Percorso facile e sicuro anche con i sentieri innevati. Vista spaziale a trecentosessanta gradi!
Civate – Località Pozzo – Suello – Cesana Brianza – Santuario Madonna della Neve – Alpe Carella – Monte Pesora – Monte Cornizzolo (1241 m) – Rifugio SEC – sentiero 11 per Civate.
Povero Cornizzolo, lo usiamo sempre come ripiego quando le condizioni impediscono di andare altrove! Eppure questa montagna di altezza modesta, davvero a due passi da Milano, offre una rete di sentieri facili e sicuri, perfettamente segnati, e una vista che, nelle giornate limpide, spazia dal lago di Como fino al Monte Rosa e al Monviso.
Ve l’ho proposto in tutte le salse: in versione notturna (Cornizzolo di Natale), con la nebbia in autunno (Dai Corni di Canzo al Cornizzolo) e persino con la pioggia (Trail per un giorno di pioggia). Mancava giusto un Cornizzolo con la neve fresca! Dopo le abbondanti nevicate dei giorni scorsi, io e Marta abbiamo optato per questo giro breve, semplice ma panoramico. La partenza è dal solito parcheggio in via Cerscera a Civate, da dove si comincia a salire lungo la strada verso la Località Pozzo.
Una volta alla Località Pozzo, dove quasi tutti i sentieri sono indicati verso destra, noi prendiamo la stradina pianeggiante verso sinistra, che seguiamo fino a Suello. Da qui si continua lungo la strada asfaltata fino a Cesana Brianza: un paio di chilometri noiosi, ma veloci. In salita ora, si supera il piccolo parco del Roccolo e finalmente ricomincia lo sterrato. Un sentiero in salita ci porta, senza possibilità d’errore, al santuario Madonna della Neve.
Senza superare il santuario, bisogna prendere il sentiero un po’ nascosto che sale verso destra, seguendo le indicazioni per il Cornizzolo. Si sale per poco lungo una strada sterrata e, al tornante, si prende il sentiero che prosegue dritto nel bosco in direzione Campora. Basta ora continuare lungo questo sentiero fino a incrociare la strada a tornanti che da Eupilio sale verso il Cornizzolo.
La strada, monotona e mai troppo ripida, si presta bene agli allenamenti di corsa. Noi oggi preferiamo salire camminando lungo il sentiero che taglia i tornanti. Incontriamo però parecchie persone che stanno salendo o scendendo dalla strada, anch’essa innevata più o meno come il sentiero.
Sbucando dal bosco, veniamo aggredite da raffiche di vento e, bardandoci quanto possibile, attacchiamo la cresta del monte Pesora. L’alternativa qui, in caso di cattivo tempo, è proseguire lungo la strada che porta dritto al rifugio SEC. La salita diventa più ripida, ma mai esposta o pericolosa. A 1000 metri di quota ci sono forse 10-15 cm di neve: il vento sale dal lago e ha quasi del tutto ripulito il lato sinistro della montagna, accumulando la neve in cresta e sul lato destro.
Raggiungiamo e subito abbandoniamo la cima del Pesora, dove si fatica a rimanere in piedi da quanto è forte il vento. Proseguiamo lungo il sentiero in discesa e vediamo di fronte a noi la nostra meta, il Cornizzolo.
Un’ultima salitella ci porta alla croce di vetta, provvidenzialmente collocata su un grosso blocco di cemento che offre riparo dal vento. Da qui ci godiamo la vista dell’intero arco alpino, dalle prealpi lombarde fino al Rosa e al Monviso. L’idea era quella di proseguire verso il Rai e il Corno Birone, ma il percorso sarebbe tutto in cresta e con questo vento ci passa la voglia.
Scendiamo allora al rifugio SEC e, da qui, andiamo a prendere il sentiero 11 per Civate. L’alternativa è il sentiero 10, che scende tutto nel bosco passando per l’abbazia di San Pietro; l’11 rimane più aperto e rientra nel bosco solo nel tratto finale. Entrambi i sentieri comunque sono ben segnati e, oggi, piuttosto fangosi.
Tra qualche scivolata nel fango e tratti in cui dobbiamo rallentare per la neve ghiacciata, arriviamo senza difficoltà alla Località Pozzo e, da qui, torniamo sui nostri passi fino alla macchina.
Autunno inoltrato, meteo incerto e voglia di far girare le gambe: con Tony e Meme optiamo per il percorso permanente di una gara a cui Tony ha già partecipato due volte, la nota Sky del Canto. Il giro è segnato, ma conviene comunque utilizzare la traccia gpx per non perdersi tra i mille sentieri che si incrociano nei boschi.
La partenza è da Carvico, dove conviene parcheggiare in via Predazzi. Dal parcheggio si vedono subito le indicazioni per il monte Canto, che con i suoi 700 m rappresenta il punto più alto del giro. Si chiama “Sky”, ma io lo definirei piuttosto un bel percorso trail: i sentieri sono facili e corribili, anche se il fango può dare qualche problema, e il dislivello è ben distribuito su quattro salite. Tra queste, la più lunga e la più dura è senza dubbio l’ultima.
Partiamo lungo la strada, tenendo il campo di tiro a segno alla nostra destra, e cominciamo a seguire i cartelli della gara. Dopo un paio di chilometri di saliscendi, il percorso si inerpica e la strada diventa sentiero, fangoso per le recenti piogge. La prima salita ci porta alla croce grande del monte Canto, che però non rappresenta la “vera cima” di questa montagnetta, da cui si passerà solo alla fine del giro.
Superata la croce, ci troviamo a un crocevia di sentieri da cui il percorso di gara passa due volte: bisogna quindi prestare attenzione e prendere il sentiero in discesa verso sinistra, mentre il sentiero verso destra, anch’esso indicato da un cartellino “SKY”, è quello che prenderemo alla fine del giro per tornare a Carvico.
Dopo una divertente discesa di circa 2 km, svoltiamo tutto a destra e intraprendiamo la seconda salita, molto più breve delle altre tre, che ben presto ci porta alla chiesetta di Santa Barbara (667 m).
Si scende ora, prima su fangoso sentiero e poi su una mulattiera resa scivolosa da un manto di foglie bagnate. La mulattiera ci deposita sulla strada asfaltata all’altezza dell’abbazia di Sant’Egidio in Fontanella. Qui troviamo un’utilissima fontanella e un inquietante monumento a due gufi/monaci.
Proseguiamo in discesa lungo la strada fino a un piccolo cimitero. Da qui, seguendo le indicazioni, si riprende il sentiero, che dopo un breve saliscendi ricomincia a scendere. La discesa finisce poco prima del dodicesimo chilometro: si svolta tutto a destra lungo una stradina in cemento, che sale ripida fino alla rocca degli Alpini di Sotto il Monte.
La salita continua ora su facile sentiero, fino a raggiungere una strada carrozzabile a tornanti dove comincia la nostra terza discesa. Dopo qualche tornante si abbandona la strada per prendere un sentiero sulla sinistra: le indicazioni ci sono, ma noi non le abbiamo notate subito e abbiamo trovato utile, anche qui, la traccia gpx.
Questa terza discesa finisce poco prima del sedicesimo chilometro. Anche qui troviamo una chiesa e una fontanella, utile per rabboccare le borracce prima dell’ultima faticosa salita. Ci inoltriamo di nuovo nel bosco seguendo i soliti cartelli “SKY”, che a un certo punto però spariscono. A un crocevia di sentieri senza indicazioni bisogna tenere la sinistra, in leggera discesa, e poi prendere un ripido sentiero in salita sulla destra. Senza la traccia gpx in questo punto non ce la saremmo cavata!
Finalmente ricompaiono i cartelli, che ci accompagnano ormai senza possibilità d’errore fino alla “vera cima” del monte Canto (700 m), indicata da una piccola croce in legno. Superata la croce, torniamo verso il punto da cui siamo passati all’inizio del giro e svoltiamo questa volta dalla parte opposta.
Con la cima del monte Canto finisce la quarta e ultima salita del percorso di gara, ma non le difficoltà del percorso: la discesa è infatti più ripida rispetto alle precedenti, a tratti tecnica e scivolosa per il fango e le foglie. In breve però il sentiero ci porta fuori dal bosco e in vista del campo di tiro a segno da cui siamo passati all’andata. Da qui un brevissimo tratto su strada ci riporta al parcheggio.
Giro orobico super panoramico, con tratti veloci tutti da correre e tratti tecnici (EE) in cui procedere con cautela, soprattutto con la prima neve.
Serina – Valpiana – Ca’ di Zocc – Pian della Mussa (1306 m) – Passo Sapplì (1486 m) – Baita Sura – Cima della Croce (1975 m) – Passo della Forca (1848 m) – Monte Alben (2019 m) – Baita Sura – Cornalba – Serina.
Periodo: Novembre 2021
Partenza: Serina
Distanza: 21 km
Dislivello: 1575 m
Acqua: portare scorta sufficiente per tutto il giro
Come da tradizione, con l’arrivo della prima neve, non potevo perdermi il giretto orobico organizzato da Tony per ammirare il monte Alben imbiancato di fresco. Da Serina si sale per boschi fino alla Baita Sura, si valutano le condizioni della neve e si decide come e quanto proseguire. Quest’anno siamo stati fortunati: la poca neve bella asciutta, un meteo ideale, freddo ma con il sole e senza un filo di vento, e la quasi totale assenza di ghiaccio ci hanno permesso di salire prima alla Cima di Croce e poi alla vetta dell’Alben senza difficoltà, chiudendo un bel percorso ad anello, panoramico e allenante, che consiglio a tutti i runner esperti.
Questo giro è sempre fattibile nella stagione estiva, solo tenendo conto di un breve tratto EE tra il passo della Forca e la cima dell’Alben, e che non si trova acqua se non nella parte finale del percorso; in inverno, invece, le condizioni della montagna possono rendere inaccessibili le due vette, o quantomeno richiedere un’attrezzatura alpinistica. L’inverno scorso, per esempio, siamo riusciti a salire alla Croce con le ciaspole, ma abbiamo dovuto rinunciare all’Alben per la troppa neve. Quest’anno invece ce la siamo cavata facilmente, senza nemmeno mettere i ramponcini. Mi raccomando, fate sempre attenzione e valutate bene e condizioni prima di avventurarvi in alta montagna.
Si parte dal centro sportivo di Serina, seguendo per un breve tratto la strada in salita verso Valpiana. Al secondo tornante abbandoniamo l’asfalto per prendere la carrozzabile che sale direttamente a Valpiana passando per un bel bosco in veste autunnale.
Torniamo per un breve tratto sulla strada principale, che di nuovo abbandoniamo per prendere la stradina a destra in direzione Ca’ di Zocc. Da qui, ignoriamo la via più breve per l’Alben e prendiamo la pista da fondo in direzione Pian della Mussa. Questo sentiero, che in inverno diventa appunto un percorso per gli sciatori, in assenza di neve è un ottimo saliscendi per noi runner!
Sbuchiamo finalmente a Pian della Mussa, un bel pianoro a 1300 m di quota, che alle nove e mezza del mattino troviamo ancora immerso nell’ombra e nella brina.
Da qui le indicazioni da seguire sono quelle per Casina Bianca, passo Sapplì e monte Alben. Ci inoltriamo di nuovo nel bosco lungo un bel sentiero corribile, seguendo ora a ritroso il percorso della Maga Skymarathon, accompagnati dalla maestosa presenza dell’Arera imbiancato.
Dopo un tratto di saliscendi, arriviamo a Casina Bianca e da qui il sentiero comincia a salire con decisione verso il passo Sapplì. Arrivati al passo, a poco meno di 1500 m di quota, troviamo la prima neve.
Il sentiero ora spiana e prosegue di nuovo a saliscendi fino al pianoro dove, superati gli ultimi alberi, la vista si apre sull’Alben. Finalmente vediamo la nostra meta! Non siamo sicuri di riuscire ad arrivarci con le nostre scarpette da corsa, ma decidiamo intanto di avvicinarci e tastare il terreno.
Arriviamo alla Baita Sura, affollata come sempre, e proseguiamo in direzione della Cima di Croce, a sinistra dell’Alben, seguendo le tracce di chi è già passato e i bolli che emergono qua e là tra la neve.
Man mano che guadagniamo quota la neve aumenta, ma saranno non più di 15-20 cm. Il sentiero più battuto è quello che sale verso il passo della Forca, la più facile via di accesso alla Cima di Croce. Troviamo tuttavia anche le impronte di qualcuno che è salito dal sentiero meno noto, indicato da bolli rossi e qualche freccia, da cui scende la Maga Skymarathon, ed è da qui che decidiamo di passare anche noi.
Si sale per roccette, senza particolari difficoltà ma sempre prestando grande attenzione per via della neve. In qualche punto bisogna un po’ arrampicarsi, ma la neve è morbida e non c’è ghiaccio, per cui ce la caviamo senza problemi e ben presto arriviamo alla croce di vetta.
Si scende ora dalla via più battuta verso il passo della Forca. Certo il sentiero qui è più facile, ma proprio il fatto di essere stato già percorso da tanti lo rende insidioso: alcuni tratti sono scivolosi e ghiacciati. Riusciamo comunque ad aggirarli senza grossi problemi, passando qua e là nella neve fresca, e ben presto arriviamo al passo.
Ci aspetta adesso la salita più impegnativa, quella per la cima dell’Alben, con un tratto di sentiero indicato come EE. In estate si tratta solo di qualche saltino di roccia, ma con la neve tutto può risultare più difficile. All’imbocco del sentiero incontriamo però due ragazzi che stanno scendendo e che ci rassicurano sulle condizioni del percorso.
Anche qui non troviamo ghiaccio se non in pochissimi punti in ombra e la salita risulta molto divertente. Il paesaggio da questa cresta è sempre spettacolare, ma con la neve e il cielo blu di questa fantastica giornata d’autunno sembra ancora più bello.
Rimaniamo poco in vetta, troppo affollata e rumorosa per i nostri gusti. Scendendo, torniamo per un breve tratto sui nostri passi e riprendiamo poi la cresta verso sinistra, in direzione opposta rispetto a quella da cui siamo arrivati. C’è un sentiero che scende alla Baita Sura, ma pare che l’unico a percorrerlo prima di noi sia stato un cerbiatto con un notevole senso dell’orientamento.
Poco male, il Tony conosce questi posti come le sue tasche e, con l’aiuto della traccia gpx e di qualche bollo che emerge dalla neve, traccia il sentiero per la discesa. Viene fuori alla fine che il capriolo ha davvero seguito i bolli, salvo un paio di punti in cui al sentiero ha preferito creste e canali! Arriviamo alla Baita Sura con i piedi congelati e, sperando di ripristinare la circolazione, ripartiamo subito di corsa in direzione Cornalba.
Il sentiero per Cornalba è facile e corribile, seppure ricoperto di foglie. Troviamo finalmente un rigagnolo dove rabboccare le borracce: nonostante le temperature basse, il sole che abbiamo preso in cresta ci ha fatto venire sete! Alla fine della discesa, imbocchiamo la mulattiera verso destra che ci porta in paese.
Arrivati in paese, seguiamo la strada fino al cimitero e da qui prendiamo la Variante Mercatorum, bene indicata, in direzione Serina. Avete presente quelle gare in cui uno pensa di avere quasi finito e invece mancano ancora 3-4 km di saliscendi con più di 100 m di dislivello? Ecco, Tony è riuscito a mettere insieme un percorso che farebbe invidia al più sadico degli organizzatori! Brontolando, cerco di tenergli dietro nelle ultime salitelle e finalmente arriviamo in vista di Serina. Passiamo dal Residence la Pineta e prendiamo infine il sentiero in discesa che ci riporta al parcheggio. E per concludere degnamente la giornata non possono mancare un paio di birre e un trancio di pizza al nostro affezionatissimo bar Fontana, nel centro storico di Serina.
Una cima modesta ma degna del suo nome, con vista spaziale sulla valle di Preda Rossa, i Corni Bruciati e il monte Disgrazia.
Narra la leggenda che, un tempo, la valle di Preda Rossa fosse ricoperta da una vegetazione lussureggiante. E quello che oggi è il monte Disgrazia veniva chiamato “Pizzo Bello” per i pascoli verdi e i boschi rigogliosi che ricoprivano i suoi pendii. Tanto splendente e affascinante era questa montagna, che i pastori dagli alpeggi passavano il tempo a rimirarla e a vantarne la bellezza.
Finché un giorno Dio si presentò nella valle sotto le spoglie di un mendicante. Anziché offrirgli cibo e riparo, i pastori lo derisero e maltrattarono. Dio decise di punirli per la loro arroganza togliendo loro quello di cui andavano più orgogliosi: un devastante incendio distrusse la valle, lasciando solo una distesa di rocce rosse – da cui il nome “Preda Rossa” – su cui si ergono le aride cime dei Corni Bruciati. Quello che era il Pizzo Bello, ormai una desolata montagna priva di vegetazione, prese il nome di Disgrazia (dal lombardo des-giassa, “disghiaccia”).
I pastori, pentiti della propria superbia, trovarono rifugio sui più umili pendii della val Terzana: ai piedi del monte Scermendone costruirono la chiesetta di San Quirico e chiamarono “Pizzo Bello” una cima così modesta che fino allora non aveva mai nemmeno avuto un nome. Ben pochi, tuttora, conoscono questa montagna, che si scala con tanta fatica e poca gloria. Ma il suo nome se lo merita tutto!
Per me e Lucia, il Pizzo Bello è la montagna di casa. Era da un po’ che volevamo andarci insieme e abbiamo deciso di approfittare del meteo spaziale di un weekend di metà ottobre, con temperature polari e quel cielo terso che solo l’autunno sa regalare. Il tempo a disposizione è poco, ma abbiamo gambe forti e un’invidiabile capacità di sopportazione del freddo e della fatica!
Il ritrovo è alle 5 e mezza sulla mulattiera che unisce i nostri paesi, Monastero e Berbenno. Parto da casa poco dopo le 5, sotto una stellata pazzesca che mi fa subito dimenticare il disagio del gelo e della levataccia. La luce della frontale riflette innumerevoli occhietti che spuntano tra gli alberi per scrutarmi incuriositi: di notte, quando gli umani non disturbano, il bosco brulica di vita.
Dal buio spuntano finalmente gli occhi di Nami, la super cagnolina ultrarunner, seguiti dalla frontale di Lucia. Ha dormito appena tre ore, ma come sempre mi fa mangiare la polvere! Saliamo fino a Prato Maslino per ripidi sentieri, chiacchierando e godendoci i fruscii del bosco, la fatica nelle gambe, il nostro respiro nell’aria sempre più fredda. Di solito le amiche si incontrano al bar, non per sentieri bui e deserti: ma quanto è bello essere le uniche umane in un mondo di sola natura, forti e indipendenti, capaci di arrivare dove ci pare senza chiedere niente a nessuno?
Superato Prato Maslino, imbocchiamo il sentiero per il Pizzo Bello e ci rendiamo conto che, fuori dalla fitta vegetazione in cui eravamo immerse, è già abbastanza chiaro da spegnere la frontale. L’erba ghiacciata scricchiola sotto i nostri passi e i versanti nord delle montagne intorno a noi sono coperti da uno strato di neve: la temperatura deve essere ben sotto zero e i guanti non bastano più a tenerci calde le mani.
Che spettacolo, però, ammirare dall’alto la Valtellina addormentata, immersa nell’ombra e nella foschia, mentre le cime delle montagne cominciano una dopo l’altra a risplendere, illuminate dal primo sole.
Il sole batte anche sul nostro Pizzo Bello ed è con un certo sollievo che attacchiamo la cresta finale, cominciando finalmente a riscaldarci dopo tutta la salita in ombra. Bisogna prestare attenzione alle ultime roccette, ma in un attimo siamo alla croce. Che meraviglia vedere da qui la valle di Preda Rossa, i Corni Bruciati e il Disgrazia! Anche se spoglie e prive di vegetazione, queste montagne rimangono di una bellezza struggente.
Sono da poco passate le 8 e nelle gambe abbiamo rispettivamente 2150 m (da Monastero) e 2400 m (da Berbenno) di dislivello. Ma chi la sente la fatica, in un posto così bello?
Dopo le foto di rito, ci apprestiamo a scendere. Lucia è una discesista formidabile e deve essere a casa presto, mentre io ho più tempo a disposizione e decido di rimanere ancora un po’ a godermi il panorama nel silenzio più assoluto. Fino a mezz’ora fa fermarsi avrebbe comportato una rapida morte per assideramento, ma il sole fa miracoli e adesso si sta proprio bene. Guardo Lucia e Nami che scendono a tutta velocità per i ripidi prati dell’alpe Baric, due puntini che rapidamente spariscono alla vista.
Mi godo ancora per qualche minuto la pace e la bellezza di quest’alba a 2700 m di quota, poi anche io comincio a scendere verso casa. Il mondo si sta risvegliando e sul sentiero incontro i primi escursionisti: hanno parcheggiato a Prato Maslino e si stanno incamminando verso la cima di Vignone. Sorrido tra me, pensando a quanto diversa e intensa è stata invece la nostra uscita per le stesse montagne. Che fortuna avere gambe forti che ci portano lontano!
Conclusa una bella stagione di allenamenti e gare, torno a dedicarmi a quella che in fondo è la mia specialità: l’esplorazione! Era da un po’ che non andavo a caccia di sentieri e finalmente ho avuto l’occasione di provare un nuovo anello vicino a casa. La partenza è da Sirta, sul versante orobico della Valtellina, all’altezza del fiume Adda e del sentiero Valtellina (per trovarlo su Google maps, il paese da cercare è Forcola). Più di una volta, passando di qui per le mie “recovery run” in piano, ho buttato l’occhio a questo bel paesino incastonato tra ripide pareti rocciose, chiedendomi come fossero i sentieri lassù.
La risposta è che sono fantastici! Una rete di mulattiere in ottime condizioni unisce infatti gli alpeggi di Bures, Sostila e Somvalle e permette di fare un bel giro ad anello passando per la selvaggia val Fabiolo e per la cima poco fantasiosamente nominata Culmine (1302 m), con scorci prima sulla bassa Valtellina con lo sfondo del Legnone, poi sulle cime della Val Masino e infine sulla Val Tartano.
Dopo avere dunque parcheggiato lungo l’Adda, si entra in paese raggiungendo la chiesa, la cui cupola svetta tra le case. Proprio dietro la chiesa comincia la mulattiera. Impossibile sbagliare: trovo subito chiare indicazioni per la val Fabiolo e poi per Bures. Sono le 17,30 passate quando parto e so che mi toccherà scendere al buio, per cui trovo particolarmente rassicuranti i puntuali cartelli e il buono stato dei sentieri.
Se avessi uno zaino, mi verrebbe probabilmente la tentazione di fermarmi a far castagne, tante se ne trovano in questa prima parte di bosco. Ma sono uscita in pantaloncini e maglietta, giusto con il telefono e la frontale, e due o tre chili di castagne non saprei proprio dove metterli. Proseguo allora con la mia passeggiata, sempre seguendo le indicazioni per Bures.
Il percorso è molto grazioso, con tre ponticelli in pietra e diverse cappellette affrescate. La pendenza non è eccessiva e mi permette in alcuni tratti anche di corricchiare. Supero, senza attraversarlo, un primo ponte e una cappelletta. Seguo il corso del torrente Fabiola, che attraverso in due punti, con il secondo e il terzo ponte, e ben presto arrivo a Bures (630 m).
L’anello vero e proprio comincia da qui: prendo infatti il sentiero 170 a destra, in direzione Sostila, mentre tornerò da quello a sinistra, sempre numerato come 170. La pendenza aumenta un po’ e in poco tempo percorro i 200 m di dislivello che mi separano da Sostila (821 m). Più grande di Bures, questo paesino è davvero graziosissimo!
Il sentiero prosegue in piano tra le baite; supero una chiesetta e arrivo a un bivio, dove si trova anche una fontana: qui prendo il sentiero in salita verso sinistra. La pendenza aumenta ancora e la vegetazione comincia a cambiare: verso i 1000 m di quota cominciano infatti le betulle. Arrivo in vista del Crap del Mezzodì, altra cimetta sui mille metri, e alla Pciöda Granda, un balcone panoramico con vista sul Legnone.
Il sentiero continua a salire con decisione e guadagno rapidamente altri 200 m di dislivello, prima di arrivare a un punto pianeggiante dove posso tirare il fiato. Corricchio in piano per poche centinaia di metri, fino a raggiungere un nuovo bivio. Bisogna prendere qui il sentiero in salita verso sinistra per raggiungere il Culmine, seguendo le indicazioni per una croce che, in realtà, alla fine non ho trovato.
Percorro dunque questo sentiero in leggera salita, passando per un’area pic-nic con tavoli in legno e persino un chiosco (ovviamente chiuso), e arrivo alla piatta cima del Culmine aspettandomi di vedere la famosa croce come da indicazioni.
La vista sulle cime della Val Masino, con la luce calda del tramonto e il primo foliage d’autunno, è davvero fantastica, ma della croce neanche l’ombra. La cerco un po’, proseguendo nel bosco di felci e betulle, ma niente da fare. Mistero.
Torno sui miei passi fino al bivio. Da qui si può scendere per la stessa via di salita, ma naturalmente non è questa una soluzione accettabile per un blog che si chiama “Trail Rings”. Prendo dunque il sentiero verso sinistra che, dopo una discesa abbastanza ripida in un bosco sempre più buio, mi porta in vista di Campo Tartano.
Continuo a seguire il sentiero, ora in leggera discesa, fino a Somvalle, paesino che si trova poco più in basso rispetto a Campo Tartano. Questo è l’unico punto in cui non ho trovato indicazioni utili: basta comunque prendere la strada più a sinistra, che diventa poi una carrozzabile in leggera discesa e si trasforma infine in quel sentiero 170 che porta a Bures dalla direzione opposta a quella dell’andata.
Una cascata è praticamente l’ultima cosa che vedo prima di riaddentrarmi nel bosco e, a questo punto, accendere la frontale: sono le 19,30 e ormai è quasi del tutto buio. Con il crepuscolo, il bosco brulica di animali: una volpe, sorpresa dalla mia presenza, mi sfreccia davanti lungo il sentiero, mentre un gruppo di cerbiatti corre a nascondersi tra gli alberi al mio passaggio.
Seguo senza difficoltà le indicazioni per Bures e, da qui, non mi resta che ripercorrere la mulattiera dell’andata fino a Sirta. Sbucando dal bosco, mi accolgono le luci del paese e lo spettacolo della chiesa illuminata.
Sono le 20 quando arrivo alla macchina, felice di questo nuovo percorso che di sicuro ripeterò nel corso dell’autunno. Chi volesse farlo in pieno inverno farà bene a portarsi i ramponcini, dato che ci troviamo sul versante orobico che per mesi non riceve un raggio di sole.
È passato quasi un anno dalla prima volta che ho fotografato uno dei cartelli gialli della via dei terrazzamenti, ripromettendomi di cercare poi maggiori informazioni a riguardo. Ho così scoperto questa lunga traversata valtellinese da Tirano a Morbegno, adatta proprio a tutti, che permette di scoprire gli angoli più caratteristici della Valtellina. Se anziché ammazzarvi di corsa preferite passeggiare con calma, il giro può essere diviso in più tappe, diventando un vero tour culturale nonché eno-gastronomico: dopo avere visitato chiesette e castelli, potete provare i pizzoccheri di Teglio, le cantine della Strada del Vino da Chiuro a Sondrio a Berbenno, le mele, la bresaola e il bitto valtellinesi, il miele autoprodotto praticamente in ogni paesino, i piccoli agriturismi a conduzione familiare.
Il percorso coincide per metà con quello del Valtellina Wine Trail, da Tirano a Sondrio, e prosegue poi da qui a Morbegno passando per i meno noti paesi di Berbenno di Valtellina, Buglio in Monte, Ardenno e Dazio. Il periodo ideale è l’autunno, tra ottobre e novembre: in questi mesi i vigneti si tingono di rosso e la temperatura è generalmente più gradevole, considerando che si rimane sempre a bassa quota. Svolgendosi sul lato solivo della Valtellina, la via dei terrazzamenti è in realtà perfetta anche per l’inverno e sconsigliabile in piena estate. A me però serviva un “lungo” di inizio settembre e così, con la super socia Marta che a queste cose non dice mai di no, ho sfidato il caldo e sono andata in esplorazione fuori stagione, con il sole a picco, i campi carichi di mele e l’uva ancora acerba prima della vendemmia. Le mille fontane sparse lungo il percorso rendono comunque il caldo più tollerabile e permettono di correre senza preoccupazioni con una sola flask.
La logistica normalmente è semplice: si lascia l’auto a Morbegno, nel comodo parcheggio di via Martinelli vicino alla stazione, si prende il treno fino a Tirano e si torna a piedi. Ma vuoi non trovare uno sciopero ferroviario proprio la domenica in cui hai in programma il tuo lungo? Abbiamo dunque optato per la poco ecologica soluzione delle due auto: la prima resta a Morbegno, e a questo punto tanto vale lasciarla lungo l’Adda all’altezza del ponte romano, il posto più comodo per il ritorno; la seconda a Tirano, e anche lì se ne può approfittare per “tagliare” qualche centinaio di metri di asfalto parcheggiando in via Italia angolo via Giussani.
Si parte dunque seguendo i cartelli gialli e il segnavia bianco-rosso in direzione della chiesa. Dalla piazza della chiesa bisogna cercare il piccolo segnavia bianco-rosso su un palo poco visibile, che indica il cammino da seguire oltre una porta ad arco, lungo una stradina lastricata. Si prosegue poi fino al ponte pedonale che attraversa il torrente Poschiavino e, da qui, le indicazioni si vedono meglio.
Si tenga conto che, nonostante i cartelli, è facile perdere di vista il sentiero tra incroci, tratti su strada e vigneti, per cui la traccia gpx è molto utile. La via dei terrazzamenti può inoltre risultare “dispettosa”, con deviazioni che fanno inutilmente perdere e riguadagnare dislivello: dato che 70 km sono già parecchi, abbiamo cercato di evitare queste deviazioni, per cui risulterà che la traccia gpx si discosta in alcuni punti dal percorso indicato dai cartelli.
La prima salita porta al complesso di Santa Perpetua, che domina dall’alto i vigneti e la città di Tirano. Da qui prendiamo la strada in discesa verso sinistra e ci dirigiamo verso Villa di Tirano. Dopo qualche saliscendi, affrontiamo la prima salitona (si fa per dire, essendo un percorso collinare) da Campagna a Teglio, circa 400 m di dislivello.
A Teglio raggiungiamo il punto più alto del percorso, piazza Santa Eufemia (851 m). Varrebbe la pena di fare una sosta in questo paese e scoprirne i monumenti, che sembrano molto bene indicati, ma siamo solo al dodicesimo di 70 km e non possiamo permettercelo! Ci limitiamo dunque a riempire le borracce a una fontana e tiriamo dritto in direzione Chiuro.
Una comoda e facile discesa, che purtroppo ci tocca interrompere qua e là per motivi di orientamento, ci porta a Chiuro. Qui di nuovo facciamo rifornimento d’acqua – sull’asfalto il caldo è davvero fastidioso – e attraversiamo il torrente Fontana, preparandoci per una nuova salita.
Ricominciamo a guadagnare quota, passando sopra Ponte in Valtellina, che vediamo poco più in basso, e mettiamo insieme qualche altro centinaio di metri di dislivello tra mulattiere, strade e sentieri. Il paesaggio agricolo alla lunga è un po’ monotono, ma dalla noia ci distraggono ogni volta una bella chiesetta, un paesino, una fontana d’acqua fresca.
Adesso, più che l’uva, sono le mele a farla da padrone: non avevo ne avevo mai viste così tante tutte insieme! Corriamo tra file di meli dai frutti ora gialli, ora rosso chiaro, ora rosso scuro, dall’aspetto davvero invitante.
Scendiamo verso Tresivio e torniamo tra le vigne, mentre sullo sfondo compare il pittoresco Castel Grumello. Noi lo abbiamo evitato per non allungare ulteriormente, ma nulla vieta di fare tappa anche qui! Dopo Tresivio passiamo da Poggiridenti – siamo a circa 28 km dalla partenza – e qui incontriamo un simpatico runner con l’inconfondibile maglia del Valtellina Wine Trail.
Andrea da Sondrio conosce questi sentieri come le sue tasche e ci affidiamo volentieri alla sua guida per qualche chilometro. Superata Montagna in Valtellina, scendiamo fino a incontrare il corso del torrente Mallero, dove inizia la Valmalenco, lo attraversiamo e risaliamo al grazioso borgo di Maioni.
Continuiamo a seguire la via dei terrazzamenti per sentieri e mulattiere, salutando Andrea che deve rientrare a Sondrio. Noi non passiamo dalla città, ma ci manteniamo alte nei vigneti che la sovrastano. Siamo circa a metà percorso e ci aspettano circa 15 km di saliscendi da qui a Berbenno di Valtellina.
Superiamo Castione Andevenno, anche qui senza entrare in paese, e attraversiamo la pittoresca frazione di Vendolo prima di inoltrarci nei boschi che ancora ci separano da Postalesio e Berbenno. Per chi fosse interessato a un giro di più giorni, a Postalesio si possono visitare le caratteristiche piramidi di terra, facilmente raggiungibili dalla via dei terrazzamenti.
Purtroppo a questo punto il ginocchio di Marta ci abbandona definitivamente e la mia socia è costretta ad abbandonare l’impresa: si ritira a Berbenno, con 50 km e oltre 2000 m di dislivello all’attivo. Per fortuna qui la aspetta Lucia, local legend nonché mia vicina di casa, che è appena tornata carica di premi (come al solito) dalla Rosetta Skyrace e le darà un passaggio fino a Morbegno. Io pure mi ritirerei volentieri, ma questo lungo mi serve e ho intenzione di finirlo! Proseguo dunque per Regoledo seguendo la via dei terrazzamenti, che però abbandono prima della salita per Monastero: so infatti che qui il sentiero è franato di recente e risulta di difficile percorrenza.
Per fortuna da queste parti sono di casa e ho un piano di riserva: prendo il sentiero della volpe in discesa fino a Ere e, da qui, risalgo verso Maroggia intercettando di nuovo la via dei terrazzamenti. Proseguo a colpo sicuro per i miei sentieri fino a Buglio in Monte – attenzione, ci sono diversi punti in cui le indicazioni mancano e senza la traccia gpx è difficile cavarsela – passando per l’agriturismo Luloc, che consiglio a chi si voglia fermare da queste parti. Da Buglio in Monte si continua a guadagnare quota prima su strada e poi su sentiero, ora con indicazioni più chiare, fino a incrociare una strada con galleria a quota 700 m circa. Finisce qui la penultima salitona del percorso: si svolta a sinistra e comincia la discesa.
A Gaggio, altro grazioso borgo che meriterebbe una sosta, si lascia la strada e si prosegue su mulattiera, sempre seguendo il segnavia bianco-rosso e i cartelli gialli dei terrazzamenti. Anche qui, può darsi che l’orientamento non sia proprio facilissimo per chi venga per la prima volta. Io per fortuna conosco questa discesa a memoria e non devo perdere tempo a cercare la strada.
Perdo quota, sempre seguendo la ripida mulattiera che taglia i tornanti della strada, e ben presto arrivo in vista di Ardenno. La montagnetta di neanche 1000 m che si vede sullo sfondo è la Culmine di Dazio, Colmen per gli amici, ed è l’ultimo ostacolo che ancora mi separa da Morbegno. Senza salire in vetta (per fortuna!) la via dei terrazzamenti passa a destra di questa montagnetta, per il paese di Dazio, seguendo per un tratto il percorso del Colmen trail. Ad Ardenno, finita la discesa, mi aspetta non la salita, ma un chilometro e mezzo in falsopiano, che è anche peggio! Mi impongo di correre, anche se a passo di bradipo, per tutta la strada che attraversa Ardenno fino al ponte sospeso sul torrente Masino.
Eh sì, qui comincia la Val Masino! Attraversato il torrente, prendo la mulattiera in salita verso destra e comincio l’ultimo tratto del percorso: in tutto mi mancano circa 300 m di dislivello, ma almeno qui la strada è abbastanza ripida da camminare con la coscienza a posto. Molto peggio sarà la strada di Dazio, di nuovo un falsopiano corribile – dopo 60 km il concetto di “corribile” si rimette in discussione!
Nel bosco mi oriento facilmente con i cartelli gialli e raggiungo Dazio; da qui proseguo verso Cerido prima in salita, poi finalmente con una lunga discesa su mulattiera. È quasi con commozione che vedo infine la chiesa di Santa Croce comparirmi davanti!
Da qui si prende il sentiero in discesa e, tagliando i tornanti della strada, si perde quota fino all’Adda, arrivando al ponte romano a cui accennavo all’inizio del post. Nel mio caso, la fortuna ha voluto che Marta recuperasse l’auto e mi venisse incontro, risparmiandomi un paio di antipatici chilometri su asfalto! Bilancio della giornata: una gran faticaccia, soprattutto per il caldo, ma tutto sommato uscita produttiva come chilometraggio. Tempi di percorrenza: 10 ore in tutto, di cui circa 9 ore e mezza effettive. Consigliatissimo, meglio se tra un mesetto.
Periplo del Monte del Forno tra Valmalenco e Engadina: Chiareggio – Alpe Vazzeda – Passo Forno (2775 m) – Capanna Forno – Passo del Muretto (2555 m) – Alpe dell’Oro – Chiareggio.
Ecco un percorso di alta montagna relativamente semplice, ma davvero bello e di grande impatto: si supera il confine svizzero tra cime aguzze di oltre tremila metri, seguendo a ritroso il percorso dove nel 1944 l’alpinista e partigiano Ettore Castiglioni perse la vita nel tentativo di rientrare in Italia da Maloja, e si può ammirare quanto rimane del ghiacciaio del Forno, uno spettacolo sempre suggestivo. Quando dico che il percorso è “semplice” intendo un EE privo di grandi difficoltà, solo con pietraie e tratti di sentiero stretto, ripido e un po’ esposto. Naturalmente, viste le quote, la difficoltà aumenta in modo esponenziale in caso di maltempo e neve, e richiede in ogni caso una certa dimestichezza con un ambiente severo di alta montagna.
L’idea è nata la scorsa settimana, dopo l’ennesimo giro con Marta nell’amata Valmalenco: visto che siete sempre da quelle parti, ci ha scritto un’amica della mia socia, dovreste provare a scavallare in Engadina. Detto, fatto. Vedo che da Chiareggio ci sono due passi per l’Engadina: il passo Forno, piuttosto alto con i suoi 2775 m, e il più tranquillo passo del Muretto, a 2555 m. Purtroppo Marta lavora, ma lancio l’idea a Meme che, dopo essere stato tranquillizzato circa l’orario di partenza, accetta di accompagnarmi nell’esplorazione.
Si parte dunque da Chiareggio (accesso con ticket, acquistabile alle macchinette ma anche con Easypark): l’auto va lasciata al pian del Lupo, nell’ampio parcheggio lungo il fiume che si trova alla fine del paese. Si vedranno indicazioni per i vari rifugi della zona, tra cui vanno seguite quelle per il Tartaglione Crispo – facile meta per famiglie – e per il Del Grande Camerini – passeggiata più impegnativa. La partenza è in piano, lungo il corso del torrente.
Dopo poco più di un chilometro si abbandona il sentiero principale seguendo le indicazioni per il rifugio Del Grande Camerini e per il passo Forno, dato a 4 ore di cammino. Noi in tutto abbiamo impiegato meno di due ore dal parcheggio al passo, di buon passo ma senza ammazzarci. La salita dal bivio in avanti diventa più decisa, ma sempre gradevole, con qualche tratto pianeggiante qua e là per tirare il fiato e ammirare il paesaggio.
Ben presto raggiungiamo l’alpe Vazzeda inferiore e senza possibilità d’errore continuiamo a salire seguendo le puntuali indicazioni per il passo Forno, i segni gialli dell’alta via, i bolli bianco-rossi e adesso anche dei nuovi bolli bianco-azzurri – che, scopriremo poi, indicano la traversata alta dal passo Forno al passo del Muretto.
Superiamo anche l’alpe Vazzeda superiore e il bivio con il sentiero che porta, verso sinistra, al rifugio Del Grande Camerini e proseguiamo in salita verso la nostra bocchetta. L’ambiente diventa sempre più bello via via che guadagniamo quota: il gruppo roccioso alla nostra destra è il Monte Forno, mentre le vette che vediamo a sinistra dovrebbero essere le cime Vezzeda e di Val Bona. Metto qui sotto un paio di foto, così se qualcuno le riconosce mi può confermare o correggere!
Altre indicazioni incontrate più in alto mi portano a pensare che la rete di sentieri in questa zona sia più ampia del previsto e che, se i percorsi sono sempre così ben segnati, le possibilità di traversate e nuovi giri ad anello siano tantissime. Per il momento ci atteniamo però all’itinerario stabilito e proseguiamo verso la bocchetta, su un terreno che diventa sempre più una pietraia e con un’ultima lingua di neve (naturalmente Meme sente la necessità di passare proprio da lì).
La bocchetta segna anche il confine di Stato. Da qui sono indicati da una parte Capanna Forno, prossima tappa del giro, che viene data a mezz’ora di cammino sul versante elvetico (segnavia bianco-rosso); dall’altra il passo del Muretto, a due ore di cammino, sul versante italiano ai piedi del Monte del Forno (segnavia bianco-azzurro).
Non conoscendo la difficoltà di questo secondo percorso, ma ben conoscendo il costo dell’elisoccorso svizzero, costringo Meme, già partito lungo la traversata per il passo del Muretto come un bambino al parco giochi, a tornare indietro e a scendere verso Capanna Forno, come da programma.
Perdiamo un centinaio di metri di quota nella pietraia, lungo un percorso sdrucciolevole ma non difficile, e arriviamo in vista del rifugio.
A sinistra, superando il Monte Rosso, compare il ghiacciaio del Forno.
Senza scendere fino al rifugio, seguiamo le indicazioni a destra per Maloja: un lungo traverso con qualche saliscendi, tecnico ma non particolarmente difficile, ci porterà verso il passo del Muretto aggirando il Monte del Forno e i pizzi dei Rossi sul lato elvetico. Approfittiamo di un tubo da cui esce un filo d’acqua per riempire le borracce prima di proseguire.
Lo scenario in questa prima parte del traverso è spettacolare, e lo diventa ancora di più quando raggiungiamo un laghetto alpino ai piedi del Monte del Forno.
Il sentiero si snoda per lo più su pietraia sempre sui 2600-2700 m di quota, per poi scendere in direzione Maloja fino a circa 2300 m. La discesa è piuttosto ripida e sdrucciolevole e, solo in questa parte, abbiamo avuto qualche difficoltà a trovare i bolli.
Attraversato un torrentello, la traccia curva verso destra e ci addentriamo in un pianoro con un paio di laghetti. In fondo si vede il passo del Muretto, che più che un muretto sembra una muraglia.
La salita è ripida, soprattutto nell’ultimo tratto prima della bocchetta, ma sono gli ultimi 250 m di dislivello: dal passo ci aspetta solo una lunga discesa, tra l’altro su un terreno molto facile. Scopriamo infatti che il passo del Muretto è il punto di arrivo del sentiero Rusca, che va da Sondrio a Chiareggio lungo il corso del torrente Mallero e sale infine fin quassù.
Scendiamo dunque lungo questo sentiero, facile e corribile, passando per l’alpe dell’Oro (circa 4 km dal passo del Muretto) e arrivando ben presto al parcheggio al pian del Lupo (3 km dall’alpe dell’Oro). In tutto circa 5 ore effettive, 5 ore e mezza comprese le pause.
San Giuseppe – Alpe Lagazzuolo (1974 m) – Bocchel del Cane (2551 m) – Lago Pirola (2300 m) – Chiareggio – Alpe Fora – Rifugio Longoni (2450 m) – Forcella d’Entova (2831 m) – Vallone di Scerscen – Alpe Musella – Lago Palù (1925 m) – San Giuseppe.
Saremo noiose e abitudinarie, ma in un modo o nell’altro torniamo sempre qui. Ufficialmente il posto “prefe” delle Martas, anche questa volta la Valmalenco non ci ha deluso!
Questo giro, lunghetto e impegnativo, eventualmente divisibile in due giorni con pernottamento al Longoni, ci ha dato così tante soddisfazioni che a malapena abbiamo sentito la fatica. Per quanto riguarda le difficoltà tecniche, si tenga conto di un terreno generalmente poco corribile, con lunghi tratti su pietraia, e di un sentiero un po’ ostico tra il rifugio Longoni e la bocchetta d’Entova (indicato come EEA, sicuramente EE impegnativo). La parte più difficile si può evitare utilizzando il sentiero che dal Longoni scende per un tratto verso l’alpe Entova e risale poi verso la bocchetta d’Entova passando per il lago della Balena. Non avendolo provato, non so descrivere la difficoltà di questo percorso alternativo: se serve, consiglio di chiedere al rifugio.
Per quanto riguarda la logistica, noi abbiamo parcheggiato a caso nel primo posto trovato entrando a San Giuseppe. Con il senno di poi, consiglio invece di lasciare l’auto nell’ampio piazzale davanti all’albergo Sasso Nero: eviterete un mezzo chilometro di strada all’andata e mi ringrazierete della dritta alla fine del giro. Il primo sentiero da cercare è quello per l’alpe Lagazzuolo (n. 321): si scende fino al torrente Mallero, lo si attraversa e subito comincia la prima ripida salita.
In questo giro abbiamo potuto apprezzare tutti i colori della Valmalenco e il primo è stato l’azzurro smeraldo del lago Lagazzuolo. Si arriva all’alpe Lagazzuolo e al bivacco degli Alpini (attualmente chiuso) dopo circa 500 m di dislivello e, poco dopo, si raggiunge il laghetto. Da qui il bosco si dirada e il sentiero, da escursionistico, diventa una pietraia.
Altri 500 m di dislivello ci separano dal Bocchel del Cane e l’ambiente diventa sempre più fiabesco via via che si guadagna quota. Riusciamo a seguire i bolli con facilità, ma l’ambiente è severo e questa salita è assolutamente sconsigliata in caso di maltempo e di neve.
La salita è sempre più ripida e finalmente arriviamo alla bocchetta (2551 m), da dove la vista si spalanca su un’enorme pietraia rossa e sul lago Pirola, prossima tappa. Scendiamo con attenzione tra le rocce, inizialmente seguendo i bolli, poi tenendoci alte sulla sinistra per evitare le ultime lingue di neve.
Il “sentiero” svolta ora verso sinistra, aggirando la Punta Rosalba. La pendenza diminuisce e, superando questo severo torrione, compare di fronte a noi il monte Disgrazia.
Si prosegue su pietraia, ora quasi in piano, fino incontrare un bivio. O meglio un punto in cui il sentiero sembrerebbe svoltare tutto a sinistra, verso il ghiacciaio Ventina e il Disgrazia, ma dove noi sappiamo di dover andare proprio dalla parte opposta: a destra, verso il lago Pirola. Per qualche centinaio di metri seguiamo semplicemente la traccia gpx, poi finalmente ritroviamo i bolli: il sentiero c’è e da qui in poi è anche ben segnato.
Percorriamo il perimetro di questo splendido lago artificiale, con scorci spettacolari sul ghiacciaio Ventina e il monte Disgrazia, la cui cima rimane purtroppo avvolta dalle nuvole. A un breve tratto di salita segue una lunga discesa, che proseguirà fino a Chiareggio.
Dall’alpe Pirola ci sono due opzioni per Chiareggio: noi prendiamo il sentiero a destra, un po’ più ripido e meno corribile rispetto a quello che passa per i rifugi, ma più veloce e meno affollato. Ben presto siamo a Chiareggio: attraversiamo il torrente, facciamo un rifornimento d’acqua alla fontana e proseguiamo verso destra lungo la strada. Dopo il parcheggio, troviamo sulla sinistra le indicazioni per l’alpe Fora e il rifugio Longoni: siamo ora su un terreno che conosciamo bene, l’alta via della Valmalenco, indicata da un triangolo giallo rovesciato.
Dopo una piacevole salita tra i pini, ri-superiamo la linea del bosco e ci troviamo all’alpe Fora. Da qui al rifugio Longoni si attraversa un bellissimo pianoro verdeggiante, dove le mucche pascolano beatamente tra ampi prati, cascate e rocce dalle forme più fantasiose. A destra, oltre la valle di Chiareggio, si vede di nuovo il Disgrazia, mentre le altissime montagne alla nostra sinistra sono il gruppo del Bernina.
Al rifugio Longoni (2450 m) abbiamo percorso 2000 m di dislivello e ce ne mancano altri 1000. Come distanza siamo invece a meno di metà, circa 15 km. Da qui, seguendo le indicazioni per la forcella di Entova, attacchiamo il tratto più difficile del percorso.
I bolli sono più rari e sbiaditi rispetto ai tratti più frequentati dell’alta via, ma riusciamo sempre a seguirli senza problemi. L’intero percorso è pulito, come probabilmente lo si trova per non più di un paio di mesi all’anno. Consiglio sempre di fare una telefonata al rifugio per avere informazioni aggiornate sulla situazione neve, prima di avventurarsi da queste parti: in caso di nevai anche piccoli le difficoltà possono aumentare in modo esponenziale.
Superiamo una placchetta con l’aiuto della catena, proseguendo poi lungo un traverso a tratti un po’ esposto, con un sentierino stretto stretto dove è necessario procedere piano e con cautela. L’ambiente è spettacolare, davvero selvaggio. Nonostante il tempo non bellissimo, incontriamo qualche escursionista, per quanto naturalmente non sia un percorso frequentato dalle masse. Raggiungiamo infine una casetta abbandonata e una vecchia pista carrozzabile, risalenti ai tempi in cui si veniva qui a sciare – guardando in alto, si vede anche l’ex rifugio, ormai dismesso – e troviamo qui le indicazioni per San Giuseppe (utili in caso di necessità per accorciare il giro) oltre a quelle che ci interessano per la bocchetta di Entova.
Costeggiamo il piccolo lago della Balena continuando a salire su pietraia. Il percorso è lento, anche perché i bolli per orientarsi sono sempre più rari, ma privo di particolari insidie e comunque più semplice del traverso affrontato precedentemente.
Raggiugiamo finalmente la bocchetta, che con i suoi 2831 m è il punto più alto del nostro giro. La vista da qui è semplicemente spettacolare. Sulla destra vediamo la caratteristica cima del Sasso Nero, indicata da una scritta gialla.
Cominciamo a scendere ora, sempre seguendo i bolli in modo più o meno ligio, verso il vallone di Scerscen. In alcuni punti conviene rimanere a fondovalle, mentre i bolli si trovano più in alto – forse per essere visibile in caso di neve. Il nostro sentiero è quello del Bernina Sud, ma ci sono anche altre tracce e bolli che non vanno seguiti.
Attenzione in particolare a non seguire le frecce per i Sassi Bianchi, una strana e fantastica formazione rocciosa che si staglia in fondo alla valle e che ricorda un ghiacciaio. Il ghiacciaio in realtà c’è, ma è più lontano: in fondo, dietro ai Sassi Bianchi, si vede infatti la Vedretta di Scerscen.
Tutto il giro fin qui è stato bello, ma questa parte è in assoluto la migliore. Proseguiamo a bocca aperta fino a fondovalle, dove il sentiero fa una curva a U e troviamo le indicazioni per l’alpe Musella, prossima tappa.
Si prosegue ora su facile sentiero e con pendenza minima nel vallone di Scerscen, che non è una valle ma proprio un vallone. Seguiamo sempre i bolli bianco-rossi e il triangolo giallo rovesciato dell’alta via, lungo il corso del torrente che sentiamo scrosciare poco più in basso e passando sotto strane formazioni rocciose, questa volta di colore scuro.
Attraversato il torrente, seguiamo il sentiero nel bosco che, con qualche saliscendi, ci porta all’alpe Musella. Da qui si svolta a destra (il sentiero che prosegue dritto lungo il corso del torrente è quello per Campo Moro, direzione sbagliata!) e si scende ancora per un tratto fino all’ampio pianoro attraversato da varie ramificazioni del torrente Scerscen.
Superati alcuni ponti, si troveranno le indicazioni per il lago Palù, ultima tappa del nostro giro. Il sentiero è più o meno pianeggiante per circa un chilometro, fino al bivio dove si svolta tutto a destra e si imbocca l’ultima salita per il lago Palù. Il segnavia è sempre il triangolo giallo e le indicazioni sono puntuali e precise. Da qui al lago mancano circa 300 m di dislivello. Se passando sotto le piste da sci vi sembra di trovarvi in un brutto posto, aspettate di arrivare in vista del lago con la luce calda del tardo pomeriggio!
Dal punto in cui si vede il lago è tutta discesa, ripida all’inizio e poi via via sempre più facile e corribile. Si passa dal rifugio Palù e si seguono le indicazioni per San Giuseppe lungo una strada sterrata in discesa. Finiamo infine sulla strada asfaltata e da qui ignoriamo un ultimo sentiero per San Giuseppe, proseguendo sempre su strada fino al punto in cui abbiamo parcheggiato. Circa 10 ore e mezza per un giro davvero spettacolare!
Da Vipiteno a Brunico lungo un’alta via selvaggia, durissima, semplicemente spettacolare.
Primo giorno (40,5 km – 3600 m D+): Vipiteno / Sterzing – Malga Simile / Mahd (2011 m) – Lago Selvaggio / Wilder See – Forcella Rauhtal (2807 m) – Rifugio Bressanone / Brixen (2307 m) – Forcelle Steinkar, Keller e Donnel – Gaisscharte (2700 m) – Rifugio Ponte di Ghiaccio / Edelraut (2545 m).
Secondo giorno (35,5 km – 1800 m D+): Rifugio Ponte di Ghiaccio – Baita Gruipa – Baita Gambia – Forcella Sega Alta / Hohe Säge (2610 m) – Rifugio Lago di Pausa / Tiefrasten (2312 m) – Kleines Tor (2375 m) – Cima delle Dodici / Zwölferspitz (2351 m) – Cime di Putzen – Cime Valperna e Plattner – Monte Sommo / Sambock (2396 m) – Kofl – San Giorgio (Brunico).
Periodo: Agosto 2021
Partenza: Vipiteno
Arrivo: San Giorgio (Brunico)
Distanza: 76 km
Dislivello: 5400 m
Acqua: si trova regolarmente, tranne sulla lunga cresta tra Kleines Tor e il monte Sommo.
Chiunque ci conosca sa che, a noi Martas, le cose facili non piacciono. E l’alta via di Fundres, una lunga e intensa traversata tra i monti dell’Alto Adige da Vipiteno a Brunico, non è stata certo una passeggiata. Il divertimento, d’altra parte, è proporzionale alle difficoltà superate – e noi ci siamo divertite tantissimo.
La logistica di questo giro non è banale: Vipiteno non è proprio dietro l’angolo e prenotare una stanza all’ultimo momento per il 12 agosto non è stato semplice, così come trovare posto al rifugio Ponte di Ghiaccio – per fortuna i gestori sono stati solidali con la nostra piccola impresa e ci hanno riservato due letti di emergenza, sapendo che non avevamo soluzioni alternative per percorrere l’alta via in due giorni. Il giro finisce poi a San Giorgio (Brunico) e da lì abbiamo dovuto prendere un autobus e due treni per tornare a Vipiteno.
Problematico è stato anche il reperimento di informazioni precise sul percorso. Le poche relazioni disponibili in italiano (solo a giro concluso ho visto che ci sono relazioni migliori in tedesco) riportano dislivelli errati – in particolare per il secondo giorno ci aspettavamo dai 1200 ai 1400 m di dislivello positivo, ma ne abbiamo fatti più di 1800! – e non rendono neanche vagamente la difficoltà di questa alta via che passa per pietraie, traversi esposti senza protezioni, torrenti da attraversare senza ponte. Tutti problemi che sappiamo affrontare, ma che non ci aspettavamo: dai siti italiani questo giro sembrava una passeggiata per famiglie, divisa in sei comode tappe, quando in realtà richiede esperienza e dimestichezza con un ambiente davvero selvaggio di alta montagna.
A chi volesse provare lo stesso percorso consiglio di tenere a mente quanto segue: 1) il primo giorno è durissimo, ma anche il secondo non scherza; 2) la parte più tosta del giro si affronta alla fine del primo giorno e culmina nella ferratina per scendere dalla forcella Gaisscharte, a 2700 m di altezza, quando ormai è sera e sulle gambe si hanno 3500 m di dislivello; 3) i tratti “corribili” su questa alta via sono pochi e per lo più si procede con lentezza esasperante; 4) per la maggior parte del percorso, compreso il rifugio Ponte di Ghiaccio, il telefono non prende; 5) l’alta via è bene indicata, ma la traccia gpx aiuta e, per avere dei riferimenti, conviene segnarsi i nomi tedeschi: quelli italiani spesso non sono riportati sui cartelli. Con la giusta preparazione, sarà un giro indimenticabile!
Si parte dunque da Vipiteno, dove si può lasciare l’auto nell’ampio parcheggio gratuito della stazione. Si attraversa la ferrovia dal sottopasso poco distante e si segue la ciclabile lungo la strada per Wiesen (Prati). In tutto sono un paio di chilometri in piano prima di cominciare la salita per la val di Vizze. Poco prima del cimitero si svolta a destra e si attraversa il Rio di Vizze; subito dopo il ponte si svolta ancora a destra e si trova sulla sinistra un sentiero in salita: l’avventura comincia qui! Le indicazioni da seguire sono sempre quelle per Pfunderer Höhenweg (alta via di Fundres in tedesco) e un inequivocabile cerchio bianco e rosso.
La salita non comincia proprio nel migliore dei modi: il bosco è umido, infestato da zanzare cattivissime e pieno di alberi caduti da scavalcare. Per di più dobbiamo superare recinzioni per il bestiame che sembrano fortezze, con tanto di filo spinato e nessun passaggio per gli escursionisti. Accaldate, punzecchiate e anche un po’ irritate mettiamo insieme i primi mille metri di dislivello nella speranza che il bosco finisca quanto prima e che cominci finalmente la vera montagna.
Superiamo delle baite e continuiamo verso Jagerjöchl, la prima delle tante forcelle da cui ci troveremo a passare in questo lungo viaggio. Per lo più, in realtà, le attraverseremo inconsapevolmente: se dalle nostre parti ogni bocchetta è identificata da un cartello con il nome e l’altitudine, qui le indicazioni sono più rare. Da Jagerjöchl, in ogni caso, siamo sopra i duemila metri e non scenderemo più sotto questa quota se non alla fine del percorso. Finalmente le zanzare ci lasciano in pace e la vista può spaziare sulle montagne che ci circondano.
Arrivate a una seconda forcella, che potrebbe essere il giogo di Trens, ma chi lo sa, troviamo le indicazioni per la malga Simile, il primo dei punti di appoggio per chi percorre l’alta via in sei giorni. Poco dopo vediamo dall’alto la malga, servita da una strada pastorale, e la raggiungiamo con una ripida discesa. Siamo, qui, a circa 15 km dalla partenza, troppo presto per fare una vera pausa. Ci limitiamo dunque a riempire le borracce al lavatoio fuori dalla malga e riprendiamo l’alta via in salita verso il lago Selvaggio (Wilder See).
Si guadagna quota senza grandi difficoltà, in un ambiente che a ogni passo diventa più bello. Attraversiamo ampie vallate verdeggianti e bucoliche, percorse da torrentelli, popolate da placide mucche e colonie di marmotte. Arriviamo a quota 2600 m e davanti a noi si apre lo spettacolo del lago Selvaggio, che costeggiamo continuando a salire.
Proseguiamo fino al punto più alto del percorso, la Forcella Rauhtal (2807 m). Solo qui abbiamo trovato qualche piccolo nevaio, comunque facilmente attraversabile senza ramponcini. Siamo circondate da cime rocciose, invitanti, e in effetti questo è uno dei pochi punti dell’alta via in cui incontriamo qualche escursionista.
Scendiamo, con attenzione ma senza grandi difficoltà, e raggiungiamo il rifugio Bressanone (Brixen). A questo punto abbiamo percorso 24 km e 2200 m di dislivello e, ingenuamente convinte che non ci manchino più di 5 ore, ci concediamo un panino con lo speck e un litro e mezzo di acqua frizzante – in attesa della meritata birra che ci aspetta al Ponte di Ghiaccio. Per chi non volesse acquistare l’acqua al rifugio, c’è anche anche una fontana dove si possono rabboccare le borracce.
In realtà la parte più lunga, difficile e faticosa di questo primo giorno deve ancora cominciare. Avevamo preventivato 10-11 ore in tutto, ma alla fine ce ne abbiamo messe più di 13 (12 in movimento). Dal rifugio Bressanone al Ponte di Ghiaccio non abbiamo incontrato un solo essere umano: solo mucche, pecore e una miriade di marmotte.
Dobbiamo superare quattro bocchette: prima Steinkarscharte, Kellerscharte e Donnelscharte, poi la più temibile Gaisscharte (2700 m). Prese singolarmente, non sono niente di eccezionale, a parte forse l’ultima che comprende una ripida parete da disarrampicare con l’aiuto di una catena – paragonabile alla bocchetta Roma nel giro del Kima, per intenderci. Questa ferratina è l’unico punto indicato sulle relazioni come moderatamente difficile (io toglierei il “moderatamente”). Ma la vera difficoltà sta non in un punto particolare, bensì nel mantenere sempre alta la concentrazione su pietraie e sentieri stretti, esposti e privi di protezioni, dove poche centinaia di metri richiedono spesso decine di minuti.
Dopo Steinkarscharte, dove tra l’altro prendiamo uno scroscio di pioggia e grandine, per fortuna di breve durata, scendiamo in una valle ampia e verdeggiante, ancora più suggestiva perché in tanto spazio non si vede alcun segno della presenza dell’uomo se non i bolli rotondi della nostra alta via. Diversi torrenti scendono dalle montagne circostanti e le mucche pascolano felici in questi enormi prati verdi.
I torrenti sono tanto belli visti dall’alto, quanto fastidiosi se vanno attraversati. In assenza di qualsivoglia forma di ponte, dobbiamo fare almeno tre guadi abbastanza impegnativi, seguite in ogni passaggio dallo sguardo imperturbabile delle mucche.
Anche qui perdiamo parecchio tempo a cercare, per ogni torrente, il punto migliore per attraversare. Avendo entrambe una caviglia fasciata causa scavigliate pregresse, cerchiamo in tutti i modi di evitare di bagnarci i piedi. Inutilmente: ci aspetta una pioggia torrenziale verso la fine della giornata, ma questo ancora non lo sappiamo!
Risaliamo e superiamo anche Kellerscharte: anche da qui si apre una vista semplicemente fantastica. Le difficoltà però aumentano: il sentiero è sempre più stretto, in molti punti esposto, e alle nostre spalle il cielo ha preso un colore inquietante.
Arriviamo infine alla forcella di Don, o Donnelscharte. Siamo qui a più di 35 km dalla partenza e avremmo dovuto già incontrare il bivacco Brenninger, che le relazioni davano a 34,5 km. Il fatto di non vederlo ancora, nemmeno in lontananza, ci preoccupa un po’: sia perché sta chiaramente per venire un temporale, sia perché ci viene il dubbio che il Ponte di Ghiaccio sia più lontano di quanto pensassimo. In realtà, scopriremo poi, era semplicemente sbagliata la posizione del bivacco nella relazione.
Finalmente, dopo 36 km e qualcosa, troviamo le indicazioni per il bivacco, che però non si trova sul percorso: bisogna scendere un po’ per raggiungerlo, i cartelli lo danno a 20′. Come potete intuire dall’espressione di Marta qui sopra, a questo punto siamo un po’ scoraggiate e valutiamo anche di scendere al bivacco e da lì a valle. Poi però ci facciamo coraggio: non piove ancora e decidiamo di proseguire per il rifugio Ponte di Ghiaccio, che non è mai indicato con questo nome, bensì con il corrispettivo tedesco (Edelrauthütte).
La salita verso l’ultima bocchetta di oggi, Gaisscharte, è lunga e faticosa, tutta su pietraia. I tuoni sono sempre più vicini, ma per ora non piove. Salendo, studio i massi più grossi per capire dove potremmo ripararci in caso il temporale ci sorprenda a questa quota. Le pecore che pascolano poco più in alto non sembrano porsi il problema, così decido di non preoccuparmi troppo nemmeno io.
L’atarassia delle pecore sembra portarci fortuna: arriviamo alla bocchetta senza che sia ancora caduta una goccia d’acqua. Meno male, penso quando mi affaccio dall’altra parte e butto un occhio sulla via di discesa.
La discesa in disarrampicata è ripida e impegnativa, ma si tratta di non più di una ventina di metri. Nel momento in cui tocchiamo terra, scoppia il temporale. Siamo state davvero fortunate: pochi minuti prima ci avrebbe sorpreso sulla ferrata.
Bagnate come pulcini, ma grate di averla scampata sulla parte più difficile, ci incamminiamo per la pietraia domandandoci quanto mai potrà mancare al rifugio, che ancora non si vede. Perdiamo un po’ di quota e ai massi bagnati e scivolosi si alternano tratti su erba bagnata e scivolosa: bene ma non benissimo. Poi all’improvviso, evidentemente stufa dei nostri piagnistei, Madre Natura decide di zittirci con l’arcobaleno più colorato e luminoso che ci sia mai capitato di vedere. Uno spettacolo che, peraltro, ci siamo godute solo noi di tutto il genere umano!
Finalmente compare sotto di noi il lago Ponte di Ghiaccio e, sul cocuzzolo a sinistra, l’omonimo rifugio. Bisogna faticosamente scendere e poi risalire per un centinaio di metri, ma ce l’abbiamo fatta! Non ci sembra vero di trovare la birra, una bella cena calda (cucina top!) e persino una Trockenraum (stanza asciugatura) da cui scarpe e zainetto sono poi riemersi completamente asciutti. Una bella notte di sonno più o meno ristoratore, colazione sostanziosa e via! si parte per la seconda giornata.
L’inizio è promettente: un comodissimo e corribilissimo sentiero, il paradiso dopo le pietraie di ieri, ci deposita addirittura su una strada carrozzabile, che percorriamo in discesa sempre seguendo i bolli dell’alta via. Cominciamo poi a risalire verso la forcella delle Vacche (Kuhscharte) e, da lì, proseguiamo più o meno in piano lungo un sentiero (non più corribile) che attraversa ripide valli, prati e torrenti, fino alla baita Gruipa.
La tappa successiva è la baita Gambia, ma lì non abbiamo trovato acqua: conviene quindi rabboccare le borracce alla fontana della baita Gruipa. Il sentiero tra le due malghe è facile e ci permette di procedere di buon passo, se non proprio di corsa. Dalla baita Gambia ricominciamo a salire verso la Forcella Sega Alta (Hohe Säge) a 2610 m, il punto più alto di questa seconda parte di alta via, passando dal Passenjoch a 2440 m. Da Passenjoch a Hohe Säge i pascoli cedono di nuovo il passo a pietraie e laghetti alpini.
Continuiamo a guadagnare quota, chiedendoci da dove mai potremo passare per superare una corona di montagne dall’aspetto davvero severo. Il sentiero, in realtà, è ripido ma non difficile.
Da qui vediamo il laghetto della Pausa, prossima tappa dell’alta via, e l’omonimo rifugio, che in tedesco si chiama Tiefrastenhütte. Si scende da una scalinata ripida e vertiginosa, dove incontriamo diversi escursionisti che probabilmente arrivano dal rifugio.
Per la prima volta dalla Val di Vizze il telefono torna a dare segni di vita. Al rifugio prendiamo una coca e ci facciamo preparare un panino da portare via. Abbiamo percorso 15 km e circa 800 m di dislivello, per cui siamo (erroneamente) convinte che la salita sia quasi finita. Scendiamo lungo il facile e affollato sentiero per il rifugio fino a trovare sulla sinistra le indicazioni dell’alta via e quelle per il sentiero 5A. All’inizio si tratta dello stesso sentiero, poi al bivio si abbandona il 5A e si prosegue in salita per l’alta via.
Continuiamo a salire verso il passo che si vede in lontananza verso sinistra, Kleines Tor. Per arrivarci attraversiamo una valle dove scorre qualche ruscello e troviamo un provvidenziale tubo da cui escono poche gocce d’acqua. Armate di pazienza, ci prendiamo tutto il tempo necessario per riempire le borracce, e per fortuna: ancora non lo sappiamo, ma per più di 10 km non troveremo altre fonti d’acqua. Il sentiero sale poi verso sinistra e in breve raggiungiamo il passo, da cui l’alta via prosegue in direzione Zwölferspitz (Cima delle Dodici), dove comincia la lunga cresta che percorreremo fino al monte Sommo.
Si tratta ora di superare una cimetta dopo l’altra, su facile sentiero – a parte pochi tratti su roccette – fino al monte Sommo, dove la salita diventa invece un po’ più tecnica. Siamo circondate da un ambiente bellissimo, che non ci godiamo appieno solo per il fatto che ci aspettavamo meno salita.
Il sentiero lungo le creste disegna un ampio arco verso destra, che culmina appunto nel monte Sommo. Questa è davvero l’ultima salita! In basso, a sinistra rispetto alla cima, si vede finalmente Brunico.
L’ultimo tratto di salita in alcuni punti è un po’ esposto, altro dettaglio mai menzionato nelle relazioni. Arriviamo in cima stanche e assetate, con 1800 anziché 1200 m di dislivello sulle gambe, brontolando contro chi ha scritto relazioni così superficiali. Ma il genere umano subito si riscatta grazie a una coppia gentilissima che, salita dalla parte opposta, ci offre dell’acqua e ci rassicura sulla presenza di una fontana un po’ più avanti.
Cominciamo a scendere verso San Giorgio: il sentiero è lungo, ma tutto facile e corribile. Ben presto troviamo la fontana che ci è stata indicata, una vera benedizione dopo diverse ore al sole e al vento. Bisogna seguire le indicazioni per Kofl e, da qui, il sentiero 66 per San Giorgio. Non sappiamo esattamente che cosa indichi il “Grosse Pippe” che leggiamo su un cartello in legno, ma si sposa bene con il nostro stato d’animo dopo 7 km di discesa nel bosco.
Sempre seguendo il sentiero 66 arriviamo a San Giorgio, dove si segue la strada verso il torrente Aurino; dopo il ponte a destra troviamo la fermata dell’autobus (il biglietto si fa a bordo) che ci porterà alla stazione di Brunico, in tempo per prendere il treno delle 17,31, nonché una piazzetta con fontana per rinfrescarci un po’ prima di prendere i mezzi (per fortuna ci sono social distancing e mascherine). Ecco, l’alta via finisce ufficialmente qui. Per chi volesse vedere le nostre facce da Pfunderer Höhenweg, metto la foto qui sotto. Tschüss!
Rifugio “Il Pirata” (Tartano) – Passo di Tartano (2108 m) – Cima di Lemma (2348 m) – Passo di Lemme (2137 m) – Laghetto Cavizzola – Sentiero 101 o delle Orobie occidentali – Forcella Rossa (2055 m) – 3° Lago di Porcile ( 2095 m) – Passo di Porcile (2290 m) – Sentiero 201 verso Foppolo – Strada di Dordona – Montebello (Terrazza Salomon) – Lago delle Trote – Passo Dordona (2061 m) – Sentiero 201A – Bocchetta dei Lupi (2316 m) – 2° Lago di Porcile (2030 m) – Rifugio “Il Pirata”.
Periodo: Agosto 2021
Partenza: Rifugio “Il Pirata”, località Arale, Tartano
Finalmente in ferie, Tony e le Martas non hanno dubbi su come inaugurarle: una bella cavalcata orobico-valtellinese, alla scoperta di nuovi sentieri per concatenare valli più o meno note, è proprio quello che ci vuole!
Tony e Marta arrivano da Bergamo, io (l’altra Marta) sono ormai valtellinese d’acquisizione: loro partono dal rifugio S.A.B.A., nella bergamasca, per una traversata di oltre 40 km, mentre io lascio l’auto al rifugio “Il Pirata”, sopra Tartano, per un giro ad anello come piace a me. Decidiamo di trovarci alla terrazza Salomon, Montebello, nel primo pomeriggio, per condividere l’ultima parte del giro e una cenetta al rifugio.
Parto con calma, forse troppa (sono le 9 passate quando parcheggio al Pirata), in direzione del passo di Tartano. Ho visto dalle mappe che ci sono dei sentieri alternativi rispetto a quello più frequentato per i laghi di Porcile e, non avendo fretta, decido di andare in esplorazione. Scendo dunque dal rifugio alla strada carrozzabile sottostante e la percorro brevemente seguendo il corso del torrente fino a trovare sulla destra un ponticello.
Non ci sono indicazioni se non quelle, opposte, per i laghi di Porcile. Si attraversa il torrente e si prosegue dall’altra parte. Il sentiero c’è, è anche relativamente battuto (dalle mucche), ma non è bollato e bisogna fare attenzione a non perderlo di vista. Certo, non si può procedere troppo spediti su questo terreno, ma in compenso ci si gode la pace di una valle deserta, le distese di mirtilli, i ruscelli gorgoglianti e le marmotte che scorrazzano indisturbate. Consiglio caldamente, per questo e altri tratti, di usare la mia traccia gpx.
Attenzione a un bivio, dove il sentiero più intuitivo sembra essere quello che va a sinistra attraversando un ruscello, mentre bisogna prendere quello in salita verso destra. Senza la traccia gpx avrei sbagliato di sicuro. Finalmente il bosco finisce e vedo in lontananza, sopra di me, la croce del passo di Tartano.
Vedo il passo, sì, ma in compenso perdo di vista il sentiero, complici anche i mille ruscelli e rigagnoli che si sono formati dopo le piogge torrenziali dei giorni scorsi. Pazienza, la pendenza non è eccessiva e salgo dritto per dritto tra mirtilli e rododendri, cercando di tenere i piedi il più possibile asciutti. Incrocio infine un sentiero, anch’esso poco visibile ma segnato, che scopro poi essere l’alta via della Val Tartano.
Seguendo questi bolli bianco-rossi arrivo a una casera, dove appunto trovo le indicazioni dell’alta via, e proseguo in salita fino al passo di Tartano (2108 m), crocevia di sentieri.
Per i prossimi 5 km seguirò il percorso della GVO (Gran Via delle Orobie), un altro sentiero spesso poco indicato, dove facilmente si perde l’orientamento. In questo tratto, in realtà, basta seguire il filo di cresta in salita passando per le antiche trincee della linea Cadorna fino alla cima di Lemma (2348 m) e da qui in discesa fino all’omonimo passo.
Dal passo di Lemme si prosegue in piano, seguendo il sentiero – quando c’è – o in alternativa cercando i bolli sparsi qua e là sulle roccette. Utile, anche qui, la traccia gpx.
Dopo un ultimo tratto in salita bisogna scendere tutto a sinistra. A ben guardare c’è una piccola freccia con la scritta “GVO” nascosta dietro un sasso, ma senza la traccia gpx avrei certamente proseguito dritto. Il sentiero è ora più evidente e comincio a scendere spensierata, senza più fare caso ai bolli. Naturalmente questo mi porta subito fuori strada e davanti a una baita, detta “del Mondo” (Raimondo).
Poco male, vedo il sentiero più in basso e lo raggiungo, continuando a scendere fino all’alpe Cavizzola. Qui trovo le indicazioni per il laghetto Cavizzola, che è la mia prossima tappa. Non ho capito a che punto ho abbandonato la GVO ma, sapendo di dover passare da questo laghetto, senza farmi troppe domande proseguo di buon passo, ora su facile sentiero. Al laghetto, dove trovo anche una fontana, mi fermo per fare merenda con la mia “cupeta” valtellinese.
Dovrei ora prendere il sentiero 101, o sentiero delle Orobie occidentali, di cui però al laghetto non trovo traccia. Vedo solo un sentiero 111 in discesa e lo seguo fino a quando diventa evidente che mi sto allontanando troppo dal 101. Interpreto una croce su un sasso e una leggerissima traccia nell’erba come un segno del destino e, per una volta, la fortuna mi assiste: risalendo per i prati raggiungo infatti una casera e, finalmente, il sentiero delle Orobie occidentali.
Adesso è tutto facile: il 101 è sempre ben segnato e mi permette di procedere spedita – anche perché un’occhiata all’orologio mi dice che è il caso di darmi una mossa! A un breve tratto in salita, che culmina alla Forcella Rossa (2055 m), segue una discesa e poi un lungo e corribilissimo tratto in piano. Si passa per alcuni alpeggi intorno ai 1800 m di quota e, in basso, si vede San Simone. Riprende la salita e di nuovo mi trovo a guardare, sia pure da una diversa prospettiva, la croce del passo di Tartano.
Senza arrivare al passo, salgo verso destra in direzione dei laghi di Porcile e vado a prendere il sentiero 201 (il 101 non ho capito che fine abbia fatto) che passa per il 3° lago di Porcile e sale all’omonimo passo.
Questa zona è decisamente frequentata, rispetto a quelle semi-deserte da cui sono passata finora. Superando una distesa di bagnanti intenti a prendere il sole, salgo di buon passo verso la bocchetta. Il sentiero è sempre facile, anche se sto attraversando una pietraia dall’aspetto suggestivo e selvaggio.
Salendo mi trovo a un bivio: a destra il sentiero 201 per il passo di Porcile e Foppolo, a sinistra il 201A per la bocchetta dei Lupi e il rifugio Dordona. Da qui arriverò più tardi con i miei amici, quindi ora prendo il sentiero a destra e in un attimo sono al passo di Porcile (2290 m).
Comincio a scendere verso Foppolo: il sentiero all’inizio è ripido e richiede attenzione, poi migliora un po’ man mano che si perde quota. Una volta a fondovalle, le indicazioni da seguire sono quelle per il passo Dordona, prima lungo un facile sentiero nel bosco e poi su strada – bisogna prendere la cosiddetta “Strada Dordona”, una noiosa carrozzabile in salita. Dalla carrozzabile si stacca poi il sentiero per Montebello.
Passando sotto la seggiovia, risalgo fino alla terrazza Salomon (o rifugio Montebello), dove mi aspettano Marta e Tony. Sono in ritardo sulla tabella di marcia: speravo di arrivare qui per le 14 e invece sono quasi le 15,30! Ho perso parecchio tempo a orientarmi nell’erba alta tra la GVO e il sentiero 101. Pazienza, ora sono con i miei amici: ci manca una decina di chilometri con non più di 500 m di dislivello, per cui possiamo prendercela con calma.
Ci incamminiamo dunque in leggera salita verso il passo Dordona, passando per il piccolo e affollato lago delle Trote. Dal passo prendiamo la strada carrozzabile in discesa verso il rifugio Dordona, che vediamo chiaramente più in basso, anche se non ci arriveremo: prima del rifugio, infatti, vediamo sulla sinistra le indicazioni per il sentiero 201A e la bocchetta dei Lupi. A sorpresa, ci ritroviamo ancora sulla GVO!
La salita è lunga, ma non eccessivamente ripida, e le montagne illuminate dalla luce calda del pomeriggio ci ripagano di tutta la fatica. Arrivati alla bocchetta (2316 m), la vista si apre di nuovo sui laghetti di Porcile, che da questa nuova prospettiva sembrano ancora più belli.
Da qui è tutta discesa, prima su sentiero ripido e sdrucciolevole, poi su morbidi prati dove pascolano mucche isteriche e teneri vitelli.
Si continua a scendere in direzione Alpe Arale, Tartano. Abbiamo trovato il sentiero allagato dalle recenti piogge, cosa che ci ha rallentato un po’. Normalmente si tratta di una discesa noiosa, ma semplice e veloce.
Gli ultimi chilometri sono, come sempre, i più faticosi. Ma finalmente raggiungiamo il rifugio, i cui fantastici gestori per nostra fortuna accettano di rifocillarci con un’ottima pasta alla bresaola, oltre naturalmente alla meritatissima birra!
Cornizzolo con la neve (15 km – 1100 m D+)
11 Dicembre 2021 by marta • Lario Tags: brianza, civate, cornizzolo, corsa in montagna, lario, neve, percorso invernale, percorso trail, pesora, rifugio sec, trail running, triangolo lariano • 0 Comments
Percorso facile e sicuro anche con i sentieri innevati. Vista spaziale a trecentosessanta gradi!
Civate – Località Pozzo – Suello – Cesana Brianza – Santuario Madonna della Neve – Alpe Carella – Monte Pesora – Monte Cornizzolo (1241 m) – Rifugio SEC – sentiero 11 per Civate.
Periodo: Dicembre 2021
Partenza: Civate, parcheggio via Cerscera
Distanza: 15 km
Dislivello: 1100 m
Acqua: portare scorta per tutto il giro.
GPX (clic dx, salva link con nome)
Povero Cornizzolo, lo usiamo sempre come ripiego quando le condizioni impediscono di andare altrove! Eppure questa montagna di altezza modesta, davvero a due passi da Milano, offre una rete di sentieri facili e sicuri, perfettamente segnati, e una vista che, nelle giornate limpide, spazia dal lago di Como fino al Monte Rosa e al Monviso.
Ve l’ho proposto in tutte le salse: in versione notturna (Cornizzolo di Natale), con la nebbia in autunno (Dai Corni di Canzo al Cornizzolo) e persino con la pioggia (Trail per un giorno di pioggia). Mancava giusto un Cornizzolo con la neve fresca! Dopo le abbondanti nevicate dei giorni scorsi, io e Marta abbiamo optato per questo giro breve, semplice ma panoramico. La partenza è dal solito parcheggio in via Cerscera a Civate, da dove si comincia a salire lungo la strada verso la Località Pozzo.
Una volta alla Località Pozzo, dove quasi tutti i sentieri sono indicati verso destra, noi prendiamo la stradina pianeggiante verso sinistra, che seguiamo fino a Suello. Da qui si continua lungo la strada asfaltata fino a Cesana Brianza: un paio di chilometri noiosi, ma veloci. In salita ora, si supera il piccolo parco del Roccolo e finalmente ricomincia lo sterrato. Un sentiero in salita ci porta, senza possibilità d’errore, al santuario Madonna della Neve.
Senza superare il santuario, bisogna prendere il sentiero un po’ nascosto che sale verso destra, seguendo le indicazioni per il Cornizzolo. Si sale per poco lungo una strada sterrata e, al tornante, si prende il sentiero che prosegue dritto nel bosco in direzione Campora. Basta ora continuare lungo questo sentiero fino a incrociare la strada a tornanti che da Eupilio sale verso il Cornizzolo.
La strada, monotona e mai troppo ripida, si presta bene agli allenamenti di corsa. Noi oggi preferiamo salire camminando lungo il sentiero che taglia i tornanti. Incontriamo però parecchie persone che stanno salendo o scendendo dalla strada, anch’essa innevata più o meno come il sentiero.
Sbucando dal bosco, veniamo aggredite da raffiche di vento e, bardandoci quanto possibile, attacchiamo la cresta del monte Pesora. L’alternativa qui, in caso di cattivo tempo, è proseguire lungo la strada che porta dritto al rifugio SEC. La salita diventa più ripida, ma mai esposta o pericolosa. A 1000 metri di quota ci sono forse 10-15 cm di neve: il vento sale dal lago e ha quasi del tutto ripulito il lato sinistro della montagna, accumulando la neve in cresta e sul lato destro.
Raggiungiamo e subito abbandoniamo la cima del Pesora, dove si fatica a rimanere in piedi da quanto è forte il vento. Proseguiamo lungo il sentiero in discesa e vediamo di fronte a noi la nostra meta, il Cornizzolo.
Un’ultima salitella ci porta alla croce di vetta, provvidenzialmente collocata su un grosso blocco di cemento che offre riparo dal vento. Da qui ci godiamo la vista dell’intero arco alpino, dalle prealpi lombarde fino al Rosa e al Monviso. L’idea era quella di proseguire verso il Rai e il Corno Birone, ma il percorso sarebbe tutto in cresta e con questo vento ci passa la voglia.
Scendiamo allora al rifugio SEC e, da qui, andiamo a prendere il sentiero 11 per Civate. L’alternativa è il sentiero 10, che scende tutto nel bosco passando per l’abbazia di San Pietro; l’11 rimane più aperto e rientra nel bosco solo nel tratto finale. Entrambi i sentieri comunque sono ben segnati e, oggi, piuttosto fangosi.
Tra qualche scivolata nel fango e tratti in cui dobbiamo rallentare per la neve ghiacciata, arriviamo senza difficoltà alla Località Pozzo e, da qui, torniamo sui nostri passi fino alla macchina.