Poco battuta e sconosciuta ai più, la val Brevettola merita decisamente una visita. I piemontesi l’avranno distrattamente incrociata salendo in auto verso i più popolari laghi della valle Antrona, mentre qualche runner potrebbe avere sentito parlare della skyrace che si corre ogni estate su questi sentieri: si tratta, in ogni caso, di un giro poco “mainstream”.
Il team val Brevettola
Con Michele, Irene e Martin decidiamo di approfittare di un bel sabato di ottobre per provare il giro della gara. La stagione è semplicemente perfetta: a questa quota, poco meno di duemila metri nei punti più alti, non ha ancora nevicato, ma fa abbastanza fresco da non doverci portare enormi scorte d’acqua.
Si parte dal piccolo borgo di Montescheno, a settecento metri. Ci sono una ventina di posti auto gratuiti in piazza, strategicamente vicini a un bar, a una fontana e persino a un bagno pubblico. Il giro comincia lungo la strada in leggera salita, superando la chiesa e un paio di tornanti. Cominciamo poi a salire per mulattiere che tagliano i tornanti, seguendo i bolli ancora evidenti della skyrace e i ricordi di Michele che, da bravo piemontese, questa gara l’ha già corsa più di una volta.
Pendenze impegnative.
Il tratto su mulattiera finisce ben presto: seguiamo brevemente la strada in leggera discesa per andare a imboccare il sentiero, dove comincia la salita vera e propria. Ci sono diverse indicazioni, ma il percorso da seguire è quello segnato dai bolli di colore arancione.
Questa salitona, oltre 1300 m nei primi 7 km, si divide in tre parti: un primo strappo piuttosto lungo e ripido nel bosco fino all’alpe Ortighè, a 1400 m circa, dove si tira brevemente il fiato con un tratto pianeggiante e corribile; una seconda salita altrettanto ripida, questa volta con una bella vista su sconosciute cime svizzere, che termina in un bel traverso corribile; infine un ultimo breve strappetto, appena cento metri di dislivello, per raggiungere l’alpe Ogaggia (1977 m).
Salita dall’alpe Ortighè all’alpe Ogaggia.Traverso corribile e super panoramico.
All’alpe Ogaggia il saggio Michele ci ricorda di rabboccare le flask, perché ci aspetta ora un lungo tratto in cui non incontreremo altra acqua.
Ultimo rifornimento d’acqua all’alpe Ogaggia.
Finalmente un po’ di discesa: perdiamo quasi trecento metri in una vallata ampia e completamente deserta. Le indicazioni da seguire sono quelle per il passo Arnigo.
Discesa dall’alpe Ogaggia verso il passo Arnigo.
Comincia ora la salita più ripida di tutto il giro: sono solo trecento metri di dislivello, ma la pendenza la rende davvero impegnativa.
La salita più impegnativa di tutto il giro.
Arriviamo così al passo Arnigo (1990 m), dove ci concediamo una pausa e una merenda prima della meritata discesa. La discesa, a dirla tutta, dura poco: solo un chilometro e mezzo, poi si sale di nuovo, mentre alle nostre spalle si apre uno scorcio spettacolare sulle montagne innevate della Svizzera.
Forse il punto più panoramico di tutto il giro.
Raggiungiamo il passo di Saudera (1890 m) e, da qui, riprendiamo a scendere lungo un sentiero relativamente semplice. Perdiamo quota fino al colle del Pianino (1620 m), da cui si dipartono due sentieri che portano ugualmente a Montescheno: noi seguiamo il C04 per cima del Moncucco, come nel percorso della skyrace. Dopo un breve falsopiano si scende a tutta nel bosco, incrociando un alpeggio e qualche baita. Nell’ultima parte ci orientiamo solo grazie ai bolli della gara, anche perché il sentiero non è in ottime condizioni e in alcuni punti si alterna alla strada. Ma ben presto siamo a Montescheno, pronti per stappare quattro birre alla salute di un altro gran bel giro in ottima compagnia!
Tra Italia e Francia sempre in quota, per ammirare da tutti i lati la montagna “a forma di montagna”.
Pian della Regina (1800 m) – Pian del Re (2020 m) – Buco di Viso (2880 m) – refuge du Viso (2460 m) – col de Valante (2815 m) – rifugio Vallanta (2450 m) – passo Gallarino (2726 m) – rifugio Quintino Sella (2640 m) – Pian della Regina.
Gli anelli, quelli belli! Era da anni che puntavo il Gran Tour del Monviso e un bel sabato di settembre, freddo e terso come piace a me, sono finalmente riuscita a organizzarlo. Ringrazio sin d’ora i miei cavalieri per un giorno, Michele e Andrea, compagni ideali per una corsetta senza pretese, decine di foto e chiacchiere a iosa al cospetto del Signor Viso.
Il team Monviso.
Il Monviso è tanto bello quanto remoto e, da Milano, richiede un viaggio piuttosto lungo. Con una sveglia assassina siamo riusciti a parcheggiare davanti al rifugio Pian della Regina, sopra Crissolo, alle 8,30 del mattino. Non avevo considerato il tempo che Michele necessita per cambiarsi, ma insomma per le 9 eravamo in marcia. Il giro si può fare in senso orario o antiorario e noi abbiamo scelto quest’ultima opzione – che ci ha regalato una prima salita molto dolce e una discesa finale piuttosto cattiva, forse meglio invertire?
Partenza da Pian della Regina.
Dal rifugio Pian della Regina, che dispone anche di un’area camper e di piazzole per le tende, si prende la stradina in discesa che sembra dirigersi proprio verso il Monviso, poi il sentiero in salita verso destra. La prima tappa è il Pian del Re, dove arriva anche la strada: dobbiamo farci largo tra le auto e gli escursionisti in partenza, ma superato il parcheggio torniamo subito sul sentiero.
La chiesetta di Pian del Re.
Con qualche sorpasso strategico ci portiamo in pole position su una salita davvero comoda, facile e morbida, seguendo le indicazioni per Pian Mait e Buco di Viso. Dai cartelli scopriamo di trovarci anche sul percorso della GTA, la Grande Taversata delle Alpi: da ogni giro nasce sempre lo spunto per il successivo.
La prima salita è facile e morbida.
Man mano che guadagniamo quota il sentiero si fa più roccioso, senza mai diventare eccessivamente tecnico. Ci stiamo avvicinando al Buco di Viso, la galleria dove si entra dall’Italia e si esce in Francia. Consiglio la frontale per l’attraversamento, anche se si tratta solo di un centinaio di metri: siamo quasi a 2900 m di quota, le temperature sono polari e il fondo è ghiacciato. Attenzione: l’accesso è vietato ai cani.
Freschino nel Buco di Viso.
Dopo un glorioso ingresso in territorio francese, cominciamo a scendere in una valle aperta e molto panoramica. Un ruscello d’alta quota ci accompagna lungo la discesa e ci fornisce il primo rifornimento d’acqua, anche se al refuge du Viso non manca poi molto.
Refuge du Viso.
All’esterno del rifugio, come ci era stato detto, troviamo una fontana a cui rabboccare le borracce e anche un minuscolo e grazioso WC.
WC ad alta quota.
Ci aspetta ancora un bel tratto in leggera discesa, con vista spettacolare sul versante francese del Monviso, prima di cominciare a inerpicarci per un sentiero roccioso, ma non troppo impegnativo, verso il col de Valante.
In salita verso il col de Valante.
Se tra il Pian del Re e il Buco di Viso abbiamo superato decine e decine di escursionisti, quassù siamo soli al cospetto del Re di Pietra. Ce lo godiamo in pace prima di cominciare la discesa per il Vallanta, il secondo dei tre rifugi lungo l’anello del Monviso. Anche qui c’è una fontana esterna, coperta di ghiaccio ma con acqua ancora corrente.
Fontana al rifugio Vallanta.
Dal Vallanta perdiamo quota lungo un sentiero che si trasforma via via in una stradina sterrata, noiosa ma veloce. Per la prima volta dalla partenza ci troviamo sotto i duemila metri e in un bosco: il sentiero da seguire, ora in salita, è l’U10 per passo Gallarino e rifugio Quintino Sella. Dopo qualche centinaio di metri di dislivello usciamo dal bosco e torniamo ad ammirare un panorama d’alta quota, in un ambiente che diventa sempre più lunare via via che ci avviciniamo al passo.
Verso il passo Gallarino.
Si alza il vento e la temperatura percepita si abbassa notevolmente, ma questa è la parte del giro che mi è piaciuta in assoluto di più. La salita è quasi finita e un bel tratto di sentiero corribile, con qualche saliscendi, ci accompagna fino al passo Gallarino. Qui si prosegue verso sinistra in discesa, verso il rifugio Quintino Sella, e il Monviso ricompare alla nostra sinistra in tutto il suo splendore.
Un’altra faccia del Monviso.
Ben presto arriviamo in vista del rifugio e del lago blu cobalto ai suoi piedi: per raggiungerli dobbiamo affrontare ancora un breve tratto di salita. Ci fermiamo al rifugio il tempo di rabboccare le flask e scambiare due parole con alcuni dei tanti alpinisti che oggi hanno raggiunto la vetta Monviso: molti altri stanno arrivando per provarci domani, o anche solo per ammirare dal basso il Re di Pietra.
Discesa su pietraia.
Affrontiamo l’ultima salitella, facendoci largo tra una processione di escursionisti e scalatori, e poi comincia finalmente la discesona finale. Siamo pronti a lasciare andare le gambe, ma la prima parte del sentiero è una pietraia dove da correre c’è ben poco. La vista in compenso è spettacolare: ogni curva ci regala uno scorcio nuovo e impagabile.
Man mano che perdiamo quota il sentiero diventa più corribile, anche se ne posso dire di averne visti di più semplici. Il dislivello è tanto ma finalmente arriviamo in vista prima del Pian del Re, poco più in alto alla nostra sinistra, poi del Pian della Regina, con il suo rifugio e la concreta promessa di una birretta fresca.
Il Campo dei Fiori è il primo massiccio montuoso che si incontra a nord di Varese, in direzione Svizzera: ideale per la stagione invernale, con i suoi sentieri facili e curatissimi a bassa quota, questo parco regionale ospita una nota gara di corsa in montagna e offre un fantastico terreno di allenamento non solo per il trail, ma anche per la mountain bike.
Il giro che vi propongo, facile e veloce, parte dal lido di Gavirate, uno dei punti più belli del lago di Varese. Il parcheggio del lido è a pagamento, ma c’è un parcheggio gratuito poco distante, all’area sosta camper di Gavirate. All’arrivo, troverete diversi bar con vista lago dove concedervi una meritata birretta!
Partenza dal lido di Gavirate.
Dal lido si percorre brevemente la pista ciclopedonale e si costeggia l’area sosta camper per risalire verso il centro di Gavirate. Si prende verso destra via Trinità, che porta al parcheggio parco Morselli (attenzione a un brutto attraversamento di strada). Qui è dove potete parcheggiare, se trovate posto, nel caso preferiate evitare l’asfalto e accorciare di qualche chilometro il giro.
Dal parcheggio si prende una stradina sterrata a tornanti in salita che supera le ultime case e porta nel bosco. Ci sono tante indicazioni e diversi sentieri non indicati, per cui consiglio di seguire la traccia gpx più che i cartelli.
Sentiero facile e corribile.
La prima parte di salita è decisamente corribile. Ci sono diverse opzioni per salire al forte di Orino: il mio percorso alterna tratti molto semplici e puliti, frequentati anche dalle mountain bike, a sentieri più ripidi e sconnessi, tutti comunque escursionistici e privi di pericoli (a parte forse i cacciatori).
Capirete di essere quasi arrivati al forte quando vi troverete in una zona di bosco morta, devastata da un parassita.
Alberi morti nella parte più alta del percorso.
Superato questo tratto un po’ triste, il sentiero emerge su una pista tagliafuoco e un’ultima salitella, chiaramente indicata, porta al forte. Non aspettatevi una costruzione: del forte di Orino è rimasto poco più di un muretto. La vista, in compenso, è spaziale: dal lago Maggiore al lago di Varese, con tutto l’arco alpino dal Monviso al Legnone. Il monte Rosa, in particolare, troneggia poco oltre il lago.
Lago Maggiore e monte Rosa.
Per scendere, prendo il sentiero 302, in questo periodo un po’ insidioso per la quantità di foglie secche che lo ricoprono, ma normalmente piuttosto semplice. Anche in discesa ci sono diverse opzioni e consiglio di seguire semplicemente la traccia.
Quando mancano 2-3 km all’arrivo, si torna sul sentiero dell’andata e non bisogna fare altro che ripercorrere i propri passi fino al lago.
Finalmente è arrivata la settimana di scarico: vietato faticare, via libera alle passeggiate con gli amici! I giri più belli con la mia amica Marta sono sempre ambientati tra le meravigliose montagne della Valmalenco, che anche questa volta si sono rivelate all’altezza delle aspettative. Con Meme, Erica e tre quadrupedi abbiamo pensato di accamparci sotto la diga di Campo Moro, a 2000 m di quota, per passare una bella notte al fresco e partire di buon’ora senza levataccia.
Campeggio a Campo Moro.
Il punto migliore da cui partire per il percorso che abbiamo in mente è più indietro, nei pressi del rifugio Poschiavino, ed è qui che riportiamo il furgone di Erica dopo averlo stipato con tutti i nostri averi. A piedi torniamo indietro: meglio togliersi subito questo paio di chilometri su asfalto, piuttosto che doverli percorrere alla fine. Seguendo le indicazioni per l’alpe Gembrè, prima tappa del nostro giro, saliamo in cima alla diga e, senza attraversarla, continuiamo a camminare sul lato destro del lago di Gera.
Lago di Gera, in alto a sx il rifugio Bignami.
Sulla sinistra, dall’altra parte del lago, si vede il rifugio Bignami e ogni tanto tra le nuvole sbuca anche il ghiacciaio Fellaria, la grande attrazione di questa valle. La vedretta è meravigliosa, ma siamo ben contenti di svoltare verso destra e di inoltrarci nella meno turistica Val Poschiavina.
Lo sfondo spettacolare del ghiacciaio Fellaria.
Superata l’alpe Gembrè, dove si trova l’unica fontana che ricordo di avere visto in questo giro, il sentiero spiana e attraversa un pratone incredibilmente panoramico. Proseguendo dritto si arriverebbe al bivacco Anghileri-Rusconi, da cui si può raggiungere la cima Fontana – un tremila facile e di grande effetto. Noi invece prendiamo il sentiero (o meglio la traccia) a destra, verso il passo d’Ur.
Seguendo la traccia verso il passo d’Ur.
Dopo un tratto pianeggiante e piuttosto bagnato, il sentiero guadagna quota e ci porta nella parte più selvaggia della Val Poschiavina, dove per chilometri e chilometri non incontriamo anima viva al di fuori delle marmotte.
Vista sul monte Spondascia (2867 m).
Davanti a noi si para il monte Spondascia, che inizialmente avevo incluso come tappa del nostro giro. Trattandosi di una cima piuttosto impervia, decidiamo però di evitarla per via del meteo incerto: non dovrebbe piovere, ma la visibilità è scarsa. È un peccato che la vista non si apra mai sul pizzo Scalino, che pure è lì dietro da qualche parte, ma questo bel sentiero ad alta quota con le cime più alte immerse nelle nubi è davvero suggestivo.
Pietra miliare al lago d’Ur.
Il sentiero, a volte molto evidente, a volte più difficile da trovare (utile la traccia gpx), ci porta infine al lago d’Ur e al passo omonimo, a 2514 m di quota. Alcune pietre miliari segnalano il confine con la Svizzera. Proseguendo in direzione passo di Campagneda, incrociamo il sentiero più battuto, quello che passa sul fondo della Val Poschiavina. Per la prima volta incontriamo altre persone, dirette come noi verso il passo di Campagneda.
Fioritura sotto il passo di Campagneda.
L’ultimo tratto prima del passo ci lascia a bocca aperta: ai piedi del pizzo Scalino e delle altre imponenti cime della Val Poschiavina è spuntato un immenso tappeto di fiori gialli, bellissimo.
Al passo di Campagneda (2615 m).
Dal passo scendiamo verso i laghetti di Campagneda, una destinazione facilmente raggiungibile e quindi più frequentata rispetto al sentiero per il passo d’Ur. Qualche staffa e catena aiutano nella discesa nei pochi punti tecnici, ma si può tranquillamente farne a meno.
Discesa verso i laghetti di Campagneda.
La direzione da seguire è ora Ca’ Runcasch: superato questo rifugio, si prende il sentiero per Campo Moro e per il rifugio Zoia. Dopo un breve tratto in leggera salita, il sentiero passa ai piedi di una falesia dove climber coraggiosi si stanno cimentando con tiri durissimi; poi cominciamo a perdere quota, superiamo il rifugio Zoia (affollatissimo) e finalmente raggiungiamo il parcheggio.
Il giro del Confinale è perfetto per un lungo allenamento estivo: i suoi scorci meravigliosi, i sentieri facili ma in alta quota, le fontane e i rifugi lungo tutto il percorso lo rendono particolarmente appetibile in questo periodo dell’anno.
Mi sono permessa di apportare qualche modifica a questo anello perfetto perché il giro del Confinale è lungo “solo” una quarantina di chilometri, mentre a me serviva farne sessanta. In realtà le aggiunte, inserite solo ai fini dell’allenamento, si sono rivelate anche meglio del percorso originale: il sentiero glaciologico dei Forni, in particolare, è stato una vera scoperta.
Vista spaziale dal sentiero glaciologico dei Forni.
Mentre il giro del Confinale comincia a Niblogo, io sono partita un po’ più in basso, da Bormio, raggiungendo Niblogo per stradine secondarie. Ho seguito il percorso classico fino al rifugio Pizzini, per poi deviare sul sentiero glaciologico che passa dal rifugio Branca e poi dal Forni. Sono scesa a Santa Caterina Valfurva dalla strada e poi, per sentieri, ho raggiunto Bormio 2000. Pochi chilometri su pista e strada, infine, mi hanno riportato al punto di partenza. Tempo di percorrenza: 12 ore incluse lunghe soste ai rifugi, effettive 10 ore e mezza. Più di metà del percorso rimane sopra i 2000 m e il punto più alto è il passo Zebrù, a 3005 m. Chi ama le lunghe letture troverà qui di seguito il resoconto dettagliato; gli altri possono limitarsi a scaricare la traccia: il percorso, per quanto lungo, è uno dei meno problematici che conosca.
Per poter rientrare a un’ora decente, decido di partire prestissimo e all’ultimo mi prenoto una stanza all’hotel Eira, un ottimo due stelle comodo e pulito: è qui che inizia e finisce la mia traccia gpx. Dall’hotel seguo la strada in discesa verso il centro di Bormio e imbocco il sentiero Frodolfo, una pista ciclo-pedonale che segue il corso dell’omonimo torrente. Corricchiando in leggera salita, raggiungo Uzza e poi San Nicolò.
Risalendo verso Niblogo.
Non mi dilungherò su questa parte del giro, in assoluto la meno interessante: basta seguire la traccia gpx o, alla peggio, la strada. Da Niblogo cambia tutto, perché la vista si apre sulla spettacolare Val Zebrù, ancora tutta in ombra benché si preannunci una giornata spettacolare.
Inizia il giro del Confinale in val Zebrù.
I primi chilometri del Confinale sono tutti da correre. Si guadagna dislivello in modo insopportabilmente lento su una strada sterrata, noiosa ma funzionale allo scopo di togliermi in fretta i primi 15 km. Si passa per infinite malghe, ma si entra nel vivo del percorso solo a partire dalla Baita Pastori: qui faccio il primo vero rifornimento d’acqua in vista della salita per il rifugio Quinto Alpini.
Fontana alla Baita Pastori (2168 m).
Il sentiero, o meglio la strada, si allontana sempre più dal fondovalle per inerpicarsi verso il gruppo Zebrù, Gran Zebrù, Orles, ancora immersi nell’ombra e nelle nubi.
Salita in ombra verso il Quinto Alpini.
Dall’altro lato della valle, illuminato dalle prime luci, è invece facilmente individuabile il monte Confinale, quello che dà il nome al mio giro.
Il sole splende sul monte Confinale (tutto a dx).
Le ultime tracce di verde scompaiono e mi ritrovo nell’infinita pietraia che mi aveva impressionato già cinque anni fa, al mio primo giro del Confinale. La magia di questo ambiente lunare è un po’ guastata dalla fiumana di persone che sta scendendo dal rifugio, ma d’altra parte è normale che un posto così bello sia affollato. Saluto tutti e mi arrampico fino alle bandierine tibetane che troneggiano poco sopra il tetto giallo del Quinto Alpini, da cui la vista può spaziare dalla vedretta dello Zebrù fin giù per tutta l’omonima valle.
Vedretta dello Zebrù.
Batto un po’ i denti (sono in canotta, mentre gli ospiti del Quinto Alpini indossano il piumino) ma mi godo l’arietta di alta montagna: la prossima settimana a Milano ne sentirò senz’altro la mancanza. Volgo uno sguardo al rifugio sotto di me, che nel frattempo si è svuotato, e decido che è ora di fare colazione.
Il rifugio Quinto Alpini (2887 m).
Una fetta di torta al grano saraceno con marmellata di mirtilli mi rimette al mondo, mentre mi scambio racconti di montagna con i gentilissimi gestori del rifugio. Ristorata e riscaldata dai primi raggi di sole, che finalmente stanno illuminando anche questo lato della valle, lascio il Quinto Alpini e ridiscendo per qualche centinaio di metri dalla stessa pista da cui sono salita. Al bivio prendo il sentiero a sinistra e inizio la traversata verso il passo Zebrù, con lo sfondo del monte Confinale.
Il sentiero con vista Confinale.
Questo bel traverso su pietraia è tutto facile, per lo più corribile. Perdo un po’ di quota prima di riprendere a salire verso il passo, superando alcuni gruppi di escursionisti incredibilmente gentili: in tutto il giorno non ho avuto bisogno di chiedere permesso neanche una volta e la presenza di tante persone non mi ha infastidito né rallentato, caso più unico che raro sulle montagne “facili”.
Il sentiero verso il passo Zebrù.
Lungo la salita c’è solo un breve tratto che può risultare difficoltoso, un canalino ripido e pieno di sfasciumi, ma qualche catena al posto giusto aiuta nella progressione. Occhio a non seguire le tracce degli animali (come ho fatto io), ma i bolli e appunto le poche catene. Dopo il canale raggiungo il passo da un sentiero facile e super panoramico, nell’aria fresca e rarefatta dei 3000 m.
Ultimo tratto prima del passo Zebrù (3005 m).
Al passo, il Gran Zebrù fa capolino a sinistra da dietro una montagna più bassa, che potrebbe essere la Cima della Miniera, mentre di fronte a me si apre la valle di Cedec, con il Cevedale e la sua vedretta che incombono su un minuscolo rifugio Pizzini.
Monte Cevedale e rifugio Pizzini.
La discesa al rifugio è piacevole e divertente: più che su un sentiero, sembra di correre per strada. Non per niente incrocio innumerevoli escursionisti e persino dei ciclisti in mountain bike. Dietro al rifugio Pizzini trovo una fontana, dove riempio le flask prima di avviarmi verso il sentiero glaciologico per il Branca: da qui in avanti il percorso differisce dal giro del Confinale, che passa invece per il sentiero panoramico parallelo al glaciologico.
Sul sentiero glaciologico, vista sul Gran Zebrù.
Perdo ancora un po’ di quota prima di cominciare un lungo tratto di saliscendi, così panoramico che quasi non mi rendo conto di avere già macinato 30 km. La vista si apre, sempre più spettacolare, sul ghiacciaio dei Forni.
Verso il Branca, vista sul ghiacciaio dei Forni.
Al rifugio Branca, affollatissimo all’ora di pranzo, mi fermo il tempo di un caffè, poi riparto seguendo sempre il sentiero glaciologico. Sono ora circondata da enormi rocce scavate dal ghiacciaio, che ormai si è ritirato, ma rimane pur sempre uno spettacolo maestoso.
Quanto rimane del ghiacciaio dei Forni.
Anche questo percorso è, giustamente, piuttosto affollato. Mi sorprende vedere diverse famiglie con bambini anche piccoli: il sentiero è sì facile, ma non una strada sterrata come quella che attraversa la Val Zebrù. Supero infine il rifugio Forni e comincio la discesa su strada, circa 6 km, verso Santa Caterina. Solo qui comincio a patire un po’ il caldo, ma per fortuna trovo subito una bella fontana per fare rifornimento – non lo so ancora, ma sarà l’unico punto acqua da qui a Bormio 2000. Attraverso il centro del paese e il torrente Frodolfo, poi prendo la strada in salita seguendo le indicazioni per Monti di Sclanera.
Comincio l’ultima salita da Santa Caterina.
Prima su strada sterrata, poi su una ripida pista supero il bosco e torno a quota 2000 m, dove il caldo dà un po’ di tregua. I Monti di Sclanera, scopro, non sono dei monti ma un bell’alpeggio dove il sentiero spiana e mi permette di tirare il fiato, prima di riprendere a salire in direzione Baitin dei Pastori. In alto vedo la stazione di Bormio 3000, e ringrazio mentalmente me stessa per essermi risparmiata una salita così tosta dopo più di 40 km.
Verso il Baitin, in alto a dx Bormio 3000.
In realtà anche questa salita, molto più breve, verso il Baitin dei Pastori mi sta lentamente distruggendo, complice il fatto che ho quasi finito l’acqua e non mi fido a bere dai ruscelli. Il paesaggio però è molto più bello di quanto mi sarei aspettata da questo versante dei monti di Bormio, addomesticati con ovovie e diavolerie varie. Dopo una breve discesa, raggiungo quello che identifico come il Baitin (ma a questo punto sono molto stanca e potrei sbagliarmi) e trovo le indicazioni per Bormio 2000, la mia ultima meta per oggi. Una breve salita mi porta su un altro sentiero corribile e panoramico, con una vista sul Confinale che mi sembra la degna conclusione del mio anello (anche se alla conclusione mancano ancora 13 km).
Sentiero per Bormio 2000, vista sul Confinale.
Il sentiero mi porta a una lunga, estenuante strada sterrata, dove nessuno ha pensato di piazzare una fontana, nonostante l’acqua sgorghi da tutte le parti. Stanca e disidratata, mi trascino per 5 km in leggera discesa, che mi sembrano 10 km in leggera salita, fino all’apparizione celestiale dei cavi dell’ovovia. Bormio 2000 sembra un grande parco divertimenti per persone poco sportive, ma in questo momento voglio solo una coca gelata con tanto limone e, in un grande parco divertimenti, ho la certezza di trovarla.
Arrivo a Bormio 2000.
L’assunzione di liquidi, zucchero e caffeina mi dà una botta di vita insperata: riparto di buon passo seguendo prima una pista in ripida discesa, poi la strada asfaltata a tornanti che, passando per San Pietro e per Eira, mi riporta finalmente al parcheggio dell’hotel.
Primo lungo dell’anno, dove andare? Il primo posto che mi viene in mente è la mia amata Val Grosina, i cui sentieri si prestano particolarmente bene alla corsa in montagna.
Sentieri corribili nella bella Val Grosina.
50 km sono tanti e decido di limitare al massimo gli imprevisti, mantenendomi per lo più su percorsi noti. Cedo solo alla tentazione di fare un ingresso trionfale in Val Grosina dal passo Schiazzera, anziché dalla solita strada per Eita: a parte questo passaggio ignoto, che in effetti mi ha un po’ rallentato, il resto del giro si è rivelato, come previsto, semplice e relativamente corribile. Tempo di percorrenza 10 ore totali (inclusa una lunga sosta a Biancodino), effettive circa 9 ore.
Partenza da Grosotto.
Parcheggio alla centrale idroelettrica di Grosotto, ai piedi del castello. Seguo per un chilometro via Milano, fino al centro del paese. Qui trovo una bella fontana e i primi cartelli: le indicazioni da seguire sono quelle per la torre di Vione, lungo il giro dei castelli. Consiglio di usare la traccia gpx, perché le indicazioni agli incroci non sono chiarissime. Alla torre arrivo dopo un altro paio di chilometri di saliscendi, tra borghi e bosco.
Torre di Vione (750 m).
Dalla torre continuo a seguire il sentiero 205 (con l’aiuto della traccia gpx, più che dei cartelli) fino a Bosca, dove mi ritrovo sull’infinita salita per il rifugio Schiazzera – fresca nella memoria per averla percorsa appena una settimana fa, nella Doppia W Sky 30. Da qui in avanti i bastoncini sono d’obbligo, almeno per me, dato che mi aspetta una salita di 1600 m. Certo è un bel vantaggio conoscere i sentieri, soprattutto durante un lungo: per esempio, so dove si trova l’unico punto acqua da Bosca al rifugio Schiazzera, un tubo che emerge dal bosco poco prima dell’alpe Susen, sul quale ho concentrato tutte le mie speranze di rifornimento.
Alpe Susen (1508).
Da Susen al rifugio Schiazzera mancano “solo” 500 m di dislivello, che tutto sommato passano abbastanza in fretta. Finalmente il bosco finisce e arrivo al rifugio, che questa mattina è affollatissimo: lo supero in fretta, concedendomi una sosta poche centinaia di metri più avanti. Lungo il sentiero c’è infatti una fontana, dove mi fermo per riempire le flask e godermi la bellezza di questa piana incoronata dalle montagne.
Fontana poco oltre il rifugio Schiazzera.
Proseguo verso il lago Schiazzera, seguendo il giro della Doppia W nonché il Sentiero Italia. La salita ora è molto meno ripida, anzi, in alcuni tratti il sentiero è quasi pianeggiante. Circondata da rododendri in fiore, il silenzio interrotto solo dai fischi delle marmotte che a turno si alzano ad annunciare il mio arrivo, procedo di buon passo in pace con il mondo.
Il lago Schiazzera (2396 m).
Dal lago Schiazzera seguo le indicazioni per Malghera (Sentiero Italia) e quelle per il passo di Schiazzera. Dopo un breve tratto in leggera discesa, i due sentieri si dividono e io prendo quello di sinistra, in salita. Il passo si vede chiaramente, un centinaio di metri sopra di me: lo raggiungo con uno strappetto breve ma intenso, seguendo la traccia sempre più labile e i bolli bianco-rossi, che sono stati invece ripassati di recente e risultano visibilissimi.
Al passo di Schiazzera (2546 m).
La discesa da qui è segnalata come “Tracce EE”, espressione che mi si chiarisce non appena comincio a scendere. Ogni volta che vedo un EE spero in roccette e catene dove divertirmi, ma si tratta solo, in successione, di un pezzetto di pietraia e di un ripidissimo sentiero, largo non più di 10 cm e abbarbicato su una parete verticale ricoperta di rododendri.
Discesa EE dal passo di Schiazzera.
Questo tipo di sentiero, di solito, risulta divertente in un giro breve ed estremamente irritante durante un lungo. Ho appena cominciato a brontolare contro le tracce EE, quando trovo una balisa arancione e realizzo che la Doppia W 100 deve essere passata di qui. Nella direzione opposta, voglio sperare! Ad ogni modo smetto subito di lamentarmi, io che sto facendo solo 50 km. Raccolgo la balisa, che altrimenti chissà per quanto ancora rimarrà qui, e proseguo.
La pendenza diminuisce e mi trovo in un pratone con una piccola pozza d’acqua, il cui nome non riesco a identificare. Continuo a seguire i bolli sulle rocce fino a una baita; da qui in avanti, ricomincia il sentiero vero e proprio: lo percorro in discesa, ora in fretta e senza intoppi, fino al rifugio Casina di Piana (dove lascio la balisa a un signore gentile che si offre di portarla a valle) e poi giù per il sentiero 249 verso Presacce. Sempre sul percorso della Doppia W, attraverso un bosco infestato da formiche aggressivissime e raggiungo infine la strada per Malghera.
Imbocco la strada verso destra, in direzione opposta rispetto a Malghera, e la percorro per meno di un chilometro fino alla località Dosa, dove comincia la mulattiera per Biancadino. A questo punto fa caldissimo e ho finito da tempo l’acqua, ma provvidenzialmente trovo una fontana proprio all’inizio della salita.
Mulattiera balisata per il Valgrosina Trail.
Altre balise, e scopro di trovarmi questa volta sul percorso del Valgrosina Trail, che si correrà a inizio agosto. Anche in questo caso sto girando in senso opposto al percorso della gara, che scenderà da questa lunga mulattiera (poco meno di 1000 m di dislivello) da cui io sto faticosamente salendo. Fa caldissimo e le due flask che ho appena riempito sono praticamente esaurite quando arrivo a Biancadino, dove spero comunque di poter trovare o acquistare dell’acqua.
In realtà non ho bisogno di cercare: alla prima baita, dove una targa mi conferma di essere arrivata in un piccolo paradiso in terra, una famiglia generosissima mi invita a unirmi al pranzo della domenica. Devo a malincuore rifiutare salamella e zucchine, ma accetto con gioia acqua naturale per le flask, acqua frizzante da bere in compagnia, e una torta spettacolare cotta in stufa che barretta energetica scansate proprio.
Imbucata a pranzo a Biancadino.
Mi fermo volentieri a chiacchierare, ora che non ho risolto il problema dell’acqua, e dopo una mezz’oretta mi rimetto in marcia, rigenerata dall’acqua frizzante e con lo zainetto pieno di torta. Un ultimo strappetto mi porta al panoramico sentiero per Vermulera, che rimane intorno a quota 2300 m per un paio di chilometri di pura goduria.
Il sentiero Biancadino-Vermulera.
Comincia poi la discesa, sempre facile e corribile, per Vermulera, un grazioso alpeggio a poco meno di 2000 m di quota; scendo poi lungo la mulattiera che mi deposita sulla strada asfaltata per Eita, il borgo nel cuore della Val Grosina. La strada va imboccata verso sinistra, in leggera salita.
La chiesetta di Eita.
L’acqua, da Vermulera in avanti, non è più un problema: ogni pochi chilometri si trovano fontane, dove non perdo occasione di mettere la testa sotto l’acqua fredda, viste le temperature che diventano sempre più impegnative man mano che perdo quota. Da Eita mi mancano circa 13 km, facili facili nonostante la stanchezza: basta seguire le indicazioni per Grosio, che mi portano giù per una lunga mulattiera ombreggiata e poi sulla strada asfaltata, che seguo per parecchi chilometri nonostante ci siano alternative più simpatiche su sentiero. Supero Fusino e solo al 47esimo chilometro abbandono l’asfalto per infilarmi in una mulattiera.
La mulattiera per Grosotto.
A questo punto mi fa male tutto, e ogni passo in discesa sul sentiero sconnesso è una sofferenza. Ma devo solo resistere per pochi chilometri! Arrivo infine in vista del Castello Vecchio di Grosotto e so che, da qui, manca davvero poco.
Mulattiera verso il Castello Vecchio.
Quando raggiungo la macchina scopro che la temperatura a valle ha raggiunto i 35 gradi. Per il prossimo lungo dovrò inventarmi un giro più ad alta quota! Intanto però saluto con gratitudine la mia Val Grosina, che anche oggi mi ha dato grandi soddisfazioni. Non ultima la torta di Biancadino, che continua a nutrirmi anche durante il viaggio di ritorno!
Facile percorso trail da Calascio alla spettacolare Rocca Calascio, uno dei luoghi simbolo dell’Abruzzo, e da qui verso Campo Imperatore, al cospetto del Gran Sasso.
Dopo mesi di allenamenti machiavellici su strada e piccoli infortuni, posso finalmente concedermi qualche trail in compagnia e opto per un viaggetto con Tony nel cuore del selvaggio Abruzzo. Lo so, il parco nazionale del Gran Sasso non è esattamente “a due passi da Milano”, ma si tratta di un posto davvero fantastico per noi amanti della corsa in montagna.
Spazi sconfinati al cospetto del Gran Sasso.
Studiando le mappe di Strava, mi invento un percorso a bassa quota, tra 1000 e 1600 m, per vedere il Gran Sasso innevato senza rischiare di finire su sentieri alpinistici. Saliamo in auto fino a Calascio, graziosissimo borgo a 1200 m di quota, facilmente raggiungibile da una bella strada a tornanti che farebbe gola a qualsiasi ciclista. Da qui, seguendo indicazioni e bolli, prendiamo il sentiero per Rocca Calascio, il punto più caratteristico di tutto il giro.
Rocca Calascio.
Questo antico castello, mezzo diroccato ma ancora affascinante, è famoso per essere stato il set di Lady Hawke e anche, ci dicono i locals, di altri film più recenti. Dalla rocca il nostro percorso prosegue in discesa verso la meno antica ma comunque graziosa chiesa di Santa Maria, poi ancora oltre, verso lo sfondo di montagne innevate che si staglia davanti a noi.
Da qui in avanti non ci sono più indicazioni, bisogna affidarsi alle tracce gpx. Corriamo comunque per tutto il tempo su strade sterrate o asfaltate o, al massimo, per facili sentieri: posti che definire poco battuti è un eufemismo, ma noi runner un po’ misantropi non potremmo chiedere di meglio.
La strada sterrata che stiamo seguendo ci porta alla strada asfaltata per Campo Imperatore, che erroneamente imbocchiamo verso sinistra, in discesa: la cosa migliore sarebbe prenderla nella direzione opposta, cioè appunto verso Campo Imperatore. Dopo qualche tornante in discesa prendiamo un sentiero poco battuto e risaliamo verso la strada, che imbocchiamo ora nel senso giusto. La salita è lunga e noiosa, ma con una vista spettacolare, proprio come piace a me. Tony però ha scarpe poco adatte all’asfalto e anche il mio neuroma di Morton dopo qualche chilometro comincia a fare i capricci. Decidiamo allora di improvvisare e prendiamo una specie di sentiero in discesa da un tornante della strada.
Ci lanciamo per sentieri ignoti.
In alcuni punti la traccia è più evidente, in altri andiamo un po’ a caso, ma sono tutti sentieri facilissimi e non corriamo nessun rischio anche correndo off-road. L’unica forma di vita che incontriamo è un branco di cavalli, per il resto siamo solo noi in mezzo a spazi sconfinati.
A Campo Imperatore non arriviamo, alla fine. Seguiamo tracce di sentiero lungo il crinale delle colline e troviamo una stradina sterrata che sembra tornare in direzione Calascio.
Invitante stradina sterrata in direzione Calascio.
Una bella e facile discesa, che con i piedi in altre condizioni ci mangeremmo, ci porta a quello che in estate deve essere un alpeggio: una baita e una fontana (chiusa) sono le prime tracce umane che incontriamo da molto tempo. Al bivio teniamo la sinistra, per evitare di tornare verso la strada asfaltata di prima, e continuiamo a perdere quota fino a riemergere su un’altra strada, quella che collega Calascio con Castel del Monte. Dopo qualche verifica sulle mappe di Google, seguiamo questa strada – ahimè, leggermente in salita – fino a tornare alla macchina. Involontariamente abbiamo parcheggiato vicino a una trattoria e quando arriviamo è giusto ora di pranzo: la degna conclusione di questo giro non può essere che un vaso di arrosticini fumanti!
Venerdì 23 settembre si è corso l’ultratrail dell’Adamello e, con la mia amica Marta iscritta alla 90 km e una giornata dal meteo semplicemente perfetto, ho colto l’occasione per prendere un giorno di ferie, staccare pc e telefono e mettermi sulle tracce della gara.
Sulle tracce dell’Adamello Ultra Trail.
Il giro che mi sono inventata in questa occasione è un bel lungo, facile e corribile, che mi ha richiesto circa 7 ore. Sono passata principalmente per stradine sterrate e mulattiere, con appena un quarto del percorso su sentieri degni di questo nome, comunque mai impegnativi. Al passo di Pietrarossa, a quasi 3000 m di quota, si arriva con un sentiero poco più che escursionistico, che in assenza di neve non presenta alcuna difficoltà.
Partenza lungo la ciclabile di Vezza d’Oglio.
Parcheggio al centro eventi di Vezza d’Oglio, da dove la gara di Marta è partita stamattina alle sette. Sono ormai quasi le dieci, ma il fondovalle è ancora in ombra e la temperatura non supera i dieci gradi. Poco male, i primi chilometri sono tutti da correre e mi riscaldo in fretta. Seguo per 3 km la pista ciclo-pedonale che costeggia il fiume Oglio, fino al piccolo centro di Stadolina.
Ponte per Stadolina.
Qui abbandono la ciclabile e svolto a sinistra, per poi prendere la stradina che sale in paese. Trovo una fontana dove mi fermo a riempire la flask e togliere la giacca, visto che al sole la temperatura è decisamente più gradevole. Dopo una ripida salita imbocco verso destra via Dante Alighieri, che mi porta al paese successivo, Vione.
Attraverso l’antico centro di Vione.
Seguendo le balise della gara, risalgo verso il centro del paese e arrivo alla chiesa, ma poi mi accorgo di essere salita troppo e mi tocca scendere un pezzetto: devo infatti prendere la mulattiera per Molina Lecanù e Roncal, che passa poco più in basso.
Mulattiera verso Molina Lecanù e Roncal.
Le indicazioni da seguire fino a Roncal sono quelle per il percorso mountain bike n. 11, una stradina semipianeggiante, morbida e corribile.
Roncal.
A Roncal, di nuovo, attraverso il paese in salita e, superate le ultime case, raggiungo una cappelletta. Qui abbandono il percorso n. 11 e prendo la mulattiera in salita verso sinistra, che porta verso le baite di Castèl. Si tratta di un altro percorso mountain bike, il n. 58, che seguirò da qui fino Sant’Apollonia.
Mulattiera per Castèl.
Non vedo più le balise e mi convinco di avere sbagliato i calcoli: pensavo che questa salita, in cui guadagnerò circa 800 m di dislivello, coincidesse con una discesa della gara in cui intendevo incrociare Marta, ma evidentemente mi sono sbagliata. L’unica cosa che posso fare ormai è salire il più in fretta possibile, sperando di incrociare il percorso di gara alla fine della mulattiera. La fortuna è dalla mia parte e mi ritrovo effettivamente sul sentiero balisato (che poi è sempre il n. 58) da cui stanno arrivando i concorrenti della 90 km. Metto la giacca e faccio uno spuntino, in attesa di vedere arrivare la mia amica.
Di nuovo sul percorso di gara.
Marta arriva prima del previsto perché, come scoprirò più tardi, non siamo al 35° ma solo al 28° km della gara. Evidentemente non ci ho capito una mazza, ma sono stata fortunata e l’ho incrociata per puro caso dopo appena cinque minuti dal mio arrivo. In fretta e furia tolgo la giacca e mi metto a correrle dietro, ché il passo di Marta è micidiale anche in una gara così lunga.
Ecco Marta, fresca come una rosa, al 28° km.
Percorro con lei un paio di chilometri in leggera discesa e, alla baita Somalbosco, la saluto e prendo il sentiero in discesa per Sant’Apollonia (sempre il n. 58). Arrivata in paese, svolto a sinistra in direzione del passo di Gavia e prendo la mulattiera pianeggiante che passa poco sotto la strada. Sono di nuovo sul percorso di gara, ma questa volta in senso opposto.
Sentiero n. 158 verso il bivacco Linge.
Le indicazioni da seguire, da qui fino al passo di Pietrarossa, sono quelle del sentiero n. 158 per il rifugio Valmalza e il bivacco Linge. Da entrambi passa la gara e mi rendo conto che è lungo questa mulattiera, e non quella precedente, che avevo calcolato di incrociare Marta! La rivedo passare, in effetti, a metà tra il rifugio e il bivacco.
Verso il bivacco Linge.
Superato il bivacco (2273 m), mi lascio alle spalle i volontari, i concorrenti e il clima festoso della gara e mi avvio in solitaria verso il passo di Pietrarossa, che non è indicato ma si vede in lontananza. Da qui in poi non incontro anima viva se non stambecchi, cervi e marmotte. Il sentiero non è sempre evidente, né su questo né sull’altro versante, ma i bolli ci sono e basta seguirli. La traccia gpx può aiutare a procedere più in fretta e consiglio, a chi voglia ripetere il giro, di scaricarla.
Ultimo tratto su (facile) pietraia.
Con un ultimo strappetto su pietraia raggiungo finalmente il passo di Pietrarossa (2958 m), da dove si apre una vista spaziale sulla Valle dei Messi, da cui arrivo, e sulla Val Grande, da dove scenderò per tornare a Vezza d’Oglio.
In realtà, guardando oltre il passo, vedo solo un enorme precipizio e mi domando se non sarebbe stato opportuno prendere qualche informazione sul sentiero per la discesa. Vedo tuttavia che i cartelli indicano Vezza d’Oglio a 4 ore di cammino non in direzione del precipizio, ma verso le montagne a sinistra. Seguo dunque i bolli lungo un breve tratto di roccette in cresta, forse l’unico punto un po’ esposto del giro, e raggiungo una croce e un altro passo non meglio identificato.
Da qui il panorama è ancora più bello e, soprattutto, la discesa assume un aspetto decisamente più umano!
Discesa per la Val Grande.
Seguo i bolli giù per la pietraia, accompagnata dagli stambecchi che non si fanno scrupoli a smuovere sassi, e comincio piano piano a perdere quota. A tratti riesco a corricchiare, mentre altri punti sono sdrucciolevoli e mi costringono a procedere più lentamente. La pietraia cede via via il passo a un pratone, dove i bolli sono meno visibili e il sentiero è stato danneggiato dalle piene dei torrenti. Niente di difficile, ma perdo un po’ di tempo per capire da che parte andare. Finalmente il prato finisce e raggiungo una comoda mulattiera.
Devo avere superato velocemente sia il bivacco S. Occhi, sia la malga Val Grande, ma non posso fornire dettagli a riguardo perché non mi sono mai fermata. Dall’inizio della mulattiera manca una decina di chilometri a Vezza d’Oglio, ma ormai posso procedere a passo di corsa e ben presto raggiungo il parcheggio al centro eventi. Manca ancora parecchio ai primi arrivi della 90 km, ma io il mio dovere per oggi l’ho fatto e, nell’attesa, posso concedermi una meritata birretta!
Ok, questo giro non è proprio a due passi da Milano, ma come non approfittare degli ultimi giorni di ferie e di un invito a Pontresina per una corsetta ad alta quota sulle alpi svizzere? Il doppio anello è una creazione di Giudy, che si autodefinisce una “ciuccia-asfalto”, ma anche nel trail non scherza.
Lago Muragl (2713 m).
Tutto il percorso è segnato perfettamente e la traccia gpx è quasi inutile. Nonostante si rimanga sempre a quote impegnative, almeno per i miei polmoni, i sentieri sono facili e corribili: un bel cambiamento per me, dopo un’estate passata a saltellare per le pietraie della val Masino. Solo l’ultimo tratto per salire al piz Languard è ripido e forse un po’ vertiginoso: niente di particolarmente impegnativo, peraltro evitabile senza modificare il resto del giro.
Ah, che belli i sentieri svizzeri!
Partiamo da Pontresina, dove parcheggiamo nei pressi della seggiovia (Sesselbahn Languard) e prendiamo via Giarsun, che porta a una chiesetta con un piccolo cimitero. Qui ci troviamo a un bivio: imbocchiamo il sentiero verso destra seguendo le indicazioni per capanna Paradis, nostra prima tappa, mentre da quello a sinistra arriveremo alla fine del giro. Saliamo piacevolmente nel bosco, che ogni tanto si apre con una vista spaziale sul poco che rimane del ghiacciaio del Morteratsch. Superati gli ultimi alberi, continuiamo a guadagnare quota e raggiungiamo la malga.
Capanna Paradis (2540 m).
Abbiamo guadagnato fin qui circa 700 m di dislivello e ne mancano più o meno altrettanti per la cima del piz Languard, punto più alto del giro. Una breve ma divertente discesa ci permette di sciogliere le gambe prima di riprendere a salire, seguendo le puntuali indicazioni per il piz Languard che, da capanna Paradis, è dato a 2 ore e mezza di cammino (senza tirarci il collo, ci mettiamo molto meno).
Breve discesa dopo capanna Paradis.
Attraversiamo un’ampia valle, brulla e secca, e cominciamo a risalire sul versante opposto. Di fronte a noi svetta il piz Languard e già si intravede, poco sotto la cima, il rifugio omonimo. Lo raggiungiamo con un breve strappetto: alcuni escursionisti ci hanno preceduto, ma è ancora presto e il rifugio non è affollato. Lasciamo qui i bastoncini, che non ci servono per l’ultimo tratto di roccette.
Vetta del Piz Languard dal rifugio.
Ci arrampichiamo seguendo i bolli e aiutandoci con grossi canaponi azzurri, nuovi di zecca e ben tesi. Si trattano proprio bene, qui in Svizzera!
Ultimo tratto attrezzato.
Dalla cima del piz Languard, a 3262 m, la vista è semplicemente spaziale in questa giornata così tersa. Non c’è nemmeno tanto vento e possiamo goderci il panorama in maniche corte.
Vista spaziale dai 3262 m del Piz Languard.
Riscendiamo al rifugio, recuperiamo i bastoncini e torniamo sui nostri passi fino al primo bivio: qui svoltiamo a destra, in direzione opposta a quella da cui siamo arrivate, poi teniamo ancora la destra imboccando il sentiero degli stambecchi (Steinbochweg) verso la capanna Segantini (2731 m).
Sentiero degli stambecchi (Steinbochweg).
Si tratta di un fantastico traverso, tutto corribile, a quota 2700 m circa, che porta al terzo dei quattro rifugi del nostro giro, questo abbastanza affollato visto che è ormai ora di pranzo. Assetate e speranzose, ci avviciniamo alla fontana, ma niente da fare: kein Trinkwasser, ammonisce un cartello, acqua non potabile. All’interno del rifugio apprendiamo con sgomento che una bottiglia piccola costa 6 franchi e una grande 13. Non accettano la carta e abbiamo solo 10 euro, per cui tutto ciò che possiamo permetterci è mezzo litro in due (ho bevuto anche un po’ d’acqua della fontana, per fortuna senza conseguenze immediate).
Grazioso bagno esterno a capanna Segantini.
La prossima tappa è il lago Muragl, anch’esso facilmente raggiungibile seguendo le indicazioni – i laghi si chiamano “Lej”. Scendiamo lungo un sentiero piuttosto affollato, perdendo circa 400 m di quota, e attraversiamo il torrente. Qui lasciamo in sospeso il primo anello e apriamo il secondo. Anche questo parte con una bella salita, circa 500 m da qui alla forcella Val Champagna passando per il lago Muragl.
Lago Muragl (2713 m).
Il lago è bellissimo, ancora meglio se visto dall’alto. Considerando la facilità con cui lo si raggiunge, ci riteniamo fortunate a trovare meno di una decina di persone sulle sue sponde. Un ultimo tratto di salita ci porta da qui alla forcella di Val Champagna (2806 m).
Verso la forcella di val Champagna.
Si scende, ora, e anche parecchio: da 2800 a meno di 2000 m, sempre su facile sentiero. Le indicazioni da seguire sono quelle per Samedan.
Comincia la seconda, lunga discesa.
Via via che perdiamo quota, la pietraia lascia il posto ai pascoli e il sentiero si avvicina al torrentello, oggi piuttosto in secca, che scorre a fondovalle. Ben presto raggiungiamo una baita con fontana: i proprietari non ci sono e ci serviamo da sole. Avevamo sì riempito le flask ai ruscelli, ma con tutti gli animali che ci sono in giro siamo più tranquille con l’acqua fresca e zampillante della baita.
Finalmente una fontana!
Scendiamo ancora un po’ e torniamo a immergerci nel bosco. Bisogna rimanere a sinistra del torrente, senza mai attraversarlo. Il sentiero svolta tutto a sinistra, con un ultimo tratto bello corribile nel bosco prima dell’ultima salita.
Verso la fine della discesa.
Con un sadismo degno dei migliori organizzatori di gare, Giudy ha previsto a questo punto un’ultima salita di quasi 500 m: seguiamo dunque le indicazioni per Muottas Muragl, per andare a chiudere il secondo anello. La salita, a dire il vero, non è troppo ripida e ci porta ben presto al crocevia, a quota 2400 m circa, da cui poche ore fa abbiamo imboccato il sentiero per il lago Muragl.
Muottas Muragl (2454 m).
Le indicazioni da seguire sono ora quelle per Unterer Schafberg. Attraversiamo il torrente e ne approfittiamo per rabboccare un’altra volta le borracce, poi risaliamo brevemente e andiamo a prendere il bellissimo traverso che prende il nome – meritatissimo – di Panoramaweg.
Panoramaweg.
Vedendolo da lontano ho brontolato, credendo poco alle rassicurazioni di Giudy. In realtà, come dice lei, questo ampio sentiero pianeggiante fa proprio venire voglia di correre! Ci divertiamo dunque per un paio di chilometri, prima della discesa finale che ci riporta alla seggiovia, passando per la chiesetta dell’andata.
Spettacolare cavalcata tra due valli meravigliose: da Arnoga (Valdidentro) a Eita, laghi di Très, lago Negro, passo Dosdè (2824 m) e per finire laghi della Val Viola.
Decido per una volta di allontanarmi dalle aspre montagne della bassa Valtellina e di guidare fino a Bormio, in cerca di pendenze più dolci e di sentieri corribili.
Vorrei esplorare la val Viola, dove non sono mai stata: cercandola sulla cartina, scopro che poco lontano c’è un altro posto scoperto di recente, la val Grosina, e mi viene l’idea di concatenare le due valli in un unico, lungo ma relativamente veloce anello, tutto da correre. Il giro è di difficoltà escursionistica, eccetto il passo Desdè, che si raggiunge su pietraia e in un ambiente severo di alta montagna. Per il passo è necessario avere esperienza e attendere condizioni meteo favorevoli, mentre il resto del giro si potrebbe fare anche sotto la pioggia.
Strade corribili e pendenze moderate.
Rispetto ai sentieri a cui sono abituata, qui sembra di stare in Trentino: comode mulattiere e pendenze quasi collinari, valli ampie e aperte e, per quanto riguarda la val Viola, anche un certo numero di turisti attratti dal rifugio e dai laghi facilmente accessibili. La val Grosina, invece, rimane per fortuna meno frequentata.
La partenza è da Arnoga, sopra Valdidentro. L’ideale è lasciare l’auto alla Baita Viola, ma il parcheggio è piccolo e potrebbe essere pieno: in alternativa c’è un parcheggione poco più avanti, dopo il tornante. Sono mattiniera e, al mio arrivo, il termometro segna 10 gradi. Venendo da lidi più temperati, sono in canotta e nello zainetto non ho altro che un antivento leggero, ma dopo il caldo degli ultimi due mesi decido che un po’ di aria fresca non può farmi male!
Partenza pianeggiante.
Il sentiero comincia subito dopo il parcheggio della Baita Viola ed è così pianeggiante che fa venire voglia di partire in quarta. Un po’ mi dispiace avere le gambe cotte dai giri precedenti, perché 3 km così piatti a 1800 m di quota non li avevo davvero mai visti. Al bivio, prendo la stradina in discesa con una curva a gomito verso sinistra: senza possibilità d’errore, questa mulattiera va seguita per una decina di chilometri fino a Eita.
La mulattiera che porta fino a Eita.
Freddo è freddo, ma tengo botta e confido nel sole, che prima o poi dovrà pur fare capolino dalle montagne. Percorro circa 400 m di dislivello, arrivando intorno a 2300 m di quota, per poi scollinare in val Grosina, finalmente al sole e al caldo. Il clima, da questa parte delle montagne, è più mite e finalmente mi dà un po’ di tregua il vento gelido che mi ha accompagnato per tutta la salita.
Comincia la discesa in val Grosina.
Ben presto raggiungo dall’alto il laghetto Acque Sparse, da cui passa il Valgrosina trail, a cui ho partecipato appena una settimana fa (bella gara, ve la consiglio!).
Lago Acque Sparse.
Continuo la discesa, seguendo per un tratto il percorso della gara, e arrivo a Eita, graziosissimo paesino immerso nel verde della val Grosina.
Eita.
Da qui abbandono il giro del Valgrosina trail, ma resto comunque su un percorso noto, quello provato con Marta un mesetto fa (qui il link). Prendo la strada asfaltata verso destra e seguo le puntuali indicazioni per i laghi di Très (il plurale continua a rimanere un mistero, a me anche questa volta è sembrato un lago solo).
Verso i laghi di Très.
Dopo un breve tratto in discesa prendo la stradina in cemento che sale verso destra e raggiungo l’alpeggio di Vermulèra. Da qui comincia il sentiero per i laghi di Très, la prima vera salita del mio giro. Il paesaggio è bucolico e in giro non c’è quasi nessuno, come ricordavo. Già mi pregusto il silenzio dell’alta montagna, quando dal nulla sbuca una motoretta da trial. A bordo, un aitante centauro a malapena maggiorenne, con annessa fidanzatina isterica che scopre nel bel mezzo della val Grosina di avere paura della moto. Passino il rumore e la puzza, ma le scenate in montagna anche no!
Laghi di Très (2185 m).
Supero in fretta il lago, dove la coppietta ha pensato bene di fermarsi a litigare con urla che echeggiano per tutta la valle, e proseguo in direzione lago Negro. L’altra volta, con Marta, ero invece andata verso il passo di Vermolera e sono curiosa di esplorare questo nuovo lato della val Grosina. Il sentiero è sempre facile e la pendenza moderata. Certo, me la godrei di più se la coppia malefica non fosse rimontata in sella per superarmi in salita e continuare a seminare smog e inquinamento acustico davanti a me.
In salita verso il lago Negro.
A parte il rimbombo della motoretta, tutto tace intorno a me e cerco di concentrarmi sulle cose belle: l’enorme pietraia che mi circonda, il sentiero ancora facile e a tratti corribile, le cime che coronano la vallata. Un’ultima salita mi porta infine al lago Negro, oltre i 2500 m di quota.
Lago Negro (2560 m).
I ragazzini hanno spento il motore, ma in compenso si sono rimessi a litigare, per la felicità di un povero escursionista solitario che deve essersi da poco accampato in riva al lago per godersi un po’ di pace e silenzio. Frustrata da tanta maleducazione, mi fermo giusto il tempo di una foto e riprendo subito il sentiero in direzione del passo Dosdé, che si intravede ora verso destra, alle spalle del lago. Con somma gioia vedo che comincia la pietraia, dove la maledetta motoretta non potrà seguirmi.
Altro scorcio del lago Negro.
Giro intorno al lago e comincio a salire verso il passo. La pietraia è un po’ antipatica perché i bolli sono pochi e poco visibili. Cerco di dare il mio contributo aggiungendo sassi ai rari ometti che aiutano nell’orientamento e penso che non vorrei trovarmi qui in condizioni di scarsa visibilità: non ci sono tratti esposti o particolarmente pericolosi, ma l’ambiente è davvero severo a questa quota.
Verso il passo Dosdè, a destra il pizzo Dosdè.
Arrivo infine alla bocchetta e per un attimo resto perplessa: intorno a me un’enorme pietraia – rispetto alla salita cambia solo il colore delle rocce – e nessuna traccia di una via di discesa. Per di più sono di nuovo sul versante settentrionale delle montagne e torno a essere sferzata dallo stesso vento gelido di stamattina.
Solo pietraia battuta dal vento.
Eppure ci deve essere una costruzione, ricordo di averla intravista mentre salivo. E un cartello, un’indicazione, un bollo o un ometto per la discesa… cammino un po’ tra le rocce e finalmente arrivo al passo vero e proprio, dove in effetti si trova un bivacco.
Passo e Capanna Dosdè (2824 m).
Trovo qui anche qualche indicazione: per il rifugio Federico, che mi sembra di capire sia il punto di appoggio per le scialpinistiche al pizzo Dosdè, e per il rifugio Viola, da dove rientrerò poi ad Arnoga. Vedo un bollo per la discesa e conto di impiegare non più di un’oretta dal passo al rifugio Viola, indicato a 3h20′.
Discesa dal passo Dosdè.
Come sempre accade quando faccio i conti e decido di essere quasi arrivata, cominciano gli imprevisti. Intanto scopro che la discesa non è più facile della salita: tratti di sentiero si alternano alla pietraia, dove ometti e bolli sono sempre rari. Per di più, quando la pietraia sembra finalmente finita, mi trovo a un bivio: un bollo manda verso destra, un altro verso sinistra. A sinistra si vede una traccia, a destra più niente dopo il primo bollo, per cui vado a sinistra. Dopo qualche minuto capisco il motivo dell’esistenza di un secondo sentiero: quello principale è franato.
Il sentiero è franato.
Quello che un mese fa doveva essere un torrente impetuoso non è che un rigagnolo, per cui non mi preoccupo troppo di non poterlo attraversare e continuo a scendere più o meno a caso nel letto vuoto del fiume, a destra rispetto al sentiero principale e al corso d’acqua che sento gorgogliare poco lontano.
Scendo a caso nel letto vuoto del torrente.
La pendenza diminuisce e mi riavvicino al sentiero. Devo solo attraversare qualche ruscelletto e finalmente torno sulla retta via, dove posso rimettermi a correre. Ho perso parecchio tempo a ravanare nella pietraia, ma da qui in avanti dovrebbe essere tutto facile.
Bucolica discesa verso l’alpe Dosdè.
Il sentiero è facile e super panoramico, ora a destra ora a sinistra del torrente, tra ampi pascoli e cime maestose. Proseguo verso l’alpe Dosdè senza passare dal rifugio Federico, che vedo dall’altra parte del torrente.
Alpe Dosdè, con l’omonimo pizzo in fondo a dx.
Da questa malga si può ammirare quello che resta del nevaio del pizzo Dosdè. Seguo ora le indicazioni per il rifugio Viola, lungo un grazioso sentierino in leggera salita. La val Viola, come immaginavo, è più affollata rispetto alla val Grosina, ma fino ai primi laghetti incontro solo escursionisti educati e sorridenti. Davanti al rifugio, invece, la fauna umana è più varia: ciclisti veri e ciclisti in e-bike, famiglie, anziani, gruppi civili e gruppi schiamazzanti.
Rifugio Viola.
Supero in fretta e furia il rifugio e vado a prendere la strada sterrata in leggera discesa, da cui ancora qualcuno sta salendo e scendendo. Per fortuna è ora di pranzo e la gran parte dei turisti è seduta a mangiare al rifugio, ma anche così la mulattiera è affollata. Niente, per godermi questa val Viola avrei probabilmente dovuto fare il giro al contrario, passando di qui di prima mattina. Adesso c’è troppa gente, sono stanca e non vedo l’ora di raggiungere la macchina.
La strada in discesa.
La strada sterrata diventa asfaltata, supero qualche parcheggio e proseguo ora in discesa, ora in piano, ora con un’ultima cattivissima salita. Ancora pochi chilometri e sono al punto di partenza.