Finalmente è arrivata la settimana di scarico: vietato faticare, via libera alle passeggiate con gli amici! I giri più belli con la mia amica Marta sono sempre ambientati tra le meravigliose montagne della Valmalenco, che anche questa volta si sono rivelate all’altezza delle aspettative. Con Meme, Erica e tre quadrupedi abbiamo pensato di accamparci sotto la diga di Campo Moro, a 2000 m di quota, per passare una bella notte al fresco e partire di buon’ora senza levataccia.
Il punto migliore da cui partire per il percorso che abbiamo in mente è più indietro, nei pressi del rifugio Poschiavino, ed è qui che riportiamo il furgone di Erica dopo averlo stipato con tutti i nostri averi. A piedi torniamo indietro: meglio togliersi subito questo paio di chilometri su asfalto, piuttosto che doverli percorrere alla fine. Seguendo le indicazioni per l’alpe Gembrè, prima tappa del nostro giro, saliamo in cima alla diga e, senza attraversarla, continuiamo a camminare sul lato destro del lago di Gera.
Sulla sinistra, dall’altra parte del lago, si vede il rifugio Bignami e ogni tanto tra le nuvole sbuca anche il ghiacciaio Fellaria, la grande attrazione di questa valle. La vedretta è meravigliosa, ma siamo ben contenti di svoltare verso destra e di inoltrarci nella meno turistica Val Poschiavina.
Superata l’alpe Gembrè, dove si trova l’unica fontana che ricordo di avere visto in questo giro, il sentiero spiana e attraversa un pratone incredibilmente panoramico. Proseguendo dritto si arriverebbe al bivacco Anghileri-Rusconi, da cui si può raggiungere la cima Fontana – un tremila facile e di grande effetto. Noi invece prendiamo il sentiero (o meglio la traccia) a destra, verso il passo d’Ur.
Dopo un tratto pianeggiante e piuttosto bagnato, il sentiero guadagna quota e ci porta nella parte più selvaggia della Val Poschiavina, dove per chilometri e chilometri non incontriamo anima viva al di fuori delle marmotte.
Davanti a noi si para il monte Spondascia, che inizialmente avevo incluso come tappa del nostro giro. Trattandosi di una cima piuttosto impervia, decidiamo però di evitarla per via del meteo incerto: non dovrebbe piovere, ma la visibilità è scarsa. È un peccato che la vista non si apra mai sul pizzo Scalino, che pure è lì dietro da qualche parte, ma questo bel sentiero ad alta quota con le cime più alte immerse nelle nubi è davvero suggestivo.
Il sentiero, a volte molto evidente, a volte più difficile da trovare (utile la traccia gpx), ci porta infine al lago d’Ur e al passo omonimo, a 2514 m di quota. Alcune pietre miliari segnalano il confine con la Svizzera. Proseguendo in direzione passo di Campagneda, incrociamo il sentiero più battuto, quello che passa sul fondo della Val Poschiavina. Per la prima volta incontriamo altre persone, dirette come noi verso il passo di Campagneda.
L’ultimo tratto prima del passo ci lascia a bocca aperta: ai piedi del pizzo Scalino e delle altre imponenti cime della Val Poschiavina è spuntato un immenso tappeto di fiori gialli, bellissimo.
Dal passo scendiamo verso i laghetti di Campagneda, una destinazione facilmente raggiungibile e quindi più frequentata rispetto al sentiero per il passo d’Ur. Qualche staffa e catena aiutano nella discesa nei pochi punti tecnici, ma si può tranquillamente farne a meno.
La direzione da seguire è ora Ca’ Runcasch: superato questo rifugio, si prende il sentiero per Campo Moro e per il rifugio Zoia. Dopo un breve tratto in leggera salita, il sentiero passa ai piedi di una falesia dove climber coraggiosi si stanno cimentando con tiri durissimi; poi cominciamo a perdere quota, superiamo il rifugio Zoia (affollatissimo) e finalmente raggiungiamo il parcheggio.
Tirano – Baruffini – Rogorbello/Bertoli (771 m) – Susen (1508 m) – rifugio Schiazzera (2097 m) – sentiero 217 per Baruffini/Tirano – Pra Baruzzo (1450 m) – Sasso del Gallo – sentiero del Contrabbando – Roncaiola – Tirano.
Periodo: Maggio 2023
Partenza: Tirano (stadio)
Distanza: 29 km
Dislivello: 2100 m
Acqua: fontane in salita a Rogorbello e Quattro Rui; in discesa dopo Pra Baruzzo.
Manca un mese alla Doppia W Sky 30 km – per le ultra non sono ancora pronta, così mi sono buttata su una specialità che non è esattamente il mio forte – e ho deciso di dare un’occhiata al percorso.
Come punto di partenza e arrivo per il mio giro, in mancanza della navetta che ci assisterà nel giorno della gara, ho scelto il parcheggio della piscina Yellow Submarine, accanto allo stadio di Tirano. L’idea era raggiungere per sentieri Rogorbello/Bertoli, dove passa la Doppia W, e seguire il percorso della gara da qui al rifugio Schiazzera e al passo Portone. Il meteo non ottimale e la neve marcia che, secondo i rifugisti, avrei trovato a Pian Fusino mi hanno spinto a cambiare programma e accorciare il giro: per godermi il panorama dai 2620 m del passo Portone dovrò aspettare il giorno della gara!
Il parcheggio si trova lungo l’Adda, che attraverso dal ponticello pedonale di fronte allo stadio. Per prima cosa devo salire a Baruffini, un paesino a 800 m di quota, raggiungibile dalla strada oppure per sentieri e mulattiere: come vedrete, la mia traccia evita il più possibile l’asfalto e sale dritto per dritto dai sentieri, attraversando i vigneti e i meleti tipici della zona.
Da Baruffini seguo le indicazioni per Rogorbello (che sulle mappe si chiama Bertoli), altro piccolo borgo più o meno alla stessa altezza: 4 km di sentiero corribilissimo, con qualche saliscendi ma prevalentemente in discesa, separano i due paesi e mi permettono di riscaldare bene le gambe prima della salita vera e propria. L’unico punto in cui ho avuto un dubbio è il bivio che vedete qui sotto: il bollo più fresco invita a scendere verso destra, ma il sentiero corretto è quello a sinistra. Per il resto si tratta di un percorso intuitivo e facile da seguire.
A Rogorbello riempio bene le flask, che avevo lasciato vuote perché sapevo di trovare una fontana in questo punto strategico, e proseguo lungo la strada verso la chiesa. Qui svolto tutto a sinistra e comincio la lunga salita verso il rifugio Schiazzera: 1300 m di dislivello positivo in 7 km.
Le indicazioni da seguire sono quelle per le baite di Susen, più o meno a metà salita, e per il rifugio. Anche qui si tratta di un percorso molto semplice e intuitivo, in parte su facile sentiero e in parte su mulattiera, che attraversa più volte i tornanti della strada di servizio del rifugio.
Praticamente tutta la salita si svolge nel bosco, che oggi è particolarmente umido e soffocante; quando finalmente, in prossimità del rifugio, gli alberi si diradano, non riesco comunque a vedere un granché perché le montagne sono immerse nelle nubi.
Il rifugio è ancora chiuso, ma fervono i preparativi per la prossima apertura e per la Doppia W. Chiedo consiglio ai rifugisti anche se in realtà, vista la scarsa visibilità, ho già deciso di rinunciare a salire al passo Portone. Una ragazza gentilissima mi spiega che al Pian Fusino si affonda nella neve e mi consiglia, in alternativa, il sentiero a mezza costa che aggira la montagna, rimanendo più o meno all’altezza del rifugio.
Seguo le indicazioni per il passo Portone, ma solo fino alle baite che si vedono già dal rifugio; attraverso il torrente e raggiungo il sentiero a mezza costa che mi è stato indicato, dove trovo le indicazioni per scendere verso Baruffini e Tirano.
Dopo un ultimo tratto in leggera salita, comincia una lunga discesa su facile (ma fangoso) sentiero, che in 5 km mi porta a Pra Baruzzo. Da qui, continuo a seguire le indicazioni per Baruffini/Tirano, ora su strada sterrata semi-pianeggiante. Finalmente trovo una fontana: stavo razionando l’acqua in attesa di questo momento!
Questa stradina si rivela antipatica, oltre che noiosa, dal momento che ha in serbo per me altri 100 m di dislivello positivo. Ma ben presto ricomincio a scendere e, anziché seguire le indicazioni per Baruffini, prendo il sentiero verso Sasso del Gallo, che non è un sasso ma una località; da qui lungo il sentiero del Contrabbando scendo a Roncaiola e, senza ripassare da Baruffini, mi trovo sulla mulattiera da cui sono salita all’andata.
Si tratta ora semplicemente di ripercorrere i miei passi tra vigneti e meleti, riattraversare l’Adda dal ponte pedonale di fronte allo stadio e tornare al parcheggio della piscina Yellow Submarine.
Torre di Santa Maria – Sentiero Rusca – Chiesa in Valmalenco – Primolo – Lago di Chiesa (1612 m) – Rifugio Bosio (2086 m) – Piasci – Son – Torre di Santa Maria
Periodo: Giugno 2022
Partenza: Torre di Santa Maria, Valmalenco (780 m)
Ecco un bel percorso trail, tutto (o quasi) da correre! Primo dei molti nuovi giri in Valmalenco che ho in programma per il 2022, si svolge interamente su facili sentieri e strade carrozzabili che collegano gli alpeggi e il rifugio Bosio. Quattro ore esatte per me che sono ancora fuori allenamento, di sicuro voi riuscirete a fare meglio!
Parto di buon’ora da Torre di Santa Maria, paesino alle porte di Chiesa in Valmalenco, dove trovo facilmente parcheggio davanti al cimitero. Ho dormito poco ma sono determinata a sfruttare questo sabato di sole per un bell’allenamento! A fatica mi metto in moto in direzione Chiesa in Valmalenco, attraversando Torre e andando a prendere il sentiero Rusca, che segue il corso del torrente Mallero.
Dopo circa 4 km di saliscendi, dove in realtà sono più i sali dei scendi, arrivo a Chiesa e lascio questa bella pista ciclo-pedonale per prendere la strada in salita. Attraverso il centro del paese e imbocco la strada che sale verso Primolo. Qualche tornante di asfalto e poi, finalmente, trovo un sentiero.
Sbuco di nuovo sulla strada all’altezza del piccolo cimitero di Primolo e la seguo brevemente, fino a incontrare varie indicazioni, tra cui quelle per la Bosio. Attenzione: i cartelli sembrano indicare la strada privata verso sinistra, mentre il sentiero, meno visibile, passa poco sopra – infatti la scritta “Bosio” è accompagnata da frecce verso l’alto.
Riprendo dunque a salire nel bosco lungo un sentiero facile e morbido, coperto da un tappeto di aghi di pino. Si tratta del n. 316 in direzione alpe Pirlo, alpe Lago e rifugio Bosio.
La salita è inframezzata da tratti quasi pianeggianti e corribili. Ben presto arrivo all’alpe Pirlo e qui prendo la strada carrozzabile in direzione Lago di Chiesa: ci sono diversi sentieri che portano alla Bosio, di sicuro più belli e panoramici, ma oggi ho deciso di mettermi alla prova nella corsa in quota e mi attengo al programma.
Evito un ultimo lungo tornante passando per il sentiero bollato che trovo sulla destra e in un attimo arrivo a Lago di Chiesa, che non è un lago ma un alpeggio.
Riprendo qui la strada verso destra, seguendo le indicazioni per la Bosio. Da un cartello apprendo di essere oltre i 1600 m di quota, il che spiega la fatica. Alterno corsa e camminata fino a trovarmi sulla destra un sentiero che mi permette finalmente di camminare senza sensi di colpa, poi riprendo la strada, che sale ora più dolcemente verso l’alpe Airale.
Di fronte a me si stagliano i Corni Bruciati, alla cui sinistra si trova il passo di Caldenno – da cui potrei comodamente tornare a casa, se non avessi la macchina a Torre di Santa Maria – mentre a destra c’è il passo di Corna Rossa, che porta in Val Masino. Siamo qui sull’ultimo tratto di sentiero Roma e infatti trovo le indicazioni per l’ex rifugio Desio, che si trova di là dal passo di Corna Rossa, prima della Ponti. Sulla sinistra, oltre il torrente, compare finalmente il rifugio Bosio.
Mi fermo al rifugio giusto il tempo di una barretta e riparto in discesa verso Piasci e Torre di Santa Maria. Sono qui sul percorso della VUT, che seguo a ritroso: dalla Bosio a Piasci incontro parecchi runner che lo stanno provando. Il sentiero è bello morbido, facile e corribile, e man mano che perdo quota vedo che cominciano a fiorire i rododendri.
La discesa fa ancora qualche scherzetto – brevi tratti di salita, sempre corribili – e in alcuni punti è un po’ bagnata e fangosa, ma ben presto arrivo a Piasci.
Piasci è di gran lunga l’alpeggio più bello di questo versante della Valmalenco, almeno per me. Tenuto benissimo, con baite stupende, fontanelle, mucche al pascolo e bambini che giocano, gode di una vista mozzafiato sul gruppo del Bernina e fino al pizzo Scalino.
Seguo sempre il percorso della VUT, che conosco ma che è difficile percorrere a ritroso! Il segnavia è il triangolo giallo rovesciato. Comincia ora un tratto di sentiero fantastico, corribilissimo, che mi stavo pregustando da tempo e che mi godo in completa solitudine fino al punto in cui si attraversa il torrente e si risale un pezzetto verso l’alpe Son.
Da qui la discesa diventa meno bella, ma sempre facile. Ci sono un po’ di erbacce e ortiche, che di sicuro verranno eliminate a breve in vista della gara. I segnavia della VUT purtroppo si vedono a fatica in questo senso di marcia, per cui se volete rifare il giro consiglio di affidarvi alla traccia gpx. Senza grosse difficoltà, perdendomi forse solo un taglio di tornante, raggiungo comunque Torre di Santa Maria e il parcheggio dove mi aspetta la mia macchina.
Con il primo caldo e una visita di Stefano in Valtellina si apre ufficialmente la stagione dei giri spaziali ad alta quota. Oggi tocca alla selvaggia val Terzana, sconosciuta ai più, che confina con le arcinote Val Masino e Valmalenco e offre paesaggi altrettanto spettacolari, di cui si può godere in completa solitudine. Tra i tanti vantaggi, questo posto meraviglioso ha anche quello di trovarsi sopra a casa mia! Attenzione: sentieri adatti solo a escursionisti esperti.
Al Pizzo Bello ero già stata con Lucia, mentre mi mancava il passo Scermendone, che collega la val Terzana con la val Caldenno e da cui passa una variante del Sentiero Italia. Sia io sia Ste siamo troppo fuori allenamento per spararci 2500 m di dislivello, ma abbiamo voglia di alta montagna, così decidiamo per una volta di fare i fighetti e di salire in macchina fino a Prato Maslino, uno degli alpeggi di Berbenno di Valtellina. La strada per Prato Maslino richiede una certa abilità alla guida e un po’ dimestichezza con tornanti e sterrato.
Da Prato Maslino, seguendo le indicazioni per Prato Isio, partiamo corricchiando per la traversata, circa 3 km e mezzo di saliscendi perfetti come riscaldamento prima della salita vera e propria.
Ho scoperto a mie spese che la traversata Maslino-Isio, facile e divertente nella stagione estiva, con la neve può diventare davvero pericolosa: assolutamente da evitare in inverno. Oggi invece ci godiamo questa corsetta e in meno di mezz’ora raggiungiamo Prato Isio, dove troviamo una prima fontana.
Scendiamo brevemente per prendere la strada carrozzabile verso Caldenno e troviamo le indicazioni del Sentiero Italia, che passa da Prato Maslino verso la val Caldenno nella sua variante bassa, dal passo di Scermendone verso il passo di Caldenno nella sua variante alta. Con il nostro anello passiamo prima dalla variante bassa e poi in senso opposto da quella alta.
Seguendo la strada in leggera salita, sempre corribile, raggiungiamo l’alpe Caldenno, dove troviamo un’altra fontana. Da qui, la pendenza del sentiero cambia radicalmente. Cominciamo a inerpicarci per la bella val Caldenno, seguendo il corso dell’omonimo torrente accompagnati dal fragore della cascata. Man mano che saliamo, si apre davanti a noi la vista dei Corni Bruciati.
Con un ultimo strappo piuttosto ripido raggiungiamo un pianoro dove possiamo, sia pur brevemente, tirare il fiato. Siamo ormai sui 2400 m e la quota comincia a farsi sentire! Troviamo le indicazioni per il passo Caldenno, verso destra, e quelle che interessano a noi per il passo Scermendone, verso sinistra.
Le montagne sembrano una muraglia invalicabile, ma il sentiero c’è e i bolli sono freschi ed evidenti. Li seguiamo fino alla fine del pianoro e lungo una nuova, ripida salita, mentre intorno a noi le marmotte fischiano allarmate: non sono abituate alla presenza degli umani! In effetti da quando siamo partiti non abbiamo incontrato anima viva, e nessuno incontreremo fino alla vetta del Pizzo Bello.
Il sentiero per il passo Scermendone non è difficile, almeno in assenza di neve. Certo si tratta di un ambiente severo di alta montagna, che richiede esperienza e dimestichezza con ghiaioni e pietraie. Ben presto arriviamo al passo, a poco meno di 2600 m di quota, e la vista si apre sulla val Terzana in tutto il suo splendore.
Seguiamo ora le indicazioni verso sinistra per il Pizzo Bello. La cima si vede e sembra vicinissima: pensiamo di raggiungerla in fretta, tornare indietro e scendere al laghetto Scermendone prima di risalire alla cima di Vignone, per un giro totale di una ventina di chilometri. In realtà siamo più lenti del previsto: in quest’ultimo tratto tra il passo e il Pizzo Bello, in assoluto il più selvaggio di tutto il percorso, troviamo ancora della neve ghiacciata e, non avendo con noi i ramponcini, ci tocca ravanare nella pietraia per evitarla.
Una lingua di neve particolarmente ampia mi fa decidere di scendere di qualche decina di metri per attraversare in sicurezza, per cui il dislivello totale della mia traccia potrebbe risultare maggiore del normale.
Riguadagnato il sentiero dopo la ravanata, ci è passata la voglia di tornare indietro per questa via e decidiamo di accontentarci di un giro più breve, scendendo direttamente all’alpe Vignone. Prima, però, saliamo in vetta al Pizzo Bello per goderci il panorama che spazia dal gruppo del Bernina al Disgrazia e al Badile. Qui incontriamo una persona (e un cane) per la prima volta da quando siamo partiti.
Dopo una meritata merenda con vista, torniamo brevemente sui nostri passi scendendo dalla cresta del Pizzo Bello, poi, lasciandoci alle spalle le roccette della val Terzana, cominciamo la discesa per i verdi prati che ci separano dall’alpe Vignone.
I bolli nel prato si vedono e non si vedono. Prestate attenzione e, se li perdete di vista, tornate indietro: anche tra questi verdi pascoli le pendenze non scherzano ed è meglio seguire sempre il sentiero. Poco prima di arrivare all’alpeggio, dove naturalmente ci sono delle fontane, incontriamo un gruppo di tre escursionisti. Con così poca gente in giro, è un piacere fermarsi a salutare e fare due chiacchiere!
Superata l’alpe Vignone, proseguiamo in discesa verso Prato Maslino. Il sentiero, finora piuttosto scosceso, diventa sempre più morbido e corribile, soprattutto quando si rientra nel bosco. Ancora pochi chilometri e arriviamo a Prato Maslino.
Attraversiamo l’alpeggio prima seguendo la strada carrozzabile, poi tagliando un po’ a caso per i prati, e ben presto raggiungiamo la macchina.
Era da un po’ che lo puntavamo, e finalmente siamo riuscite a ritagliarci tre giorni per esplorare questo cammino dal nome evocativo, un po’ fuori mano, certo, per chi arriva dal nord Italia, ma decisamente all’altezza della sua fama. I paesaggi e il silenzio delle selvagge montagne abruzzesi, insieme all’accoglienza calorosa riservataci dai locals, valgono bene la trasferta e qualche sbattimento.
Il team delle Martas, quest’anno troppo indietro con la preparazione atletica per affrontare più di ottanta chilometri di corsa, ha pensato bene di caricare gli zaini con tenda, sacco a pelo, provviste e fornelletto, e di partire per una volta in modalità trekking. Ma queste facili mulattiere con pendenze modeste sarebbero il terreno ideale per un ultratrail: se vi serve un “lunghissimo” in preparazione a qualche gara, tenete in considerazione questo percorso, che con il giusto allenamento si potrebbe fare di corsa, senza ammazzarsi, forse in quindici ore o anche meno. Lungo tutto il cammino si trovano fontane, che però possono essere chiuse nel pomeriggio o la sera. Non si trovano cestini o cassonetti per la spazzatura se non nei paesi più grandi nella seconda metà del cammino, da Magliano de’ Marsi in poi.
Le principali informazioni sul Cammino dei Briganti, un percorso ben segnato e in ottime condizioni, si trovano su questo sito. Come vedrete, ci sono alcune varianti e il tempo di percorrenza consigliato è di sette giorni. Io vi propongo qui il giro come l’abbiamo fatto con Marta, dato che la nostra organizzazione ci è sembrata ragionevole: partite in auto da Milano alle 7 del venerdì mattina, abbiamo attaccato il cammino verso le 14,30, percorrendo 22 km prima di piantare la tenda a Villerose; il sabato ci siamo sparate 44 km da Villerose a Scurcula Marsicana passando per il lago della Duchessa – l’unico punto di vera montagna, dove si concentra la maggior parte del dislivello; infine la domenica abbiamo percorso gli ultimi chilometri, raggiungendo la macchina prima di mezzogiorno e riuscendo a tornare a Milano a un’ora accettabile.
La partenza è da Sante Marie, in realtà l’unico dei paesi del cammino che non abbiamo attraversato: abbiamo infatti parcheggiato vicino alla stazione, a fondovalle rispetto al centro del paese, e lì ci siamo fermate alla fine del giro, tagliando forse un paio di chilometri e un centinaio di metri di dislivello rispetto al percorso “corretto”. La prima tappa è S. Stefano, un grazioso paesino ad appena 5 km dalla stazione di Sante Marie, ed è qui che ci dirigiamo seguendo le indicazioni. Dopo un primo tratto di salita, la pendenza diminuisce e il cammino diventa facile e piacevole.
Raggiungiamo ben presto S. Stefano e facciamo un primo rifornimento d’acqua. Nonostante sia pomeriggio, le fontane sono ancora aperte: a quanto pare in questo periodo vengono chiuse solo di sera. Il paese successivo è Poggiovalle, un posto davvero suggestivo, semi deserto e circondato solo da natura e silenzio.
Da qui si scende in direzione Nesce, da cui però non passiamo: prima di arrivare in paese, il cammino devia tutto a destra e ci porta in un ampio pianoro ai piedi di Poggiovalle.
Dopo un paio di chilometri completamente in piano, immerse nel silenzio più totale, incontriamo un gregge di pecore accompagnato da cani pastore (in questo caso poco aggressivi, ma fate attenzione!) e arriviamo in vista di Villerose, dove abbiamo intenzione di passare la notte.
Le indicazioni qui non sono chiarissime, ma il paese è sempre visibile e in qualche modo lo raggiungiamo. Il problema, ora, è recuperare dell’acqua per la cena. Non troviamo fontane e il paese è completamente deserto. Lo attraversiamo (non ci vuole molto) e finalmente intravediamo una persona in lontananza: allunghiamo il passo e raggiungiamo il simpatico signor Alberto, che si fa davvero in quattro per aiutarci. La fontana è poco più avanti, dice, ma a quest’ora ormai è chiusa. Nessun problema, ci darà lui un paio di bottiglie d’acqua. Ci sconsiglia di piantare la tenda nel bosco, ci sono gli animali!, meglio accamparci nel campo da calcio abbandonato in mezzo al paese, dove non ci disturberà nessuno. Anzi, va lui stesso a informare i vicini, che approvano e si rendono disponibili per qualsiasi ulteriore necessità. Riconoscenti per tutta questa gentilezza, non ci poniamo problemi e ci sistemiamo nel campo da calcio (“in mezzo, eh! non sui lati”) come indicato dai simpatici abitanti di Villerose.
Dormire in mezzo a un prato dall’erba alta, lontano da qualsivoglia edificio, albero o altra forma di riparo, non è in realtà un’idea geniale, ma ce ne rendiamo conto solo qualche ora più tardi, quando ci ritroviamo nel sacco a pelo a battere i denti con la tenda che gocciola per l’umidità. Niente, per questa notte è andata così. Con le prime luci raccogliamo faticosamente le nostre cose – la tenda e i sacchi a pelo sono fradici, ma ci riproponiamo di farli asciugare più tardi, quando il sole sarà alto – e ci prepariamo la colazione con l’ultima acqua del signor Alberto. Altri signori del paese, che stanno andando a raccogliere funghi, si fermano a fare due chiacchiere mentre ci riscaldiamo con un bel nescafè e un muesli dal gusto discutibile. Infine salutiamo tutti e ci mettiamo in marcia.
Con qualche saliscendi tra piacevoli sentieri e strade sterrate, con un passaggio in una palude di fango breve, ma sufficiente a bagnarci e inzaccherarci completamente i piedi, arriviamo a Spedino, dove troviamo una fontana funzionante, e proseguiamo per Cartore. Tutte le nostre speranze di procurarci qualcosa per pranzo si concentrano su questo paesino, che vanta persino una locanda.
Una enorme scritta in 3D ci avverte che stiamo entrando nella riserva della Duchessa. Di fronte a noi si stagliano le montagne che stiamo per affrontare. Sappiamo che a Cartore comincerà la sola vera salita del percorso, circa 1000 m D+ per arrivare al lago della Duchessa.
Arriviamo a Cartore e per la prima volta troviamo un piccolo affollamento: c’è infatti chi arriva qui in auto per un trekking al lago della Duchessa. Troviamo una fontana e un piccolo ristoro, la locanda dei Casali di Cartore, i cui gentilissimi gestori ci preparano dei panini, ci danno informazioni sulla presenza di acqua lungo il percorso e ci permettono persino di gettare nei loro bidoni la spazzatura che, in mancanza di cassonetti, abbiamo portato fin qui. Ci viene indicata una fonte poco prima del lago, per cui decidiamo di riempire solo una borraccia a testa.
Alla fine la salita è tutta all’ombra e non abbiamo neanche la necessità di fermarci a cercare la fonte prima del lago. Marta zampetta tranquilla nonostante lo zaino, mentre io, che non sono abituata a fare dislivello con tutto questo peso sulle spalle, trovo la salita particolarmente faticosa. Poco male, ben presto ci ritroviamo fuori dal bosco e circondate da montagne bellissime. Abbiamo superato gli altri escursionisti, per cui ci godiamo il panorama in perfetta solitudine!
La parte più bella, in realtà, è quella dopo il lago, che tanti saltano per tornare a Cartore, dove lasciano lo zaino, e riprendere il cammino da lì. Io consiglio caldamente di sopportare il peso dello zaino e fare tutto l’anello, superando il lago della Duchessa (1788 m) e raggiungendo il passo (di cui non mi è chiaro il nome) a poco meno di duemila metri di altezza, scendendo da lì a Rosciolo de’ Marsi senza ripassare da Cartore.
Una distesa di crochi e le ultime chiazze di neve ci accompagnano verso il passo, il vocio degli altri escursionisti ormai lontano dietro di noi. Non incontreremo anima viva, salvo un branco di cinghiali, per i prossimi 10 km.
Cominciamo la lunga discesa per Rosciolo de’ Marsi. Non c’è nessuna indicazione e il sentiero sembra davvero poco battuto, ma è comunque evidente. Il primo tratto è un po’ scosceso, anche se la classificazione dell’itinerario come EE ci è parsa eccessiva, almeno adesso che non c’è neve.
Perdiamo circa cinquecento metri e la pendenza si fa sempre più dolce, mentre il sentiero si trasforma in strada sterrata. Alla fine della discesa, svoltiamo a sinistra verso Rosciolo de’ Marsi e cominciamo l’ultima salita di oggi, circa 200 m D+, particolarmente faticosa per il caldo. Sono infatti le 14 e stiamo aspettando di trovare una fontana per concederci finalmente la nostra pausa pranzo con i panini acquistati a Cartore.
La salita ci porta a un bell’altopiano coronato dalle montagne, dove incontriamo magnifici cavalli al pascolo – una costante da queste parti – e persino un paio di umani. Scendiamo ora verso Rosciolo e, poco prima di raggiungere il paese, troviamo la sospirata fontana davanti alla chiesa romanica di Santa Maria in Valle Porclaneta.
Prima di tirare fuori i panini, stendiamo tenda e sacchi a pelo sul sagrato della chiesa: basta una mezz’oretta sotto il sole e asciuga tutto! L’acqua fresca, poi, è davvero un toccasana dopo il caldo degli ultimi chilometri. Chi volesse fare il giro in due giorni, o comunque dividere diversamente il percorso, può pensare di accamparsi qui: il posto è ideale e la fontana comodissima.
Ci rimettiamo in cammino e, superata Rosciolo, per facili strade bianche raggiungiamo Magliano de’ Marsi, che rispetto ai paesi attraversati finora ci sembra una metropoli.
Qui troviamo negozi, ristoranti e bar, ma siamo intenzionate a proseguire fino al paese successivo, Scurcula Marsicana. A questo punto io ho le vesciche ai piedi e l’idea fissa di una birra gelata, per cui è Marta a preoccuparsi della strada da seguire e del posto per piantare la tenda. Pare che ci siano due varianti, entrambe indicate come Cammino dei Briganti: noi scegliamo appunto quella che passa da Scurcula Marsicana. In paese troviamo le fontane chiuse, ma in un negozio di alimentari facciamo scorta di acqua, succo di frutta e birra (yeah!).
Dopo 44 km la birra ce la ben siamo meritata, no? Per di più in questo paese ci sono cestini e cassonetti per la raccolta differenziata, per cui non dobbiamo neanche portarci dietro le bottiglie vuote. Stanche ma ormai serene con i nostri tre litri d’acqua, principale preoccupazione per la sera, proseguiamo lungo il cammino superando Scurcula Marsicana e cominciando a cercare un posto per la tenda. Troviamo una casa abbandonata con un giardinetto riparato, seppure infestato dalle ortiche, che sembra fare al caso nostro. Per sicurezza ci confrontiamo con il proprietario della casa accanto e, per non farci mancare niente, anche con l’autista di un trattore di passaggio: niente, pare che la nostra presenza non dia fastidio a nessuno, siamo anzi le benvenute.
Ci sistemiamo nel giardinetto abbandonato e, sul ciglio della strada, Marta prepara la cena mentre io con ago e filo mi occupo delle mie vesciche. Il riso con gli sgombri sembra più buono del normale dopo questa lunga giornata in cammino.
Riparato è riparato, ma con la temperatura non è che vada molto meglio di ieri. “Non è il freddo, è l’umidità” è diventato il Leitmotiv del weekend. Se proprio vogliamo vedere il lato positivo della seconda notte in bianco, all’alba siamo già pronte con il nostro nescafè e riusciamo a metterci in cammino davvero presto. Dopo un facile tratto di strada, arriviamo al bivio con indicazioni per Le Crete, da cui non dobbiamo passare; prendiamo invece il sentiero a destra per San Donato, dove finalmente vediamo le prime indicazioni anche per Sante Marie.
Raggiungiamo il paese, dove troviamo una fontana, e proseguiamo in salita lungo l’antica mulattiera che una volta portava alla rocca di San Donato. Oggi non sono rimasti che dei ruderi, ma il percorso è davvero suggestivo.
Seguiamo il cammino che si inoltra tra un gruppo di case abbandonate ma, poco dopo, perdiamo di vista il segnavia e proseguiamo un po’ a caso lungo un sentiero non proprio battutissimo. Il percorso è comunque molto panoramico e ci riporta ben presto sulla retta via all’altezza dei ruderi dell’antico castello.
Dopo i ruderi comincia la discesa. Siamo in un ambiente collinare ma davvero bello e selvaggio, immerso nel silenzio e popolato solo da animali al pascolo.
I paesi successivi sono Scanzano e poi Tubione: in entrambi troviamo fontane e precise indicazioni. Ormai la nostra meta, Sante Marie, è davvero vicina!
Da Tubione scendiamo a fondovalle e ben presto ci ritroviamo accanto ai binari della ferrovia dove abbiamo lasciato la macchina. Sante Marie si erge poco più in alto sulla nostra sinistra, ma a questo punto il giro è praticamente finito e decidiamo di tagliare l’ultimo pezzo. Approfittiamo di un sottopasso per attraversare i binari e arriviamo alla stazione di Sante Marie, stanche ma decisamente soddisfatte!
Conclusa una bella stagione di allenamenti e gare, torno a dedicarmi a quella che in fondo è la mia specialità: l’esplorazione! Era da un po’ che non andavo a caccia di sentieri e finalmente ho avuto l’occasione di provare un nuovo anello vicino a casa. La partenza è da Sirta, sul versante orobico della Valtellina, all’altezza del fiume Adda e del sentiero Valtellina (per trovarlo su Google maps, il paese da cercare è Forcola). Più di una volta, passando di qui per le mie “recovery run” in piano, ho buttato l’occhio a questo bel paesino incastonato tra ripide pareti rocciose, chiedendomi come fossero i sentieri lassù.
La risposta è che sono fantastici! Una rete di mulattiere in ottime condizioni unisce infatti gli alpeggi di Bures, Sostila e Somvalle e permette di fare un bel giro ad anello passando per la selvaggia val Fabiolo e per la cima poco fantasiosamente nominata Culmine (1302 m), con scorci prima sulla bassa Valtellina con lo sfondo del Legnone, poi sulle cime della Val Masino e infine sulla Val Tartano.
Dopo avere dunque parcheggiato lungo l’Adda, si entra in paese raggiungendo la chiesa, la cui cupola svetta tra le case. Proprio dietro la chiesa comincia la mulattiera. Impossibile sbagliare: trovo subito chiare indicazioni per la val Fabiolo e poi per Bures. Sono le 17,30 passate quando parto e so che mi toccherà scendere al buio, per cui trovo particolarmente rassicuranti i puntuali cartelli e il buono stato dei sentieri.
Se avessi uno zaino, mi verrebbe probabilmente la tentazione di fermarmi a far castagne, tante se ne trovano in questa prima parte di bosco. Ma sono uscita in pantaloncini e maglietta, giusto con il telefono e la frontale, e due o tre chili di castagne non saprei proprio dove metterli. Proseguo allora con la mia passeggiata, sempre seguendo le indicazioni per Bures.
Il percorso è molto grazioso, con tre ponticelli in pietra e diverse cappellette affrescate. La pendenza non è eccessiva e mi permette in alcuni tratti anche di corricchiare. Supero, senza attraversarlo, un primo ponte e una cappelletta. Seguo il corso del torrente Fabiola, che attraverso in due punti, con il secondo e il terzo ponte, e ben presto arrivo a Bures (630 m).
L’anello vero e proprio comincia da qui: prendo infatti il sentiero 170 a destra, in direzione Sostila, mentre tornerò da quello a sinistra, sempre numerato come 170. La pendenza aumenta un po’ e in poco tempo percorro i 200 m di dislivello che mi separano da Sostila (821 m). Più grande di Bures, questo paesino è davvero graziosissimo!
Il sentiero prosegue in piano tra le baite; supero una chiesetta e arrivo a un bivio, dove si trova anche una fontana: qui prendo il sentiero in salita verso sinistra. La pendenza aumenta ancora e la vegetazione comincia a cambiare: verso i 1000 m di quota cominciano infatti le betulle. Arrivo in vista del Crap del Mezzodì, altra cimetta sui mille metri, e alla Pciöda Granda, un balcone panoramico con vista sul Legnone.
Il sentiero continua a salire con decisione e guadagno rapidamente altri 200 m di dislivello, prima di arrivare a un punto pianeggiante dove posso tirare il fiato. Corricchio in piano per poche centinaia di metri, fino a raggiungere un nuovo bivio. Bisogna prendere qui il sentiero in salita verso sinistra per raggiungere il Culmine, seguendo le indicazioni per una croce che, in realtà, alla fine non ho trovato.
Percorro dunque questo sentiero in leggera salita, passando per un’area pic-nic con tavoli in legno e persino un chiosco (ovviamente chiuso), e arrivo alla piatta cima del Culmine aspettandomi di vedere la famosa croce come da indicazioni.
La vista sulle cime della Val Masino, con la luce calda del tramonto e il primo foliage d’autunno, è davvero fantastica, ma della croce neanche l’ombra. La cerco un po’, proseguendo nel bosco di felci e betulle, ma niente da fare. Mistero.
Torno sui miei passi fino al bivio. Da qui si può scendere per la stessa via di salita, ma naturalmente non è questa una soluzione accettabile per un blog che si chiama “Trail Rings”. Prendo dunque il sentiero verso sinistra che, dopo una discesa abbastanza ripida in un bosco sempre più buio, mi porta in vista di Campo Tartano.
Continuo a seguire il sentiero, ora in leggera discesa, fino a Somvalle, paesino che si trova poco più in basso rispetto a Campo Tartano. Questo è l’unico punto in cui non ho trovato indicazioni utili: basta comunque prendere la strada più a sinistra, che diventa poi una carrozzabile in leggera discesa e si trasforma infine in quel sentiero 170 che porta a Bures dalla direzione opposta a quella dell’andata.
Una cascata è praticamente l’ultima cosa che vedo prima di riaddentrarmi nel bosco e, a questo punto, accendere la frontale: sono le 19,30 e ormai è quasi del tutto buio. Con il crepuscolo, il bosco brulica di animali: una volpe, sorpresa dalla mia presenza, mi sfreccia davanti lungo il sentiero, mentre un gruppo di cerbiatti corre a nascondersi tra gli alberi al mio passaggio.
Seguo senza difficoltà le indicazioni per Bures e, da qui, non mi resta che ripercorrere la mulattiera dell’andata fino a Sirta. Sbucando dal bosco, mi accolgono le luci del paese e lo spettacolo della chiesa illuminata.
Sono le 20 quando arrivo alla macchina, felice di questo nuovo percorso che di sicuro ripeterò nel corso dell’autunno. Chi volesse farlo in pieno inverno farà bene a portarsi i ramponcini, dato che ci troviamo sul versante orobico che per mesi non riceve un raggio di sole.
Val Poschiavina Wild (18 km – 1000 m D+)
25 Luglio 2023 by marta • Valtellina Tags: campagneda, campo moro, corsa in montagna, lago, passo d'ur, percorso ad anello, trail running, val poschiavina, val poschiavo, valmalenco • 0 Comments
Anello breve ma intenso su sentieri poco battuti.
Campo Moro (1996 m) – Alpe Gembrè – Passo d’Ur (2514 m) – Passo di Campagneda (2615 m) – Laghi di Campagneda – Rifugio Ca’ Runcasch – Campo Moro.
Periodo: Luglio 2023
Partenza: Campo Moro (1996 m)
Distanza: 18 km
Dislivello: 1000 m
Acqua: fontana all’alpe Gembrè.
GPX (clic dx, salva link con nome)
Finalmente è arrivata la settimana di scarico: vietato faticare, via libera alle passeggiate con gli amici! I giri più belli con la mia amica Marta sono sempre ambientati tra le meravigliose montagne della Valmalenco, che anche questa volta si sono rivelate all’altezza delle aspettative. Con Meme, Erica e tre quadrupedi abbiamo pensato di accamparci sotto la diga di Campo Moro, a 2000 m di quota, per passare una bella notte al fresco e partire di buon’ora senza levataccia.
Il punto migliore da cui partire per il percorso che abbiamo in mente è più indietro, nei pressi del rifugio Poschiavino, ed è qui che riportiamo il furgone di Erica dopo averlo stipato con tutti i nostri averi. A piedi torniamo indietro: meglio togliersi subito questo paio di chilometri su asfalto, piuttosto che doverli percorrere alla fine. Seguendo le indicazioni per l’alpe Gembrè, prima tappa del nostro giro, saliamo in cima alla diga e, senza attraversarla, continuiamo a camminare sul lato destro del lago di Gera.
Sulla sinistra, dall’altra parte del lago, si vede il rifugio Bignami e ogni tanto tra le nuvole sbuca anche il ghiacciaio Fellaria, la grande attrazione di questa valle. La vedretta è meravigliosa, ma siamo ben contenti di svoltare verso destra e di inoltrarci nella meno turistica Val Poschiavina.
Superata l’alpe Gembrè, dove si trova l’unica fontana che ricordo di avere visto in questo giro, il sentiero spiana e attraversa un pratone incredibilmente panoramico. Proseguendo dritto si arriverebbe al bivacco Anghileri-Rusconi, da cui si può raggiungere la cima Fontana – un tremila facile e di grande effetto. Noi invece prendiamo il sentiero (o meglio la traccia) a destra, verso il passo d’Ur.
Dopo un tratto pianeggiante e piuttosto bagnato, il sentiero guadagna quota e ci porta nella parte più selvaggia della Val Poschiavina, dove per chilometri e chilometri non incontriamo anima viva al di fuori delle marmotte.
Davanti a noi si para il monte Spondascia, che inizialmente avevo incluso come tappa del nostro giro. Trattandosi di una cima piuttosto impervia, decidiamo però di evitarla per via del meteo incerto: non dovrebbe piovere, ma la visibilità è scarsa. È un peccato che la vista non si apra mai sul pizzo Scalino, che pure è lì dietro da qualche parte, ma questo bel sentiero ad alta quota con le cime più alte immerse nelle nubi è davvero suggestivo.
Il sentiero, a volte molto evidente, a volte più difficile da trovare (utile la traccia gpx), ci porta infine al lago d’Ur e al passo omonimo, a 2514 m di quota. Alcune pietre miliari segnalano il confine con la Svizzera. Proseguendo in direzione passo di Campagneda, incrociamo il sentiero più battuto, quello che passa sul fondo della Val Poschiavina. Per la prima volta incontriamo altre persone, dirette come noi verso il passo di Campagneda.
L’ultimo tratto prima del passo ci lascia a bocca aperta: ai piedi del pizzo Scalino e delle altre imponenti cime della Val Poschiavina è spuntato un immenso tappeto di fiori gialli, bellissimo.
Dal passo scendiamo verso i laghetti di Campagneda, una destinazione facilmente raggiungibile e quindi più frequentata rispetto al sentiero per il passo d’Ur. Qualche staffa e catena aiutano nella discesa nei pochi punti tecnici, ma si può tranquillamente farne a meno.
La direzione da seguire è ora Ca’ Runcasch: superato questo rifugio, si prende il sentiero per Campo Moro e per il rifugio Zoia. Dopo un breve tratto in leggera salita, il sentiero passa ai piedi di una falesia dove climber coraggiosi si stanno cimentando con tiri durissimi; poi cominciamo a perdere quota, superiamo il rifugio Zoia (affollatissimo) e finalmente raggiungiamo il parcheggio.