima, verso destra. Per il passo Cameraccio bisognerebbe prendere il sentiero Roma verso sinistra, ma so per certo che Lucia non ci sarebbe andata senza aspettarmi. La mia speranza è di trovarla al bivacco Kima e, a quel punto, mi viene l’idea di proseguire poi insieme verso la bocchetta Roma e il rifugio Ponti.
Al bivacco incontro diverse persone che stanno provando il giro del Kima, ma nessuna traccia di Lucia. Che fare? Rimanere qui è inutile, perché è evidente che ormai ci siamo mancate: al bivio deve avere preso l’altro sentiero, che non ho idea di dove porti (porta direttamente al bivacco Kima, come mi spiegherà poi Lucia). Se è scesa a cercarmi, con il ritmo che tiene in discesa difficilmente potrei raggiungerla. Senza contare che piuttosto che tornare da dove sono salita preferirei fare tutto il sentiero Roma fino alla Omio!
Lascio detto a tutti quelli che incontro di riferire a Lucia, nel caso la vedano, che sto bene e che ci rivedremo alla macchina. Non sono troppo preoccupata, Lucia in montagna si muove meglio degli stambecchi! Spero per lei che possa ancora unirsi a qualcuno per provare il passo Cameraccio, uno dei punti più tosti della gara. Da parte mia, so che il modo più veloce per tornare a Filorera è superare la bocchetta Roma, che ogni tanto si intravede tra le nuvole, e scendere al rifugio Ponti. Si tratta del rifugio più vicino e, avendo perso la socia, preferisco tornare il prima possibile nella civiltà e recuperare l’uso del telefono.
Nel 2020 aveva nevicato parecchio e, quando nel mese di luglio provai il giro del Kima, la neve arrivava praticamente all’altezza delle catene più basse: ricordo che appena scesa dalla bocchetta calzai i ramponcini e mi incamminai – con attenzione, ma senza grandi problemi – seguendo le tracce di chi ci aveva preceduto sul nevaio. Oggi scopro che la parte più brutta della bocchetta Roma è quella che allora era coperta dalla neve: un pendio ripido e scosceso con sassi di ogni dimensione che si muovono a ogni passo. Con delicatezza, cercando di non provocare frane, raggiungo le prime catene e da qui è tutto facile: questo tratto è molto più simpatico percorso in salita!
Scollino e mi trovo nell’enorme pietraia dell’alta valle di Predarossa. La bocchetta si trova a poco meno di 2900 m e l’ambiente, anche qui, è severo. Bisogna fare attenzione a non perdere di vista i bolli, che rimangono sempre alti poco sotto le creste. Il telefono risorge (tipo per mezzo minuto) e mi arrivano dei messaggi, tra cui una chiamata persa di Lucia. Provo a richiamarla ma ora è lei ad avere il telefono spento. Niente, scendo alla Ponti e chiedo consiglio a Eleonora, l’esperta rifugista. Secondo lei la cosa più probabile è che Lucia sia scesa a cercarmi e sia rimasta in mezzo alla val di Mello, dove non c’è campo. Rassicurata, continuo la discesa, ora su facile sentiero, e mi trovo nella bucolica valle di Predarossa.
Seguo il corso del torrente e raggiungo il parcheggio, da dove mi limito a seguire la lunga, noiosa ma rassicurante strada asfaltata in discesa. Nella parte alta ci sono dei tagli su sentiero, che evito perché ho le gambe distrutte e preferisco una corsa tranquilla senza colpi, mentre nella parte più bassa il sentiero è fuori uso da anni e bisogna per forza seguire la strada. Ogni pochi minuti provo a far partire una chiamata e finalmente il telefono di Lucia prende: sta scendendo da San Martino, per fortuna sana e salva! Percorro per inerzia gli ultimi chilometri di strada e finalmente la raggiungo, con le gambe a mollo nella pozza accanto a cui abbiamo parcheggiato.
La sua mattinata è andata così: al bivio ha preso il sentiero per la Ponti, senza vedere che ce n’era un altro; il suo sentiero portava direttamente al bivacco Kima, che quindi ha raggiunto molto prima di me; non vedendomi arrivare, è scesa a cercarmi; tornata senza successo in val di Mello, ha pensato di salire all’Allievi (si è presa pure un paio di coroncine Strava lungo la salita) per vedere se fossi finita lì; all’Allievi non c’ero e non ha incontrato nessuna delle persone a cui avevo affidato messaggi, per cui è scesa di nuovo e si è rimessa in marcia verso Filorera. Tutto è bene quello che finisce bene, ma sempre occhio alla nebbia e ai bivi in alta montagna!