In Valmalenco sulle tracce della VUT (92 km – 5900 m D+)
Anello di due giorni da Chiesa in Valmalenco lungo il percorso della VUT. Primo giorno: sentiero Rusca – Piasci – rifugio Bosio-Galli (2086 m) – laghetti di Sassersa – passo Ventina (2765 m) – rifugi Ventina e Gerli-Porro – Chiareggio – rifugio Longoni (2450 m) – Lago Palù – rifugio Motta. Secondo giorno: Alpe Musella – valle di Scerscen – rifugio Marinelli Bombardieri (2813 m) – rifugio Carate (2636 m) – forcella di Fellaria (2787 m) – rifugio Bignami (2401 m) – Campomoro – rifugio Cristina (2287 m) – Alpe Cavaglia – Caspoggio – Chiesa.
Periodo: Agosto 2020
Partenza: Chiesa in Valmalenco (960 m)
Distanza: 92 km
Dislivello: 5900 m
Acqua: tra fontane, ruscelli e rifugi si trova abbastanza facilmente.
GPX (clic dx, salva link con nome)
L’alta via della Valmalenco, nota a chiunque pratichi o segua la corsa in montagna per la celebre gara che vi si svolge nel mese di luglio, è un percorso che sarebbe riduttivo definire “bello”: passando per alpeggi bucolici, selvagge pietraie, laghetti alpini, rifugi arroccati in posizioni fantastiche, valli glaciali con scorci su vette innevate e quanto resta dei ghiacciai, a cui le foto davvero non rendono giustizia, non si può fare altro che rallentare il passo e godersi l’incredibile varietà e la struggente bellezza di questi posti. Per fortuna il percorso, per quanto faticoso, è quasi tutto escursionistico e permette spesso di camminare in estasi con il naso per aria!
Il team delle Martas, fedele al principio per cui chi va piano va lontano, ha suddiviso il giro in due tappe: da Chiesa al rifugio Motta (45 km – 3750 m D+) e dal Motta a Chiesa (47 km – 2150 m D+). Procedendo a passo tranquillo ma costante, corricchiando solo in discesa, abbiamo impiegato circa 12 ore per la prima tappa e 11 per la seconda. Diversi tratti semplici e pianeggianti si potrebbero certamente percorrere più in fretta, ma davanti a tali spettacoli della natura vale ben la pena di “perdere tempo” a guardarsi intorno. O almeno questo è ciò che pensiamo noi.
Per chi volesse spezzare il giro in tre tappe più brevi, si può pensare di fermarsi una notte a Chiareggio e un’altra al rifugio Marinelli o al Carate. I punti di appoggio non mancano lungo il percorso, e ovunque troverete persone che conoscono a fondo queste montagne e che sapranno darvi informazioni utili. L’alta via, poi, è davvero ben segnata e la traccia gpx serve a poco – è utile nei pochi tratti fuori dal percorso di gara, quindi all’inizio, alla fine e al Motta, oltre che all’Alpe Musella, quando l’alta via si sdoppia e si rischia di sbagliare strada.
Per quanto riguarda il materiale: il rifugio Motta fornisce lenzuola, asciugamano e bagnoschiuma, per cui abbiamo potuto viaggiare davvero leggere; i bastoncini sono risultati molto utili per affrontare il dislivello del primo giorno; due borracce da mezzo litro a testa sono state sufficienti nonostante il caldo, perché tra fontane e ruscelli l’acqua si trova abbastanza facilmente. Abbiamo portato un paio di ramponcini, che non sono serviti: si tenga presente, però, che a luglio o anche a inizio agosto la situazione neve può essere molto diversa.
Abbiamo lasciato la macchina a Chiesa in Valmalenco, davanti al centro sportivo Vassalini. Da qui si percorre la pista ciclabile verso valle fino a intercettare il sentiero Rusca, che segue il corso del torrente Mallero. I primi 4 km sono in leggera discesa e si possono correre senza fatica, guadagnando un po’ di tempo.
Prima di arrivare a Torre di Santa Maria, si prende il sentiero in salita che attraversa il piccolo abitato di Dosso e taglia poi i tornanti della strada, guadagnando velocemente dislivello. Da qui si trovano i segnali gialli della VUT e i catarifrangenti, visto che il tratto iniziale della gara si corre al buio. Oltre a queste indicazioni, possiamo seguire quelle per il rifugio Bosio (senza tenere conto dei tempi di percorrenza, davvero poco realistici).
Superata l’alpe Son – che si riconosce senza possibilità d’errore per il nome scritto su un cartello in legno – si segue il sentiero in leggera discesa verso sinistra; si attraversa il torrente e si riprende a salire nella pineta, su un sentiero facile e ombreggiato, mai troppo ripido. Si passa poi per Piasci, graziosissimo alpeggio, da attraversare tutto in salita per poi continuare verso destra per il rifugio Bosio.
La pendenza diminuisce, mentre il sentiero tra prati e bosco diventa sempre più bello – o almeno così è sembrato a noi. Finalmente si arriva al rifugio: da qui si attraversa il torrente, seguendo il triangolo giallo rovesciato dell’alta via e le indicazioni per Primolo. La prossima tappa è il passo Ventina, ma da qui i cartelli non lo indicano ancora. Proseguiamo su strada carrozzabile e poi su sentiero in discesa, perdendo un po’ di dislivello e superando altri alpeggi. All’alpe Giumellino prendiamo il sentiero in salita a sinistra, seguendo per il passo Ventina, ora indicato.
L’ambiente diventa più selvaggio man mano che ci allontaniamo dal bosco per inoltrarci nella pietraia rossa che sovrasta l’alpe Pradaccio e Primolo – entrambi visibili più in basso. Il passo Ventina – che poi sarebbe più accurato definire “i passi Ventina”, al plurale, visto che per ben tre volte si arriva a una bocchetta nella speranza che sia quella definitiva – è il punto più alto del primo giorno, a 2765 m di quota. Vi si arriva dopo una lunga ma divertentissima salita per roccette, passando per i laghi di Sassersa.
Una volta al passo, con la val Sassersa alle spalle, la vista si apre sulla val Ventina. A sinistra, il Pizzo Rachele nasconde il Cassandra, mentre possiamo ammirare il Disgrazia, il Pizzo Ventina e quanto resta dell’omonimo ghiacciaio. Il Disgrazia, in particolare, si vedrà sempre meglio nel corso della ripida discesa verso i rifugi Ventina e Gerli-Porro.
Arrivando ai rifugi, l’impressione è quella (non proprio gradevole) di essere tornati nella civiltà: superando orde di escursionisti lungo la mulattiera in discesa, ben presto arriveremo a Chiareggio. Da qui bisogna imboccare la strada principale verso destra fino al ponte sul torrente Nevasco, al momento aperto solo di giorno e super controllato dopo la recente frana (agosto 2020). Il sentiero per il rifugio Longoni, tappa successiva del giro, è stato distrutto dalla frana nel tratto in cui appunto supera il torrente. Bisogna quindi utilizzare il ponte e, subito dopo, seguire i nastri bianco-rossi in salita nel bosco fino a ricongiungersi al sentiero.
Dopo un tratto di salita nel bosco, il paesaggio torna ad aprirsi tra ampi pascoli, roccette, ruscelli e cascate. La vista sul Digrazia, da qui, è semplicemente spettacolare. Anche se il segnavia da seguire è sempre il triangolo giallo rovesciato dell’alta via, ci troviamo ora sul sentiero Bernina Sud, che seguiremo fino al Longoni e che riprenderemo nella seconda tappa dalla valle di Scerscen.
Dal rifugio Longoni, arroccato a 2450 m, bisogna seguire per il lago Palù – anche qui, i tempi di percorrenza indicati sono davvero abbondanti. Un primo tratto di discesa su sentiero ci porta a una strada carrozzabile, che va imboccata verso sinistra in leggera salita. Si prosegue più o meno in costa e sempre in costa bisogna rimanere, senza prendere i sentieri in discesa verso l’alpe Entova né quelli in salita verso l’omonima bocchetta. Le indicazioni qui non sono particolarmente accurate.
La strada lascia il posto a una selvaggia pietraia mentre cambiamo versante della montagna. Questa parte dell’alta via è poco battuta e ci costringe a procedere lentamente, ma ormai quasi tutta la salita è alle spalle e bisogna solo scendere fino al lago Palù, che finalmente compare sotto di noi.
La VUT passa per il rifugio Palù ed è qui che avremmo pernottato, se non fosse stato chiuso. Su consiglio del rifugista ci siamo rivolte al Motta, che si trova poco più avanti, vicino alle piste da sci. Più che un rifugio, sembra un albergo di quelli di lusso, da sciatori: camera privata con bagno, pulitissima e profumata, e ottima cena alla carta. Il conto, alla fine, non è stato molto più alto di quello di un rifugio con camerata e bagni comuni. Ma la cosa più bella è stata l’accoglienza: tutto il personale del Motta si è fatto in quattro per sistemarci, prepararci la cena, darci informazioni con una gentilezza che, dopo 12 ore in giro per i monti, ci ha riscaldato il cuore quasi quanto la meritatissima birra!
Dopo una notte di sonno rigenerante, disturbata solo dalle risa sguaiate di attempati escursionisti che chiaramente non avevano la sveglia alle 6, siamo ripartite per la seconda metà del percorso – consapevoli che il grosso del dislivello era già fatto, ma che la giornata sarebbe stata lunga, se non altro per il chilometraggio. Dal Motta si risale la pista da sci e si scende verso il lago di Campomoro, ben visibile di fronte a noi, fino a incontrare sulla sinistra un sentiero che si addentra nel bosco senza alcuna indicazione se non quella di un percorso per mountain bike. Utile, qui, la traccia gpx, almeno per sapere dove svoltare. Proseguendo lungo questo sentiero, ritroveremo i segnali della VUT: siamo di nuovo sul percorso.
Dopo una bella e facile discesa, il sentiero riprende a salire fino all’alpe Musella e al rifugio Mitta. Da qui, ignorando i cartelli che danno il rifugio Marinelli tutto dritto a 2h30′, dobbiamo prendere il sentiero a sinistra, indicato come variante, per la valle di Scerscen e il rifugio Marinelli (4h40′). Non spaventatevi, anche camminando ci vuole molto meno. Entrambi i sentieri sono segnati come alta via con il triangolo giallo rovesciato, ma per fare il giro completo della VUT bisogna prendere appunto la variante. Attenzione anche a un secondo alpeggio, dove si arriva poco dopo il bivio: il sentiero, un po’ nascosto, prosegue tutto a sinistra dopo avere superato una recinzione.
Dopo un tratto nel bosco, ci addentriamo nella bellissima valle di Scerscen, la parte del giro che in assoluto ci è piaciuta di più, anche perché non vi abbiamo incontrato anima viva. Si segue il corso del torrente in un ambiente sempre più selvaggio, che a ogni svolta del sentiero si apre a mostrare una nuova vetta, un nuovo pezzo di ghiacciaio.
Le foto davvero non bastano a descrivere la meraviglia di questa valle, la vista sulle vette innevate e sui ghiacciai di Scerscen, il fragore delle cascate e del torrente che ci ha accompagnato per tutto il tempo. Tra l’altro, siamo tornati sul sentiero Bernina Sud. Cambiamo valle e arriviamo al rifugio Marinelli Bombardieri (2813 m), punto più alto dell’intero percorso. Anche da qui la vista non è male: di fronte, le cime di Musella e l’omonimo laghetto, a sinistra Punta Marinelli (3182 m) e il gruppo del Bernina, a destra la Vedretta di Scerscen Superiore.
Si prosegue ora in discesa verso il rifugio Carate. Abbandonando il sentiero principale, molto frequentato, abbiamo seguito quello più alto e forse un poco più faticoso che passa per il monumento al V Alpini. Da qui, un bel traverso panoramico ci porta proprio sopra il Carate.
Il tratto Carate – Bignami è altrettanto affollato, soprattutto nel mese di agosto e in questa pazza estate 2020, in cui tutti sono improvvisamente diventati montanari. Rimpiangeremo un po’ la pace e il silenzio della valle di Scerscen, ma l’ambiente anche qui è talmente spettacolare che nemmeno gli schiamazzi di certi escursionisti riescono a intaccarne la bellezza.
Avvicinandoci alla forcella di Fellaria (2787 m) abbiamo trovato gli ultimi residui di neve – fino a qualche settimana prima di sicuro ce n’era molta di più. Si prosegue in salita per facili e divertenti roccette fino alla bocchetta, da dove si apre una vista spaziale sul ghiacciaio di Fellaria e sul lago sottostante.
Comincia ora una lunga discesa, all’inizio piuttosto ripida, poi decisamente facile e corribile, fino al rifugio Bignami.
Anche questo rifugio, facilmente raggiungibile da Campomoro, attira frotte di escursionisti: lo abbandoniamo in fretta, prendendo la facile mulattiera in discesa lungo il lago di Gera e attraversando poi la diga per scendere dall’altra parte, sempre su stradina corribile e poi su asfalto, costeggiando il lago di Campomoro. È tristemente ironico osservare dall’alto la foresta di auto parcheggiate a duemila metri di altezza per permettere ai turisti di andare a vedere con poca fatica il ghiacciaio che si sta sciogliendo a causa del cambiamento climatico.
Una volta a Campomoro, si prende il sentiero in salita a sinistra per il rifugio Zoia – che si raggiunge in pochi minuti – e per il rifugio Cristina. Il sentiero, pur non spettacolare come quelli da cui siamo passati finora, è molto grazioso e, tra falesie, boschi e alpeggi, ci porta al Cristina relativamente in fretta.
Le indicazioni da seguire, adesso, sono quelle per l’alpe Cavaglia, che sembra lontanissima e in effetti lo è. Quest’ultima parte del giro è davvero lunga e faticosa, anche se rimane ben poca salita da fare. Dopo tutti questi chilometri, gli ultimi dieci, anche se in discesa, sembrano non finire mai. Dall’alpe Cavaglia si prosegue in direzione Caspoggio, passando per il graziosissimo alpeggio di Pianaccio. Da qui consiglio di seguire la traccia gpx, perché il percorso di gara prosegue verso Lanzada, mentre noi dobbiamo scendere a Caspoggio, altro borgo molto bello e pittoresco, e da qui verso il cimitero, per prendere il sentiero in discesa per Chiesa. Alla fine di questo sentiero sbucheremo sulla ciclabile che ci riporterà all’auto. Dopo questo viaggio, sembra incredibile che l’abbiamo parcheggiata lì solo la mattina precedente!
Valmalenco e Val Poschiavina (48,5 km – 2750 m D+)
5 Luglio 2021 by marta • Valtellina Tags: alpe gembré, alpe musella, alta via, bignami, campomoro, corsa in montagna, diga, fellaria, ghiacciaio, lago di gera, percorso trail, poschiavo, rifugio cristina, trail running, val poschiavina, valmalenco, vut • 0 Comments
Un bellissimo “lungo” ad alta quota tra vette maestose, nevai, cascate e laghetti alpini.
Chiesa in Valmalenco – Alpe Cavaglia – Alpe Prabello (2225 m) – Passo di Campagneda (2615 m) – Val Poschiavina – Alpe Gembré – Rifugio Bignami (2401 m) – Diga di Campo Moro – Alpe Musella (2021 m) – Alpe Campascio (1844 m) – Dosso dei Vetti – Cima Sassa (1721 m) – Ponte – Chiesa in Valmalenco
Periodo: Luglio 2021
Partenza: Chiesa in Valmalenco (960 m)
Distanza: 48,5 km
Dislivello: 2750 m
Acqua: si trovano fontane a tutti gli alpeggi, oltre a numerosi ruscelli
GPX (clic dx, salva link con nome)
Quando penso a un luuungo giro estivo, il primo posto che mi viene in mente è la Valmalenco, con la sua fantastica alta via che a ogni svolta del sentiero offre un nuovo scorcio più bello del precedente – e dove tra poco si svolgerà la famosa VUT. Lo scorso anno con Marta avevo provato l’intero percorso di gara: questa volta ho deciso invece di percorrere un tratto dell’alta via dove la gara non passa, vale a dire il passo di Campagneda e la meravigliosa Val Poschiavina.
Il mio punto di partenza è il centro sportivo Vassalini a Chiesa in Valmalenco. Ricordando bene l’infinita discesa dal rifugio Cristina all’alpe Cavaglia e da qui a Chiesa, faticosissima dopo il lungo giro dell’anno scorso, decido di togliermi subito quel tratto fastidioso andando a imboccare l’alta via in senso opposto al percorso della VUT. Dal centro sportivo prendo dunque la ciclabile in direzione Lanzada e Caspoggio, attraversando la statale (sottopasso) e poi il torrente Lanterna. Sulla destra trovo subito il sentiero per Caspoggio e, con una breve salita, arrivo in paese. Proseguo lungo la strada, sempre in salita, e vado a prendere la mulattiera per Pianaccio.
Un sentiero taglia i tornanti della mulattiera, permettendomi di guadagnare quota velocemente. Una volta a Pianaccio trovo diverse indicazioni: un sentiero a sinistra porta direttamente al rifugio Cristina, ma io ho intenzione di percorrere l’alta via e seguo dunque i cartelli per Piazzo Cavalli (sentiero 305, indicato anche come AV).
Superato l’alpeggio, si prosegue lungo la strada sterrata in direzione della seggiovia. Dopo qualche tornante, si troverà sulla sinistra il sentiero, ben segnalato da bolli bianco-rossi, e si continua a salire fino a raggiungere le piste da sci a Piazzo Cavalli.
A questo punto la cosa più logica è continuare lungo l’alta via, chiaramente indicata non solo con i bolli bianco-rossi, ma anche con un triangolo giallo rovesciato, in direzione Alpe Cavaglia. Io invece, poco astutamente, ho seguito il sentiero per Crap, che rimane poco più basso rispetto a quello principale, e mi è poi toccata una bella ravanata nel bosco per tornare sulla retta via. Raccomando quindi, in questo punto, di seguire i cartelli e non la mia traccia gpx.
Recuperato il sentiero corretto dopo l’excursus nel bosco, mi guardo intorno e mi rendo conto che questo tratto di alta via è molto più bello di quanto lo ricordassi. Raggiunti i 2000 m di quota, la salita si addolcisce, il bosco si dirada e spuntano le montagne: tra i rododendri in fiore, uno spettacolo che ogni anno riesce a sorprendermi come la prima volta, si comincia a intravedere il ghiacciaio Fellaria, mentre alle mie spalle, maestoso, troneggia il Disgrazia.
Il sentiero spiana mentre mi avvicino all’Alpe Cavaglia, che poi consiste solo in un paio di antiche baite ormai in disuso. In fondo a destra svetta il Pizzo Scalino, la cui presenza mi accompagnerà per tutta la prima parte del giro fino al passo di Campagneda.
Si prosegue con qualche saliscendi in un ambiente sempre più spettacolare fino all’alpeggio successivo, l’Alpe Acquanera. Questo alpeggio, a differenza dell’Alpe Cavaglia, è ancora utilizzato, con mucche al pascolo e pastori al lavoro. Superando l’ultima baita si troverà anche una fontana.
Circa 3 km di saliscendi mi separano ora dall’Alpe Prabello (2225 m), dove si trova il rifugio Cristina. Li percorro abbastanza velocemente e ben presto arrivo in vista del santuario Madonna della Pace.
Anche qui si può fare rifornimento d’acqua. Passando al mattino presto ho trovato l’alpeggio ancora addormentato, ma tenete conto che all’ora di pranzo il rifugio e gli ampi prati richiamano numerosi escursionisti.
Anche qui, sentitevi liberi di ignorare la mia traccia e di seguire i cartelli: l’alta via e il passo di Campagneda sono infatti chiaramente indicati. Io ho istintivamente continuato a seguire a ritroso il percorso della VUT lungo la strada sterrata che scende verso Campo Moro, salvo poi deviare a destra ritrovando le indicazioni per il passo di Campagneda.
Dopo un tratto di discesa, la mia strada sterrata riprende a salire e torno sull’alta via, con l’imponente Pizzo Scalino come presenza costante alla mia destra. Comincia ora la parte più bella del giro: accompagnata dai fischi delle marmotte salgo sempre più in alto, superando i laghi di Campagneda, che offrono scorci davvero meravigliosi, e incontrando i primi piccoli nevai verso quota 2400 m.
Per quanto il sentiero sia facile e l’ambiente assolutamente non pericoloso, consiglio di utilizzare la traccia gpx. In alcuni punti, infatti, i bolli si perdono nell’erba o nella neve ed è comodo avere un riferimento per orientarsi.
Poco prima di raggiungere il passo trovo delle roccette attrezzate con una catena e persino delle staffe per i piedi, che mi sembrano un po’ eccessive vista la quantità di appigli naturalmente offerti dalla roccia.
Il passo di Campagneda (2615 m), più che una bocchetta, si rivela un ampio e panoramico pianoro roccioso, dove un arco in legno segna il punto di passaggio di una skyrace che ormai non si tiene più, la Valmalenco – Val Poschiavo. Esco dal sentiero bollato per aggirare un nevaio e raggiungo l’arco, che a quanto pare è posto proprio sul confine: puntualmente, infatti, ricevo il classico SMS di benvenuto e un secondo SMS con la normativa Covid-19 in Svizzera.
Superato il passo, si scende verso la Val Poschiavina sempre lungo l’alta via, seguendo i bolli tra roccette e piccoli nevai. I ramponcini sono rimasti sempre nello zainetto: ho infatti trovato neve molle e mai in punti esposti. Approfitto di un ponticello per attraversare il torrente Poschiavina, il cui corso mi accompagnerà giù per l’omonima valle e fino al lago di Gera. Poco dopo arrivo al passo di Cancian (2498 m), il cui aspetto è così poco quello di un passo che mi accorgo di averlo superato solo più tardi, riguardando il percorso sulla cartina.
Dopo un primo tratto di discesa per roccette, anche qui esageratamente attrezzate con catene e staffe, proseguo in leggera discesa se non addirittura in piano per la bucolica ma infinitamente lunga val Poschiavina. Pensavo di impiegare di meno a percorrere i 4-5 km che ancora mi separano dal lago di Gera, ma il sentiero, per quanto facile e semi pianeggiante, si rivela sconnesso e paludoso e mi costringe quasi a camminare.
Finalmente arrivo in vista dell’Alpe Val Poschiavina, dove trovo una fontana per rabboccare le borracce, e del lago di Gera. Proseguo in discesa tenendo la destra, seguendo le indicazioni per l’Alpe Gembré.
Seguo il sentiero lungo la sponda orientale del lago e la vista si apre sul ghiacciaio Fellaria, o su quanto ne rimane. Compare anche il rifugio Bignami, prossima tappa del mio giro.
Raggiungo e supero l’Alpe Gembré, senza fermarmi alla fontana visto che ho già le borracce piene, e proseguo lungo il sentiero ora in discesa per il rifugio Bignami. Bisogna abbandonare brevemente il sentiero principale e seguire le frecce verdi che portano a un ponte per attraversare il torrente poco più in basso: ponte utilissimo, a maggior ragione con il torrente in piena per la neve che si sta sciogliendo.
Si può ora corricchiare a fondovalle, sempre seguendo i bolli e i triangoli rovesciati dell’alta via in un ambiente da favola, con i rododendri in fiore e il fragore delle cascate che provengono dal ghiacciaio.
Attraverso il torrente Valle di Campo Moro, anch’esso in piena, grazie a un altro ponte, qui davvero indispensabile. Il terzo ponte, invece, manca: trovo infatti il sentiero interrotto da un altro torrente, non altrettanto impetuoso ma comunque carico d’acqua. Dopo avere cercato inutilmente un punto sicuro per l’attraversamento, stabilisco che la soluzione migliore sia togliermi le scarpe e guadare con l’acqua al ginocchio. Qualunque cosa pur di non tornare indietro e rovinare l’anello!
Altre persone che arrivavano dalla parte opposta hanno preferito rinunciare e tornare indietro. Ma non temete, la piccola ruspa parcheggiata lì vicino e i sassi ammonticchiati su entrambe le sponde mi fanno pensare che presto ci sarà un ponticello anche qui! In alternativa, per evitare questo tratto, dalla Val Poschiavina si può scendere direttamente a Campo Moro senza passare per il Bignami. Che però sarebbe proprio un peccato!
Il rifugio è sempre affollatissimo in questa stagione, per cui mi fermo giusto il tempo di una foto e riparto in discesa per la mulattiera che passa sulla sponda occidentale del lago di Gera. Qui c’è come sempre una processione di escursionisti da 400 m di dislivello, nonostante un paio di nevai che, pur battuti, aumentano un po’ la difficoltà del percorso. Come al solito, tra la folla, c’è chi si lamenta di essere superato e chi mi chiede che fretta abbia per scendere di corsa – l’idea che mi manchino ancora 20 km, dopo i quasi 30 già percorsi, ovviamente non li sfiora – ma trovo anche tante persone gentili che mi sorridono e si complimentano.
Alla fine della mulattiera attraverso la diga di Gera, da cui si gode di una vista fantastica sul ghiacciaio Fellaria e il sottostante rifugio Bignami, e proseguo in discesa verso Campo Moro. Un sentiero che si prende sulla destra mi permette di evitare la strada, superando in fretta il lago di Campo Moro e arrivando all’omonima diga.
Il panettone che si vede dietro alla diga è il monte Motta, che dovrò superare – pur senza arrivare in cima – per tornare a Chiesa. Da Campo Moro, le indicazioni da seguire sono quelle per l’Alpe Musella: si prende dunque la strada in discesa verso destra, si attraversa la diga e si continua lungo la mulattiera in discesa, senza farsi tentare dai cartelli per Campo Franscia. Mi aspetta ancora un po’ di salita, ma era una cosa voluta e mi attengo al programma. Il sentiero per l’Alpe Musella, in ogni caso, è facile e mai troppo ripido, con lunghi tratti pianeggianti e corribili e torrentelli dove ogni tanto mi fermo a bere un sorso d’acqua.
Arrivo all’alpeggio mentre il cielo si copre e cominciano a cadere le prime gocce. Poco male, non ci sono temporali in vista e piove quanto basta per rinfrescarmi. Speravo a quest’ora di essere già alla macchina, ma il guado e le continue soste per le foto mi hanno fatto perdere tempo. Dall’Alpe Musella seguo le indicazioni per l’Alpe Campascio, poco lontano.
Attraverso altri torrenti (sempre con ponti) e proseguo più o meno in piano fino a Dosso dei Vetti; da qui perdo ancora un po’ di quota prima dell’ultima salita. La mulattiera bagnata non contribuisce a migliorare il mio passo, già fiacco dopo tante ore sulle gambe, e la stanchezza mi impedisce di godermi appieno il paesaggio.
Finalmente arriva la salita che stavo aspettando: è il sentiero 339 per Cima Sassa e rifugio Motta. Lo seguo, guadagnando piano piano gli ultimi 200 m di dislivello di questo lungo giro, e raggiungo infine Cima Sassa (1721 m).
Non è una cima, ma da qui inizia la discesa. Non ci sono indicazioni in tal senso ma bisogna proseguire dritto, perdendo quota per i prati fino all’alpeggio sottostante – di cui non ricordo il nome, non me ne vogliano gli abitanti. Si trova anche qui una fontana, anche se io ho già fatto rifornimento all’ultimo torrente e decido di non fermarmi. Le prossime indicazioni da seguire sono quelle del sentiero 338 per Ponte, Lanzada e Chiesa, prima su strada carrozzabile e poi lungo un sentiero ben indicato. All’unico bivio non segnalato, come è naturale, ho sbagliato strada prendendo la discesa verso sinistra, mentre avrei dovuto proseguire dritto arrivando direttamente a Ponte. Poco male, ho allungato di poco e ho comunque raggiunto lo stesso paesino da un’altra strada. Bisogna ora seguire le indicazioni per Chiesa – non quelle per Lanzada! – lungo un sentierino ripido, umido e pieno di vegetazione.
Una volta a Chiesa, si scende ancora un po’ lungo la strada e, ignorando le indicazioni che non sono corrette, bisogna attraversare il ponte che vedete in foto in direzione della funivia. Subito dopo il ponte, si svolta a destra e ben presto si arriva in vista del centro sportivo Vassalini.