Poco battuta e sconosciuta ai più, la val Brevettola merita decisamente una visita. I piemontesi l’avranno distrattamente incrociata salendo in auto verso i più popolari laghi della valle Antrona, mentre qualche runner potrebbe avere sentito parlare della skyrace che si corre ogni estate su questi sentieri: si tratta, in ogni caso, di un giro poco “mainstream”.
Il team val Brevettola
Con Michele, Irene e Martin decidiamo di approfittare di un bel sabato di ottobre per provare il giro della gara. La stagione è semplicemente perfetta: a questa quota, poco meno di duemila metri nei punti più alti, non ha ancora nevicato, ma fa abbastanza fresco da non doverci portare enormi scorte d’acqua.
Si parte dal piccolo borgo di Montescheno, a settecento metri. Ci sono una ventina di posti auto gratuiti in piazza, strategicamente vicini a un bar, a una fontana e persino a un bagno pubblico. Il giro comincia lungo la strada in leggera salita, superando la chiesa e un paio di tornanti. Cominciamo poi a salire per mulattiere che tagliano i tornanti, seguendo i bolli ancora evidenti della skyrace e i ricordi di Michele che, da bravo piemontese, questa gara l’ha già corsa più di una volta.
Pendenze impegnative.
Il tratto su mulattiera finisce ben presto: seguiamo brevemente la strada in leggera discesa per andare a imboccare il sentiero, dove comincia la salita vera e propria. Ci sono diverse indicazioni, ma il percorso da seguire è quello segnato dai bolli di colore arancione.
Questa salitona, oltre 1300 m nei primi 7 km, si divide in tre parti: un primo strappo piuttosto lungo e ripido nel bosco fino all’alpe Ortighè, a 1400 m circa, dove si tira brevemente il fiato con un tratto pianeggiante e corribile; una seconda salita altrettanto ripida, questa volta con una bella vista su sconosciute cime svizzere, che termina in un bel traverso corribile; infine un ultimo breve strappetto, appena cento metri di dislivello, per raggiungere l’alpe Ogaggia (1977 m).
Salita dall’alpe Ortighè all’alpe Ogaggia.Traverso corribile e super panoramico.
All’alpe Ogaggia il saggio Michele ci ricorda di rabboccare le flask, perché ci aspetta ora un lungo tratto in cui non incontreremo altra acqua.
Ultimo rifornimento d’acqua all’alpe Ogaggia.
Finalmente un po’ di discesa: perdiamo quasi trecento metri in una vallata ampia e completamente deserta. Le indicazioni da seguire sono quelle per il passo Arnigo.
Discesa dall’alpe Ogaggia verso il passo Arnigo.
Comincia ora la salita più ripida di tutto il giro: sono solo trecento metri di dislivello, ma la pendenza la rende davvero impegnativa.
La salita più impegnativa di tutto il giro.
Arriviamo così al passo Arnigo (1990 m), dove ci concediamo una pausa e una merenda prima della meritata discesa. La discesa, a dirla tutta, dura poco: solo un chilometro e mezzo, poi si sale di nuovo, mentre alle nostre spalle si apre uno scorcio spettacolare sulle montagne innevate della Svizzera.
Forse il punto più panoramico di tutto il giro.
Raggiungiamo il passo di Saudera (1890 m) e, da qui, riprendiamo a scendere lungo un sentiero relativamente semplice. Perdiamo quota fino al colle del Pianino (1620 m), da cui si dipartono due sentieri che portano ugualmente a Montescheno: noi seguiamo il C04 per cima del Moncucco, come nel percorso della skyrace. Dopo un breve falsopiano si scende a tutta nel bosco, incrociando un alpeggio e qualche baita. Nell’ultima parte ci orientiamo solo grazie ai bolli della gara, anche perché il sentiero non è in ottime condizioni e in alcuni punti si alterna alla strada. Ma ben presto siamo a Montescheno, pronti per stappare quattro birre alla salute di un altro gran bel giro in ottima compagnia!
Tra Italia e Francia sempre in quota, per ammirare da tutti i lati la montagna “a forma di montagna”.
Pian della Regina (1800 m) – Pian del Re (2020 m) – Buco di Viso (2880 m) – refuge du Viso (2460 m) – col de Valante (2815 m) – rifugio Vallanta (2450 m) – passo Gallarino (2726 m) – rifugio Quintino Sella (2640 m) – Pian della Regina.
Gli anelli, quelli belli! Era da anni che puntavo il Gran Tour del Monviso e un bel sabato di settembre, freddo e terso come piace a me, sono finalmente riuscita a organizzarlo. Ringrazio sin d’ora i miei cavalieri per un giorno, Michele e Andrea, compagni ideali per una corsetta senza pretese, decine di foto e chiacchiere a iosa al cospetto del Signor Viso.
Il team Monviso.
Il Monviso è tanto bello quanto remoto e, da Milano, richiede un viaggio piuttosto lungo. Con una sveglia assassina siamo riusciti a parcheggiare davanti al rifugio Pian della Regina, sopra Crissolo, alle 8,30 del mattino. Non avevo considerato il tempo che Michele necessita per cambiarsi, ma insomma per le 9 eravamo in marcia. Il giro si può fare in senso orario o antiorario e noi abbiamo scelto quest’ultima opzione – che ci ha regalato una prima salita molto dolce e una discesa finale piuttosto cattiva, forse meglio invertire?
Partenza da Pian della Regina.
Dal rifugio Pian della Regina, che dispone anche di un’area camper e di piazzole per le tende, si prende la stradina in discesa che sembra dirigersi proprio verso il Monviso, poi il sentiero in salita verso destra. La prima tappa è il Pian del Re, dove arriva anche la strada: dobbiamo farci largo tra le auto e gli escursionisti in partenza, ma superato il parcheggio torniamo subito sul sentiero.
La chiesetta di Pian del Re.
Con qualche sorpasso strategico ci portiamo in pole position su una salita davvero comoda, facile e morbida, seguendo le indicazioni per Pian Mait e Buco di Viso. Dai cartelli scopriamo di trovarci anche sul percorso della GTA, la Grande Taversata delle Alpi: da ogni giro nasce sempre lo spunto per il successivo.
La prima salita è facile e morbida.
Man mano che guadagniamo quota il sentiero si fa più roccioso, senza mai diventare eccessivamente tecnico. Ci stiamo avvicinando al Buco di Viso, la galleria dove si entra dall’Italia e si esce in Francia. Consiglio la frontale per l’attraversamento, anche se si tratta solo di un centinaio di metri: siamo quasi a 2900 m di quota, le temperature sono polari e il fondo è ghiacciato. Attenzione: l’accesso è vietato ai cani.
Freschino nel Buco di Viso.
Dopo un glorioso ingresso in territorio francese, cominciamo a scendere in una valle aperta e molto panoramica. Un ruscello d’alta quota ci accompagna lungo la discesa e ci fornisce il primo rifornimento d’acqua, anche se al refuge du Viso non manca poi molto.
Refuge du Viso.
All’esterno del rifugio, come ci era stato detto, troviamo una fontana a cui rabboccare le borracce e anche un minuscolo e grazioso WC.
WC ad alta quota.
Ci aspetta ancora un bel tratto in leggera discesa, con vista spettacolare sul versante francese del Monviso, prima di cominciare a inerpicarci per un sentiero roccioso, ma non troppo impegnativo, verso il col de Valante.
In salita verso il col de Valante.
Se tra il Pian del Re e il Buco di Viso abbiamo superato decine e decine di escursionisti, quassù siamo soli al cospetto del Re di Pietra. Ce lo godiamo in pace prima di cominciare la discesa per il Vallanta, il secondo dei tre rifugi lungo l’anello del Monviso. Anche qui c’è una fontana esterna, coperta di ghiaccio ma con acqua ancora corrente.
Fontana al rifugio Vallanta.
Dal Vallanta perdiamo quota lungo un sentiero che si trasforma via via in una stradina sterrata, noiosa ma veloce. Per la prima volta dalla partenza ci troviamo sotto i duemila metri e in un bosco: il sentiero da seguire, ora in salita, è l’U10 per passo Gallarino e rifugio Quintino Sella. Dopo qualche centinaio di metri di dislivello usciamo dal bosco e torniamo ad ammirare un panorama d’alta quota, in un ambiente che diventa sempre più lunare via via che ci avviciniamo al passo.
Verso il passo Gallarino.
Si alza il vento e la temperatura percepita si abbassa notevolmente, ma questa è la parte del giro che mi è piaciuta in assoluto di più. La salita è quasi finita e un bel tratto di sentiero corribile, con qualche saliscendi, ci accompagna fino al passo Gallarino. Qui si prosegue verso sinistra in discesa, verso il rifugio Quintino Sella, e il Monviso ricompare alla nostra sinistra in tutto il suo splendore.
Un’altra faccia del Monviso.
Ben presto arriviamo in vista del rifugio e del lago blu cobalto ai suoi piedi: per raggiungerli dobbiamo affrontare ancora un breve tratto di salita. Ci fermiamo al rifugio il tempo di rabboccare le flask e scambiare due parole con alcuni dei tanti alpinisti che oggi hanno raggiunto la vetta Monviso: molti altri stanno arrivando per provarci domani, o anche solo per ammirare dal basso il Re di Pietra.
Discesa su pietraia.
Affrontiamo l’ultima salitella, facendoci largo tra una processione di escursionisti e scalatori, e poi comincia finalmente la discesona finale. Siamo pronti a lasciare andare le gambe, ma la prima parte del sentiero è una pietraia dove da correre c’è ben poco. La vista in compenso è spettacolare: ogni curva ci regala uno scorcio nuovo e impagabile.
Man mano che perdiamo quota il sentiero diventa più corribile, anche se ne posso dire di averne visti di più semplici. Il dislivello è tanto ma finalmente arriviamo in vista prima del Pian del Re, poco più in alto alla nostra sinistra, poi del Pian della Regina, con il suo rifugio e la concreta promessa di una birretta fresca.
Il Campo dei Fiori è il primo massiccio montuoso che si incontra a nord di Varese, in direzione Svizzera: ideale per la stagione invernale, con i suoi sentieri facili e curatissimi a bassa quota, questo parco regionale ospita una nota gara di corsa in montagna e offre un fantastico terreno di allenamento non solo per il trail, ma anche per la mountain bike.
Il giro che vi propongo, facile e veloce, parte dal lido di Gavirate, uno dei punti più belli del lago di Varese. Il parcheggio del lido è a pagamento, ma c’è un parcheggio gratuito poco distante, all’area sosta camper di Gavirate. All’arrivo, troverete diversi bar con vista lago dove concedervi una meritata birretta!
Partenza dal lido di Gavirate.
Dal lido si percorre brevemente la pista ciclopedonale e si costeggia l’area sosta camper per risalire verso il centro di Gavirate. Si prende verso destra via Trinità, che porta al parcheggio parco Morselli (attenzione a un brutto attraversamento di strada). Qui è dove potete parcheggiare, se trovate posto, nel caso preferiate evitare l’asfalto e accorciare di qualche chilometro il giro.
Dal parcheggio si prende una stradina sterrata a tornanti in salita che supera le ultime case e porta nel bosco. Ci sono tante indicazioni e diversi sentieri non indicati, per cui consiglio di seguire la traccia gpx più che i cartelli.
Sentiero facile e corribile.
La prima parte di salita è decisamente corribile. Ci sono diverse opzioni per salire al forte di Orino: il mio percorso alterna tratti molto semplici e puliti, frequentati anche dalle mountain bike, a sentieri più ripidi e sconnessi, tutti comunque escursionistici e privi di pericoli (a parte forse i cacciatori).
Capirete di essere quasi arrivati al forte quando vi troverete in una zona di bosco morta, devastata da un parassita.
Alberi morti nella parte più alta del percorso.
Superato questo tratto un po’ triste, il sentiero emerge su una pista tagliafuoco e un’ultima salitella, chiaramente indicata, porta al forte. Non aspettatevi una costruzione: del forte di Orino è rimasto poco più di un muretto. La vista, in compenso, è spaziale: dal lago Maggiore al lago di Varese, con tutto l’arco alpino dal Monviso al Legnone. Il monte Rosa, in particolare, troneggia poco oltre il lago.
Lago Maggiore e monte Rosa.
Per scendere, prendo il sentiero 302, in questo periodo un po’ insidioso per la quantità di foglie secche che lo ricoprono, ma normalmente piuttosto semplice. Anche in discesa ci sono diverse opzioni e consiglio di seguire semplicemente la traccia.
Quando mancano 2-3 km all’arrivo, si torna sul sentiero dell’andata e non bisogna fare altro che ripercorrere i propri passi fino al lago.
Un percorso tecnicissimo per creste aeree e traversi esposti caratterizza buona parte del sentiero 4 luglio, dove ogni estate si corre una delle gare più importanti della Valtellina. Vedere i tempi dei più forti ci fa sentire delle cacchine, ma insomma noi Martas siamo poco ambiziose e giriamo più che altro per divertirci!
Il team Martas alla scoperta del 4 luglio.
Il giro è bellissimo e merita una gita fuori gara, per godersi appieno i panorami e il silenzio di queste selvagge Orobie valtellinesi.
Abbiamo lasciato un’auto al parcheggio Fucine-Les di Corteno Golgi, all’imbocco della strada che sale verso Sant’Antonio, e l’altra a Santicolo, punto di arrivo della gara, per seguire il percorso ufficiale; un inaspettato maltempo, però, ci ha costretto a tagliare l’ultima parte, verso la fine delle creste, scendendo dalla val Torsolazzo verso Corteno Golgi anziché terminare il giro a Santicolo. Questa soluzione d’emergenza si è rivelata interessante, con una bella discesa facile e corribile, e mi sento di consigliarla.
Per andare a prendere il sentiero 4 luglio vero e proprio bisogna per prima cosa salire a Sant’Antonio (1125 m) lungo la strada asfaltata e, poi, seguire le indicazioni per Campovecchio. Da qui si prosegue in direzione passo Sellero: non dritto, come facciamo dapprima noi, attirate da un asinello che sembra un Trudy e dall’invitante indicazione “3.30 h”; bensì verso destra, seguendo il sentiero 107 che si inoltra nel bosco, con tempo di percorrenza 6 h.
Guadagniamo quota in modo costante, su comodo sentiero, fino allo Zapel dell’Asen (2026 m). Da qui alla Val Rosa ci aspetta un lungo e accidentato traverso di 6 km, dove con ogni probabilità i top runner corrono al quattro e trenta, mentre noi non vediamo altra soluzione che camminare di buon passo.
Traverso panoramico ma poco corribile.
Per fortuna abbiamo l’idea di rabboccare le borracce a un ruscello: sarà l’unico punto acqua da qui alla fine del giro! Finalmente dalla Val Rosa (1970 m) riprendiamo a salire. Non c’è anima viva e ci godiamo lo spettacolo delle creste che andremo a percorrere nella pace e nel silenzio. Man mano che saliamo, l’erba cede il posto alla pietraia e il sentiero, sempre ben segnato, si inerpica verso il passo Telenek (2560 m).
Verso il passo Telenek.
Dal passo, ci dirigiamo verso la cima Sellero (2744 m), il punto più alto della gara. Da qui in avanti il sentiero segue il filo di cresta, ed è un vero spettacolo!
In cresta verso la cima Sellero.
Ci aspetta ora il tratto più tecnico del giro, una discesa piuttosto ripida con catene che ci porta al passo Sellero (2400 m).
Discesa dalla cima Sellero all’omonimo passo.
A questo tratto attrezzato seguono, prima e dopo il passo Sellero, crestine aeree e traversi esposti: se dovessi classificare questo sentiero 4 luglio, cosa che non farò perché non sono un CAI e non scrivo per gli escursionisti, lo definirei di grado FBLO (fa balaa l’oecc).
Bivacco Davide (2645 m).
Arriviamo al bivacco Davide, intorno al 20esimo km, completamente disidratate: nonostante il cielo nuvoloso, la giornata è caldissima e di acqua proprio non ne abbiamo trovata. Nella disperazione, attingiamo a una tanica appartenente a tale Claudio (grazie, Claudio! se leggi questo post, scrivici, così ti offriamo una birra!) prendendo solo il minimo sindacale per arrivare alla fine del giro.
Dal bivacco, il sentiero diventa un po’ più semplice. Continuiamo sempre più o meno in cresta, aggirando una cimetta non meglio identificata con qualche catena (non necessaria) e superando un traverso dove le catene risultano un gradito corrimano. In generale, il sentiero è in ottime condizioni: le protezioni non annullano le difficoltà intrinseche del percorso, ma di sicuro lo rendono il più sicuro possibile.
Traverso attrezzato.
Alla bocchetta del Palone succede quello che è inevitabile in giornate così calde e umide: comincia a tuonare e cadono le prime gocce. La situazione non sembra tragica e valutiamo anche di proseguire, ma alla fine decidiamo, studiando le mappe di Strava, di dare una chance all’invitante val Torsolazzo che si apre sotto di noi e che dovrebbe riportarci a Corteno Golgi in tempi sicuramente inferiori a quelli che impiegheremmo a raggiungere Santicolo.
La discesa in val Torsolazzo.
Seguiamo dunque i segnavia, ottimamente tracciati, del sentiero 134 e nel giro di pochi minuti cominciamo a congratularci tra di noi per la saggia decisione, visto che comincia prima a diluviare, poi a grandinare. Il sentiero, prima su pietraia, poi su pratone e infine nel bosco, non è mai troppo ripido e ci permette di scendere in tempi relativamente brevi e senza inconvenienti, a parte uno scivolone su una roccia bagnata.
Anche oggi abbiamo portato a casa la pellaccia!
Arriviamo infine a una strada sterrata, che imbocchiamo verso destra in direzione Sant’Antonio. Finalmente troviamo una fontana, dove possiamo dissetarci e sciacquare le ferite. In pochi chilometri raggiungiamo Sant’Antonio e, da qui, ripercorriamo i nostri passi fino alla macchina.
Finalmente è arrivata la settimana di scarico: vietato faticare, via libera alle passeggiate con gli amici! I giri più belli con la mia amica Marta sono sempre ambientati tra le meravigliose montagne della Valmalenco, che anche questa volta si sono rivelate all’altezza delle aspettative. Con Meme, Erica e tre quadrupedi abbiamo pensato di accamparci sotto la diga di Campo Moro, a 2000 m di quota, per passare una bella notte al fresco e partire di buon’ora senza levataccia.
Campeggio a Campo Moro.
Il punto migliore da cui partire per il percorso che abbiamo in mente è più indietro, nei pressi del rifugio Poschiavino, ed è qui che riportiamo il furgone di Erica dopo averlo stipato con tutti i nostri averi. A piedi torniamo indietro: meglio togliersi subito questo paio di chilometri su asfalto, piuttosto che doverli percorrere alla fine. Seguendo le indicazioni per l’alpe Gembrè, prima tappa del nostro giro, saliamo in cima alla diga e, senza attraversarla, continuiamo a camminare sul lato destro del lago di Gera.
Lago di Gera, in alto a sx il rifugio Bignami.
Sulla sinistra, dall’altra parte del lago, si vede il rifugio Bignami e ogni tanto tra le nuvole sbuca anche il ghiacciaio Fellaria, la grande attrazione di questa valle. La vedretta è meravigliosa, ma siamo ben contenti di svoltare verso destra e di inoltrarci nella meno turistica Val Poschiavina.
Lo sfondo spettacolare del ghiacciaio Fellaria.
Superata l’alpe Gembrè, dove si trova l’unica fontana che ricordo di avere visto in questo giro, il sentiero spiana e attraversa un pratone incredibilmente panoramico. Proseguendo dritto si arriverebbe al bivacco Anghileri-Rusconi, da cui si può raggiungere la cima Fontana – un tremila facile e di grande effetto. Noi invece prendiamo il sentiero (o meglio la traccia) a destra, verso il passo d’Ur.
Seguendo la traccia verso il passo d’Ur.
Dopo un tratto pianeggiante e piuttosto bagnato, il sentiero guadagna quota e ci porta nella parte più selvaggia della Val Poschiavina, dove per chilometri e chilometri non incontriamo anima viva al di fuori delle marmotte.
Vista sul monte Spondascia (2867 m).
Davanti a noi si para il monte Spondascia, che inizialmente avevo incluso come tappa del nostro giro. Trattandosi di una cima piuttosto impervia, decidiamo però di evitarla per via del meteo incerto: non dovrebbe piovere, ma la visibilità è scarsa. È un peccato che la vista non si apra mai sul pizzo Scalino, che pure è lì dietro da qualche parte, ma questo bel sentiero ad alta quota con le cime più alte immerse nelle nubi è davvero suggestivo.
Pietra miliare al lago d’Ur.
Il sentiero, a volte molto evidente, a volte più difficile da trovare (utile la traccia gpx), ci porta infine al lago d’Ur e al passo omonimo, a 2514 m di quota. Alcune pietre miliari segnalano il confine con la Svizzera. Proseguendo in direzione passo di Campagneda, incrociamo il sentiero più battuto, quello che passa sul fondo della Val Poschiavina. Per la prima volta incontriamo altre persone, dirette come noi verso il passo di Campagneda.
Fioritura sotto il passo di Campagneda.
L’ultimo tratto prima del passo ci lascia a bocca aperta: ai piedi del pizzo Scalino e delle altre imponenti cime della Val Poschiavina è spuntato un immenso tappeto di fiori gialli, bellissimo.
Al passo di Campagneda (2615 m).
Dal passo scendiamo verso i laghetti di Campagneda, una destinazione facilmente raggiungibile e quindi più frequentata rispetto al sentiero per il passo d’Ur. Qualche staffa e catena aiutano nella discesa nei pochi punti tecnici, ma si può tranquillamente farne a meno.
Discesa verso i laghetti di Campagneda.
La direzione da seguire è ora Ca’ Runcasch: superato questo rifugio, si prende il sentiero per Campo Moro e per il rifugio Zoia. Dopo un breve tratto in leggera salita, il sentiero passa ai piedi di una falesia dove climber coraggiosi si stanno cimentando con tiri durissimi; poi cominciamo a perdere quota, superiamo il rifugio Zoia (affollatissimo) e finalmente raggiungiamo il parcheggio.
Il giro del Confinale è perfetto per un lungo allenamento estivo: i suoi scorci meravigliosi, i sentieri facili ma in alta quota, le fontane e i rifugi lungo tutto il percorso lo rendono particolarmente appetibile in questo periodo dell’anno.
Mi sono permessa di apportare qualche modifica a questo anello perfetto perché il giro del Confinale è lungo “solo” una quarantina di chilometri, mentre a me serviva farne sessanta. In realtà le aggiunte, inserite solo ai fini dell’allenamento, si sono rivelate anche meglio del percorso originale: il sentiero glaciologico dei Forni, in particolare, è stato una vera scoperta.
Vista spaziale dal sentiero glaciologico dei Forni.
Mentre il giro del Confinale comincia a Niblogo, io sono partita un po’ più in basso, da Bormio, raggiungendo Niblogo per stradine secondarie. Ho seguito il percorso classico fino al rifugio Pizzini, per poi deviare sul sentiero glaciologico che passa dal rifugio Branca e poi dal Forni. Sono scesa a Santa Caterina Valfurva dalla strada e poi, per sentieri, ho raggiunto Bormio 2000. Pochi chilometri su pista e strada, infine, mi hanno riportato al punto di partenza. Tempo di percorrenza: 12 ore incluse lunghe soste ai rifugi, effettive 10 ore e mezza. Più di metà del percorso rimane sopra i 2000 m e il punto più alto è il passo Zebrù, a 3005 m. Chi ama le lunghe letture troverà qui di seguito il resoconto dettagliato; gli altri possono limitarsi a scaricare la traccia: il percorso, per quanto lungo, è uno dei meno problematici che conosca.
Per poter rientrare a un’ora decente, decido di partire prestissimo e all’ultimo mi prenoto una stanza all’hotel Eira, un ottimo due stelle comodo e pulito: è qui che inizia e finisce la mia traccia gpx. Dall’hotel seguo la strada in discesa verso il centro di Bormio e imbocco il sentiero Frodolfo, una pista ciclo-pedonale che segue il corso dell’omonimo torrente. Corricchiando in leggera salita, raggiungo Uzza e poi San Nicolò.
Risalendo verso Niblogo.
Non mi dilungherò su questa parte del giro, in assoluto la meno interessante: basta seguire la traccia gpx o, alla peggio, la strada. Da Niblogo cambia tutto, perché la vista si apre sulla spettacolare Val Zebrù, ancora tutta in ombra benché si preannunci una giornata spettacolare.
Inizia il giro del Confinale in val Zebrù.
I primi chilometri del Confinale sono tutti da correre. Si guadagna dislivello in modo insopportabilmente lento su una strada sterrata, noiosa ma funzionale allo scopo di togliermi in fretta i primi 15 km. Si passa per infinite malghe, ma si entra nel vivo del percorso solo a partire dalla Baita Pastori: qui faccio il primo vero rifornimento d’acqua in vista della salita per il rifugio Quinto Alpini.
Fontana alla Baita Pastori (2168 m).
Il sentiero, o meglio la strada, si allontana sempre più dal fondovalle per inerpicarsi verso il gruppo Zebrù, Gran Zebrù, Orles, ancora immersi nell’ombra e nelle nubi.
Salita in ombra verso il Quinto Alpini.
Dall’altro lato della valle, illuminato dalle prime luci, è invece facilmente individuabile il monte Confinale, quello che dà il nome al mio giro.
Il sole splende sul monte Confinale (tutto a dx).
Le ultime tracce di verde scompaiono e mi ritrovo nell’infinita pietraia che mi aveva impressionato già cinque anni fa, al mio primo giro del Confinale. La magia di questo ambiente lunare è un po’ guastata dalla fiumana di persone che sta scendendo dal rifugio, ma d’altra parte è normale che un posto così bello sia affollato. Saluto tutti e mi arrampico fino alle bandierine tibetane che troneggiano poco sopra il tetto giallo del Quinto Alpini, da cui la vista può spaziare dalla vedretta dello Zebrù fin giù per tutta l’omonima valle.
Vedretta dello Zebrù.
Batto un po’ i denti (sono in canotta, mentre gli ospiti del Quinto Alpini indossano il piumino) ma mi godo l’arietta di alta montagna: la prossima settimana a Milano ne sentirò senz’altro la mancanza. Volgo uno sguardo al rifugio sotto di me, che nel frattempo si è svuotato, e decido che è ora di fare colazione.
Il rifugio Quinto Alpini (2887 m).
Una fetta di torta al grano saraceno con marmellata di mirtilli mi rimette al mondo, mentre mi scambio racconti di montagna con i gentilissimi gestori del rifugio. Ristorata e riscaldata dai primi raggi di sole, che finalmente stanno illuminando anche questo lato della valle, lascio il Quinto Alpini e ridiscendo per qualche centinaio di metri dalla stessa pista da cui sono salita. Al bivio prendo il sentiero a sinistra e inizio la traversata verso il passo Zebrù, con lo sfondo del monte Confinale.
Il sentiero con vista Confinale.
Questo bel traverso su pietraia è tutto facile, per lo più corribile. Perdo un po’ di quota prima di riprendere a salire verso il passo, superando alcuni gruppi di escursionisti incredibilmente gentili: in tutto il giorno non ho avuto bisogno di chiedere permesso neanche una volta e la presenza di tante persone non mi ha infastidito né rallentato, caso più unico che raro sulle montagne “facili”.
Il sentiero verso il passo Zebrù.
Lungo la salita c’è solo un breve tratto che può risultare difficoltoso, un canalino ripido e pieno di sfasciumi, ma qualche catena al posto giusto aiuta nella progressione. Occhio a non seguire le tracce degli animali (come ho fatto io), ma i bolli e appunto le poche catene. Dopo il canale raggiungo il passo da un sentiero facile e super panoramico, nell’aria fresca e rarefatta dei 3000 m.
Ultimo tratto prima del passo Zebrù (3005 m).
Al passo, il Gran Zebrù fa capolino a sinistra da dietro una montagna più bassa, che potrebbe essere la Cima della Miniera, mentre di fronte a me si apre la valle di Cedec, con il Cevedale e la sua vedretta che incombono su un minuscolo rifugio Pizzini.
Monte Cevedale e rifugio Pizzini.
La discesa al rifugio è piacevole e divertente: più che su un sentiero, sembra di correre per strada. Non per niente incrocio innumerevoli escursionisti e persino dei ciclisti in mountain bike. Dietro al rifugio Pizzini trovo una fontana, dove riempio le flask prima di avviarmi verso il sentiero glaciologico per il Branca: da qui in avanti il percorso differisce dal giro del Confinale, che passa invece per il sentiero panoramico parallelo al glaciologico.
Sul sentiero glaciologico, vista sul Gran Zebrù.
Perdo ancora un po’ di quota prima di cominciare un lungo tratto di saliscendi, così panoramico che quasi non mi rendo conto di avere già macinato 30 km. La vista si apre, sempre più spettacolare, sul ghiacciaio dei Forni.
Verso il Branca, vista sul ghiacciaio dei Forni.
Al rifugio Branca, affollatissimo all’ora di pranzo, mi fermo il tempo di un caffè, poi riparto seguendo sempre il sentiero glaciologico. Sono ora circondata da enormi rocce scavate dal ghiacciaio, che ormai si è ritirato, ma rimane pur sempre uno spettacolo maestoso.
Quanto rimane del ghiacciaio dei Forni.
Anche questo percorso è, giustamente, piuttosto affollato. Mi sorprende vedere diverse famiglie con bambini anche piccoli: il sentiero è sì facile, ma non una strada sterrata come quella che attraversa la Val Zebrù. Supero infine il rifugio Forni e comincio la discesa su strada, circa 6 km, verso Santa Caterina. Solo qui comincio a patire un po’ il caldo, ma per fortuna trovo subito una bella fontana per fare rifornimento – non lo so ancora, ma sarà l’unico punto acqua da qui a Bormio 2000. Attraverso il centro del paese e il torrente Frodolfo, poi prendo la strada in salita seguendo le indicazioni per Monti di Sclanera.
Comincio l’ultima salita da Santa Caterina.
Prima su strada sterrata, poi su una ripida pista supero il bosco e torno a quota 2000 m, dove il caldo dà un po’ di tregua. I Monti di Sclanera, scopro, non sono dei monti ma un bell’alpeggio dove il sentiero spiana e mi permette di tirare il fiato, prima di riprendere a salire in direzione Baitin dei Pastori. In alto vedo la stazione di Bormio 3000, e ringrazio mentalmente me stessa per essermi risparmiata una salita così tosta dopo più di 40 km.
Verso il Baitin, in alto a dx Bormio 3000.
In realtà anche questa salita, molto più breve, verso il Baitin dei Pastori mi sta lentamente distruggendo, complice il fatto che ho quasi finito l’acqua e non mi fido a bere dai ruscelli. Il paesaggio però è molto più bello di quanto mi sarei aspettata da questo versante dei monti di Bormio, addomesticati con ovovie e diavolerie varie. Dopo una breve discesa, raggiungo quello che identifico come il Baitin (ma a questo punto sono molto stanca e potrei sbagliarmi) e trovo le indicazioni per Bormio 2000, la mia ultima meta per oggi. Una breve salita mi porta su un altro sentiero corribile e panoramico, con una vista sul Confinale che mi sembra la degna conclusione del mio anello (anche se alla conclusione mancano ancora 13 km).
Sentiero per Bormio 2000, vista sul Confinale.
Il sentiero mi porta a una lunga, estenuante strada sterrata, dove nessuno ha pensato di piazzare una fontana, nonostante l’acqua sgorghi da tutte le parti. Stanca e disidratata, mi trascino per 5 km in leggera discesa, che mi sembrano 10 km in leggera salita, fino all’apparizione celestiale dei cavi dell’ovovia. Bormio 2000 sembra un grande parco divertimenti per persone poco sportive, ma in questo momento voglio solo una coca gelata con tanto limone e, in un grande parco divertimenti, ho la certezza di trovarla.
Arrivo a Bormio 2000.
L’assunzione di liquidi, zucchero e caffeina mi dà una botta di vita insperata: riparto di buon passo seguendo prima una pista in ripida discesa, poi la strada asfaltata a tornanti che, passando per San Pietro e per Eira, mi riporta finalmente al parcheggio dell’hotel.
Primo lungo dell’anno, dove andare? Il primo posto che mi viene in mente è la mia amata Val Grosina, i cui sentieri si prestano particolarmente bene alla corsa in montagna.
Sentieri corribili nella bella Val Grosina.
50 km sono tanti e decido di limitare al massimo gli imprevisti, mantenendomi per lo più su percorsi noti. Cedo solo alla tentazione di fare un ingresso trionfale in Val Grosina dal passo Schiazzera, anziché dalla solita strada per Eita: a parte questo passaggio ignoto, che in effetti mi ha un po’ rallentato, il resto del giro si è rivelato, come previsto, semplice e relativamente corribile. Tempo di percorrenza 10 ore totali (inclusa una lunga sosta a Biancodino), effettive circa 9 ore.
Partenza da Grosotto.
Parcheggio alla centrale idroelettrica di Grosotto, ai piedi del castello. Seguo per un chilometro via Milano, fino al centro del paese. Qui trovo una bella fontana e i primi cartelli: le indicazioni da seguire sono quelle per la torre di Vione, lungo il giro dei castelli. Consiglio di usare la traccia gpx, perché le indicazioni agli incroci non sono chiarissime. Alla torre arrivo dopo un altro paio di chilometri di saliscendi, tra borghi e bosco.
Torre di Vione (750 m).
Dalla torre continuo a seguire il sentiero 205 (con l’aiuto della traccia gpx, più che dei cartelli) fino a Bosca, dove mi ritrovo sull’infinita salita per il rifugio Schiazzera – fresca nella memoria per averla percorsa appena una settimana fa, nella Doppia W Sky 30. Da qui in avanti i bastoncini sono d’obbligo, almeno per me, dato che mi aspetta una salita di 1600 m. Certo è un bel vantaggio conoscere i sentieri, soprattutto durante un lungo: per esempio, so dove si trova l’unico punto acqua da Bosca al rifugio Schiazzera, un tubo che emerge dal bosco poco prima dell’alpe Susen, sul quale ho concentrato tutte le mie speranze di rifornimento.
Alpe Susen (1508).
Da Susen al rifugio Schiazzera mancano “solo” 500 m di dislivello, che tutto sommato passano abbastanza in fretta. Finalmente il bosco finisce e arrivo al rifugio, che questa mattina è affollatissimo: lo supero in fretta, concedendomi una sosta poche centinaia di metri più avanti. Lungo il sentiero c’è infatti una fontana, dove mi fermo per riempire le flask e godermi la bellezza di questa piana incoronata dalle montagne.
Fontana poco oltre il rifugio Schiazzera.
Proseguo verso il lago Schiazzera, seguendo il giro della Doppia W nonché il Sentiero Italia. La salita ora è molto meno ripida, anzi, in alcuni tratti il sentiero è quasi pianeggiante. Circondata da rododendri in fiore, il silenzio interrotto solo dai fischi delle marmotte che a turno si alzano ad annunciare il mio arrivo, procedo di buon passo in pace con il mondo.
Il lago Schiazzera (2396 m).
Dal lago Schiazzera seguo le indicazioni per Malghera (Sentiero Italia) e quelle per il passo di Schiazzera. Dopo un breve tratto in leggera discesa, i due sentieri si dividono e io prendo quello di sinistra, in salita. Il passo si vede chiaramente, un centinaio di metri sopra di me: lo raggiungo con uno strappetto breve ma intenso, seguendo la traccia sempre più labile e i bolli bianco-rossi, che sono stati invece ripassati di recente e risultano visibilissimi.
Al passo di Schiazzera (2546 m).
La discesa da qui è segnalata come “Tracce EE”, espressione che mi si chiarisce non appena comincio a scendere. Ogni volta che vedo un EE spero in roccette e catene dove divertirmi, ma si tratta solo, in successione, di un pezzetto di pietraia e di un ripidissimo sentiero, largo non più di 10 cm e abbarbicato su una parete verticale ricoperta di rododendri.
Discesa EE dal passo di Schiazzera.
Questo tipo di sentiero, di solito, risulta divertente in un giro breve ed estremamente irritante durante un lungo. Ho appena cominciato a brontolare contro le tracce EE, quando trovo una balisa arancione e realizzo che la Doppia W 100 deve essere passata di qui. Nella direzione opposta, voglio sperare! Ad ogni modo smetto subito di lamentarmi, io che sto facendo solo 50 km. Raccolgo la balisa, che altrimenti chissà per quanto ancora rimarrà qui, e proseguo.
La pendenza diminuisce e mi trovo in un pratone con una piccola pozza d’acqua, il cui nome non riesco a identificare. Continuo a seguire i bolli sulle rocce fino a una baita; da qui in avanti, ricomincia il sentiero vero e proprio: lo percorro in discesa, ora in fretta e senza intoppi, fino al rifugio Casina di Piana (dove lascio la balisa a un signore gentile che si offre di portarla a valle) e poi giù per il sentiero 249 verso Presacce. Sempre sul percorso della Doppia W, attraverso un bosco infestato da formiche aggressivissime e raggiungo infine la strada per Malghera.
Imbocco la strada verso destra, in direzione opposta rispetto a Malghera, e la percorro per meno di un chilometro fino alla località Dosa, dove comincia la mulattiera per Biancadino. A questo punto fa caldissimo e ho finito da tempo l’acqua, ma provvidenzialmente trovo una fontana proprio all’inizio della salita.
Mulattiera balisata per il Valgrosina Trail.
Altre balise, e scopro di trovarmi questa volta sul percorso del Valgrosina Trail, che si correrà a inizio agosto. Anche in questo caso sto girando in senso opposto al percorso della gara, che scenderà da questa lunga mulattiera (poco meno di 1000 m di dislivello) da cui io sto faticosamente salendo. Fa caldissimo e le due flask che ho appena riempito sono praticamente esaurite quando arrivo a Biancadino, dove spero comunque di poter trovare o acquistare dell’acqua.
In realtà non ho bisogno di cercare: alla prima baita, dove una targa mi conferma di essere arrivata in un piccolo paradiso in terra, una famiglia generosissima mi invita a unirmi al pranzo della domenica. Devo a malincuore rifiutare salamella e zucchine, ma accetto con gioia acqua naturale per le flask, acqua frizzante da bere in compagnia, e una torta spettacolare cotta in stufa che barretta energetica scansate proprio.
Imbucata a pranzo a Biancadino.
Mi fermo volentieri a chiacchierare, ora che non ho risolto il problema dell’acqua, e dopo una mezz’oretta mi rimetto in marcia, rigenerata dall’acqua frizzante e con lo zainetto pieno di torta. Un ultimo strappetto mi porta al panoramico sentiero per Vermulera, che rimane intorno a quota 2300 m per un paio di chilometri di pura goduria.
Il sentiero Biancadino-Vermulera.
Comincia poi la discesa, sempre facile e corribile, per Vermulera, un grazioso alpeggio a poco meno di 2000 m di quota; scendo poi lungo la mulattiera che mi deposita sulla strada asfaltata per Eita, il borgo nel cuore della Val Grosina. La strada va imboccata verso sinistra, in leggera salita.
La chiesetta di Eita.
L’acqua, da Vermulera in avanti, non è più un problema: ogni pochi chilometri si trovano fontane, dove non perdo occasione di mettere la testa sotto l’acqua fredda, viste le temperature che diventano sempre più impegnative man mano che perdo quota. Da Eita mi mancano circa 13 km, facili facili nonostante la stanchezza: basta seguire le indicazioni per Grosio, che mi portano giù per una lunga mulattiera ombreggiata e poi sulla strada asfaltata, che seguo per parecchi chilometri nonostante ci siano alternative più simpatiche su sentiero. Supero Fusino e solo al 47esimo chilometro abbandono l’asfalto per infilarmi in una mulattiera.
La mulattiera per Grosotto.
A questo punto mi fa male tutto, e ogni passo in discesa sul sentiero sconnesso è una sofferenza. Ma devo solo resistere per pochi chilometri! Arrivo infine in vista del Castello Vecchio di Grosotto e so che, da qui, manca davvero poco.
Mulattiera verso il Castello Vecchio.
Quando raggiungo la macchina scopro che la temperatura a valle ha raggiunto i 35 gradi. Per il prossimo lungo dovrò inventarmi un giro più ad alta quota! Intanto però saluto con gratitudine la mia Val Grosina, che anche oggi mi ha dato grandi soddisfazioni. Non ultima la torta di Biancadino, che continua a nutrirmi anche durante il viaggio di ritorno!
Tirano – Baruffini – Rogorbello/Bertoli (771 m) – Susen (1508 m) – rifugio Schiazzera (2097 m) – sentiero 217 per Baruffini/Tirano – Pra Baruzzo (1450 m) – Sasso del Gallo – sentiero del Contrabbando – Roncaiola – Tirano.
Periodo: Maggio 2023
Partenza: Tirano (stadio)
Distanza: 29 km
Dislivello: 2100 m
Acqua: fontane in salita a Rogorbello e Quattro Rui; in discesa dopo Pra Baruzzo.
Manca un mese alla Doppia W Sky 30 km – per le ultra non sono ancora pronta, così mi sono buttata su una specialità che non è esattamente il mio forte – e ho deciso di dare un’occhiata al percorso.
Come punto di partenza e arrivo per il mio giro, in mancanza della navetta che ci assisterà nel giorno della gara, ho scelto il parcheggio della piscina Yellow Submarine, accanto allo stadio di Tirano. L’idea era raggiungere per sentieri Rogorbello/Bertoli, dove passa la Doppia W, e seguire il percorso della gara da qui al rifugio Schiazzera e al passo Portone. Il meteo non ottimale e la neve marcia che, secondo i rifugisti, avrei trovato a Pian Fusino mi hanno spinto a cambiare programma e accorciare il giro: per godermi il panorama dai 2620 m del passo Portone dovrò aspettare il giorno della gara!
Partenza lungo l’Adda.
Il parcheggio si trova lungo l’Adda, che attraverso dal ponticello pedonale di fronte allo stadio. Per prima cosa devo salire a Baruffini, un paesino a 800 m di quota, raggiungibile dalla strada oppure per sentieri e mulattiere: come vedrete, la mia traccia evita il più possibile l’asfalto e sale dritto per dritto dai sentieri, attraversando i vigneti e i meleti tipici della zona.
Da Baruffini seguo le indicazioni per Rogorbello (che sulle mappe si chiama Bertoli), altro piccolo borgo più o meno alla stessa altezza: 4 km di sentiero corribilissimo, con qualche saliscendi ma prevalentemente in discesa, separano i due paesi e mi permettono di riscaldare bene le gambe prima della salita vera e propria. L’unico punto in cui ho avuto un dubbio è il bivio che vedete qui sotto: il bollo più fresco invita a scendere verso destra, ma il sentiero corretto è quello a sinistra. Per il resto si tratta di un percorso intuitivo e facile da seguire.
A questo bivio si tenga la sinistra.
A Rogorbello riempio bene le flask, che avevo lasciato vuote perché sapevo di trovare una fontana in questo punto strategico, e proseguo lungo la strada verso la chiesa. Qui svolto tutto a sinistra e comincio la lunga salita verso il rifugio Schiazzera: 1300 m di dislivello positivo in 7 km.
Inizio della salita Bertoli-Schiazzera.
Le indicazioni da seguire sono quelle per le baite di Susen, più o meno a metà salita, e per il rifugio. Anche qui si tratta di un percorso molto semplice e intuitivo, in parte su facile sentiero e in parte su mulattiera, che attraversa più volte i tornanti della strada di servizio del rifugio.
Susen.
Praticamente tutta la salita si svolge nel bosco, che oggi è particolarmente umido e soffocante; quando finalmente, in prossimità del rifugio, gli alberi si diradano, non riesco comunque a vedere un granché perché le montagne sono immerse nelle nubi.
Il rifugio Schiazzera.
Il rifugio è ancora chiuso, ma fervono i preparativi per la prossima apertura e per la Doppia W. Chiedo consiglio ai rifugisti anche se in realtà, vista la scarsa visibilità, ho già deciso di rinunciare a salire al passo Portone. Una ragazza gentilissima mi spiega che al Pian Fusino si affonda nella neve e mi consiglia, in alternativa, il sentiero a mezza costa che aggira la montagna, rimanendo più o meno all’altezza del rifugio.
Seguo le indicazioni per il passo Portone, ma solo fino alle baite che si vedono già dal rifugio; attraverso il torrente e raggiungo il sentiero a mezza costa che mi è stato indicato, dove trovo le indicazioni per scendere verso Baruffini e Tirano.
Il sentiero a mezza costa per Baruffini/Tirano.
Dopo un ultimo tratto in leggera salita, comincia una lunga discesa su facile (ma fangoso) sentiero, che in 5 km mi porta a Pra Baruzzo. Da qui, continuo a seguire le indicazioni per Baruffini/Tirano, ora su strada sterrata semi-pianeggiante. Finalmente trovo una fontana: stavo razionando l’acqua in attesa di questo momento!
Strada sterrata con fontana dopo Pra Baruzzo.
Questa stradina si rivela antipatica, oltre che noiosa, dal momento che ha in serbo per me altri 100 m di dislivello positivo. Ma ben presto ricomincio a scendere e, anziché seguire le indicazioni per Baruffini, prendo il sentiero verso Sasso del Gallo, che non è un sasso ma una località; da qui lungo il sentiero del Contrabbando scendo a Roncaiola e, senza ripassare da Baruffini, mi trovo sulla mulattiera da cui sono salita all’andata.
Mi ritrovo sulla mulattiera dell’andata.
Si tratta ora semplicemente di ripercorrere i miei passi tra vigneti e meleti, riattraversare l’Adda dal ponte pedonale di fronte allo stadio e tornare al parcheggio della piscina Yellow Submarine.
La grande novità del Colmen Trail 2023 è un percorso lungo 33 km, che ha incuriosito tanti runner affezionati a questa impervia montagnetta della bassa Valtellina, ma non abbastanza scattanti per il velocissimo percorso della Colmen “classica”.
Inutile dire che tra gli iscritti figuro anche io, in fase di recupero e ancora meno scattante del solito! A una settimana dalla gara, ho deciso di provarla, approfittando della traccia fornita dall’organizzazione e del balisaggio in parte già effettuato.
Prima di passare alla descrizione del percorso di gara, di cui mi avete chiesto i dettagli non appena la mia attività è comparsa sui social, lasciatemi fare qualche considerazione:
il tracciato è una bellissima fotografia del territorio in cui si svolge, con il passaggio prima sul freddo e ombroso lato orobico della valle, poi sull’Adda e infine sul soleggiato (anche troppo) versante retico;
la gara è, dal mio punto di vista, molto corribile, ma di asfalto ce n’è poco e i sentieri, pur quasi sempre facili, costringono anche in piano a un passo piuttosto lento;
si tratta di un percorso molto nervoso che non molla mai: qualunque discesa è interrotta sul più bello da un’antipatica salitella; faticosissimo e spacca gambe, soprattutto nella parte finale.
Il ponte romano, punto di partenza e arrivo.
Parcheggio a Morbegno nei pressi del ponte romano o di Ganda, uno dei miei punti di partenza preferiti per il sentiero Valtellina e per la costiera dei Cech. Mi lascio alle spalle l’Adda e i terrazzamenti inondati dal sole per dirigermi verso le Orobie, ancora immerse nell’ombra. L’aria è frizzante e parto con guanti e manicotti.
Il centro di Morbegno.
Un paio di chilometri su strada, che sembra in piano ma non lo è, mi portano nel cuore di Morbegno: il centro è completamente deserto alle nove della mattina di Pasqua. Seguendo le indicazioni per la via Priula, si imbocca una stradina in salita, dove già vedo impiantati i fenomeni che regolarmente partono al quattro e dieci e chiudono la gara con le scope.
Comincia la salita vera e propria.
Se si considerano questi primi due chilometri un riscaldamento e non una gara di mezzofondo, si dovrebbe arrivare alla mulattiera per Valle con energia sufficiente a risalirla di corsa: il dislivello, circa 750 m in meno di 5 km, è distribuito in modo uniforme, con diversi punti in cui si riesce anche a tirare un po’ il fiato.
La mulattiera verso Valle.
Dopo qualche tornante su ciottolato, si prende un sentiero in salita, sempre con pendenza moderata, e si arriva a Valle incrociando la strada asfaltata. Il passaggio sulla strada è brevissimo e subito si riprende a salire su mulattiera e facile sentiero.
Passaggio a Valle.
Da qui mancano ancora quasi 200 m di dislivello alla fine di questa prima salita. Si sale nel bosco, ora su sentiero vero e proprio, fino a raggiungere il punto più alto della gara, a 1000 m di quota.
Il punto più alto della gara (1000 m).
Chi si aspetti di trovare, da qui, una bella discesa liberatoria, probabilmente non ha guardato bene il profilo altimetrico: si comincia, sì, a perdere quota, ma la discesa è continuamente interrotta da salitelle e tratti in piano.
Comincia una discesa molto nervosa.
Di sicuro c’è tanto da correre, in questa prima metà di gara. Per chi è bene allenato (non è il mio caso), è certamente possibile arrivare a Talamona senza avere mai camminato. Il terreno ora è piuttosto vario: si va dal sentiero facile al sentiero stretto e tecnico, dal pratone alla strada carrozzabile. Le foglie secche rendono alcuni punti insidiosi, almeno per le mie scavigliatissime caviglie.
Ultimo tratto di discesa verso Talamona.
Si arriva infine alla strada e il percorso ci concede finalmente un chilometrino di tranquilla discesa su asfalto. Mi fermo a una fontanella per rabboccare la flask, che è ancora quasi piena: con l’arietta gelida delle Orobie, non ho praticamente bevuto e non immagino che mi troverò, nel giro di un’ora, del tutto disidratata!
Ponte sull’Adda, con vista Colmen.
Sono ormai a fondovalle e seguo le indicazioni CT sull’asfalto, che mi portano ad attraversare l’Adda e a imboccare il sentiero Valtellina in direzione Sondrio. C’è ancora un chilometro da correre in piano prima di arrivare alla seconda salitona, quella per la Colmen. La montagnetta che dà il nome alla gara si staglia ora, un po’ minacciosa, davanti a me.
Dal sentiero Valtellina verso Desco.
Un breve tratto su sentiero, con qualche saliscendi, porta a Desco, da dove parte la salita vera e propria. Sono circa 700 m di dislivello da qui alla vetta della Colmen (950 m), lungo un sentiero che prima aggira la montagna, con qualche tratto in piano e in discesa, per poi inerpicarsi con decisione fino in cima.
Il sentiero per la Colmen.
Il terreno è molto diverso rispetto a quello della prima salita: non mulattiera ma sentiero a tratti tecnico – le catene non sono altro che corrimano, ma è necessario prestare attenzione – e a tratti ripido, sempre molto faticoso. Il percorso di gara si ricongiunge qui con la Colmen classica di 16 km, con cui condivide, com’è naturale, il tratto più caratteristico.
In vetta.
Si tratta di sentieri che conosco molto bene, ma con quasi venti chilometri sulle gambe la salita mi sembra infinita. Il clima, poi, è cambiato radicalmente: fa caldissimo e, quando raggiungo la cima della Colmen, ho finito l’acqua e so, ahimè, che fino a Dazio non ne troverò.
La parte più bella del percorso.
Comincia ora uno dei miei sentieri preferiti, quello che attraversa il bosco di betulle verso la cresta ovest della Colmen. Anche qui c’è da correre, per chi ne ha: un chilometro di facile sentiero in leggera discesa anticipa la discesa vera e propria verso Dazio, più tecnica e con qualche tratto roccioso. Si sbuca infine sulla strada sterrata che, penso erroneamente, mi porterà ben presto in paese e a una fontana.
Il percorso si separa di nuovo da quello classico.
Contro le mie aspettative, si torna invece nel bosco, per di più in salita! Stanca e assetata, raggiungo il bivio dove la gara classica svolta a sinistra per Dazio e scopro che il mio percorso va invece verso destra, allontanandosi ulteriormente da qualsiasi fonte d’acqua! Si scende, infine, e si imbocca la via dei Terrazzamenti, un percorso che conosco bene e che spero di seguire da qui a Morbegno.
Sulla via dei Terrazzamenti.
Una breve salita mi porta a un gruppetto di case e, finalmente, a una fontana. Reidratata, riprendo fiducia e proseguo in salita. Scopro che la via dei Terrazzamenti deve essere sembrata troppo facile agli organizzatori del Colmen Trail, perché il percorso devia subito e prende la mulattiera in salita per Regolido.
Mulattiera per Regolido.
Si tratta solo di un centinaio di metri di dislivello, ma per me è la salita più dura di tutto il percorso. E quando finalmente finisce, la discesa dura qualcosa come tre secondi: subito si torna su un sentiero nervoso, dove non si riesce mai a lasciare andare le gambe e ogni momento felice di discesa è spezzato da uno strappetto in salita, da una mulattiera con ciottoli mortali, da un tratto spacca gambe su cemento. Si torna infine a Dazio e si riprende la via dei Terrazzamenti, con un’ultima salita che per fortuna conosco; arrivo infine a Cerido, poi a San Bello e da qui prendo la ripida mulattiera che scende verso il ponte romano, portandomi alla fine delle mie fatiche.
Facile percorso trail da Calascio alla spettacolare Rocca Calascio, uno dei luoghi simbolo dell’Abruzzo, e da qui verso Campo Imperatore, al cospetto del Gran Sasso.
Dopo mesi di allenamenti machiavellici su strada e piccoli infortuni, posso finalmente concedermi qualche trail in compagnia e opto per un viaggetto con Tony nel cuore del selvaggio Abruzzo. Lo so, il parco nazionale del Gran Sasso non è esattamente “a due passi da Milano”, ma si tratta di un posto davvero fantastico per noi amanti della corsa in montagna.
Spazi sconfinati al cospetto del Gran Sasso.
Studiando le mappe di Strava, mi invento un percorso a bassa quota, tra 1000 e 1600 m, per vedere il Gran Sasso innevato senza rischiare di finire su sentieri alpinistici. Saliamo in auto fino a Calascio, graziosissimo borgo a 1200 m di quota, facilmente raggiungibile da una bella strada a tornanti che farebbe gola a qualsiasi ciclista. Da qui, seguendo indicazioni e bolli, prendiamo il sentiero per Rocca Calascio, il punto più caratteristico di tutto il giro.
Rocca Calascio.
Questo antico castello, mezzo diroccato ma ancora affascinante, è famoso per essere stato il set di Lady Hawke e anche, ci dicono i locals, di altri film più recenti. Dalla rocca il nostro percorso prosegue in discesa verso la meno antica ma comunque graziosa chiesa di Santa Maria, poi ancora oltre, verso lo sfondo di montagne innevate che si staglia davanti a noi.
Da qui in avanti non ci sono più indicazioni, bisogna affidarsi alle tracce gpx. Corriamo comunque per tutto il tempo su strade sterrate o asfaltate o, al massimo, per facili sentieri: posti che definire poco battuti è un eufemismo, ma noi runner un po’ misantropi non potremmo chiedere di meglio.
La strada sterrata che stiamo seguendo ci porta alla strada asfaltata per Campo Imperatore, che erroneamente imbocchiamo verso sinistra, in discesa: la cosa migliore sarebbe prenderla nella direzione opposta, cioè appunto verso Campo Imperatore. Dopo qualche tornante in discesa prendiamo un sentiero poco battuto e risaliamo verso la strada, che imbocchiamo ora nel senso giusto. La salita è lunga e noiosa, ma con una vista spettacolare, proprio come piace a me. Tony però ha scarpe poco adatte all’asfalto e anche il mio neuroma di Morton dopo qualche chilometro comincia a fare i capricci. Decidiamo allora di improvvisare e prendiamo una specie di sentiero in discesa da un tornante della strada.
Ci lanciamo per sentieri ignoti.
In alcuni punti la traccia è più evidente, in altri andiamo un po’ a caso, ma sono tutti sentieri facilissimi e non corriamo nessun rischio anche correndo off-road. L’unica forma di vita che incontriamo è un branco di cavalli, per il resto siamo solo noi in mezzo a spazi sconfinati.
A Campo Imperatore non arriviamo, alla fine. Seguiamo tracce di sentiero lungo il crinale delle colline e troviamo una stradina sterrata che sembra tornare in direzione Calascio.
Invitante stradina sterrata in direzione Calascio.
Una bella e facile discesa, che con i piedi in altre condizioni ci mangeremmo, ci porta a quello che in estate deve essere un alpeggio: una baita e una fontana (chiusa) sono le prime tracce umane che incontriamo da molto tempo. Al bivio teniamo la sinistra, per evitare di tornare verso la strada asfaltata di prima, e continuiamo a perdere quota fino a riemergere su un’altra strada, quella che collega Calascio con Castel del Monte. Dopo qualche verifica sulle mappe di Google, seguiamo questa strada – ahimè, leggermente in salita – fino a tornare alla macchina. Involontariamente abbiamo parcheggiato vicino a una trattoria e quando arriviamo è giusto ora di pranzo: la degna conclusione di questo giro non può essere che un vaso di arrosticini fumanti!