Da Monastero a Monastero: una traversata che accarezzo dallo scorso inverno, quando sul monte Bassetta scoprii l’esistenza del sentiero Walter Bonatti. L’idea di partire da Monastero di Dubino, dalla casa del più grande alpinista di tutti i tempi, e arrivare a casa mia a Monastero di Berbenno, era così bella che non vedevo l’ora dell’estate per metterla finalmente in pratica. E chi poteva essere così fuori di testa da accompagnarmi, se non la mia socia omonima?
Si tratta di un giro davvero tosto, dove chilometri e dislivello non rendono la minima idea delle difficoltà. Noi stesse abbiamo sottovalutato parecchio i tempi di percorrenza, convinte che un buon allenamento e una traccia gpx fossero sufficienti a cavarcela bene e in fretta. Ma nel bel mezzo del sentiero Bonatti – un percorso selvaggio, poco segnato e ancor meno battuto – ci siamo trovate con un Garmin morto e l’altro scarico, quindi senza traccia; e l’allenamento serve a poco, quando ogni due passi bisogna fermarsi per capire da che parte andare. Avevamo calcolato non più di 8 ore da Dubino alla Omio: ce ne abbiamo messe 11!
Il sentiero Roma, che si connette con il sentiero Bonatti all’altezza del rifugio Omio, è invece terreno noto per me: si tratta di un percorso difficile ma più “addomesticato”, ben segnato e pieno di gente. Anche qui pecco di eccessiva sicurezza, calcolando i tempi di percorrenza sulla base del giro del Kima provato due anni fa, senza tenere conto dei 3200 m di dislivello positivo che già abbiamo sulle gambe e del fatto che Marta non è abituata ad arrampicarsi per roccette attrezzate. Pensavo di fare la traversata Omio-Ponti in 10-11 ore: ce ne abbiamo messe 13, arrivando giusto in tempo prima del buio.
Almeno per il terzo giorno si sperava di avere fatto bene i conti: l’idea era quella di seguire l’anello dei Corni Bruciati, passando prima dal passo di Corna Rossa, ultima bocchetta del sentiero Roma, poi dal passo di Caldenno e dal passo Scermendone, con una puntata al pizzo Bello per chiudere in bellezza e da qui per sentieri arcinoti scendere a Monastero. Mal consigliate, abbiamo seguito il “sentiero” Corna Rossa-Caldenno su orribile pietraia, impiegando più del doppio del tempo previsto. Arrivate finalmente al passo di Caldenno, eravamo talmente cotte che abbiamo saltato l’ultima parte e siamo scese dalla val Caldenno, per sentieri facili ma interminabili.
A chi volesse ripetere il giro, suggerisco di seguire il sentiero Roma dal passo di Corna Rossa al rifugio Bosio e, da qui, o scendere a Torre di Santa Maria o risalire al passo di Caldenno per proseguire con l’anello dei Corni Bruciati. La traversata su pietraia è stata davvero la parte peggiore del nostro giro e la sconsiglio.
Ecco allora la relazione della traversata.
SENTIERO WALTER BONATTI
La mattina di ferragosto, verso le 7, parcheggiamo alle scuole di Dubino in via Cappelletta e da qui andiamo a prendere il sentiero Walter Bonatti, indicato già lungo la strada. Saliamo a Monastero, dove comincia il sentiero vero e proprio. Occhio solo a un bivio poco chiaro: non bisogna salire verso le falesie, ma svoltare a sinistra seguendo il segnavia bianco-rosso. La prima tappa, che raggiungiamo in fretta su facile sentiero, è l’alpe Piazza, dove conviene fare scorta d’acqua perché fino al bivacco Primalpia non si trovano altre fontane.
Proseguiamo ora verso il monte Foffricio, l’altura che sovrasta l’alpe Piazza, e da qui raggiungiamo l’ampia cresta che ci porta al monte Bassetta (1744 m). Conviene abbandonare il sentiero, che passa sotto la cima vera e propria, e salire di pochi metri per ammirare il panorama che si apre sulla valle dei Ratti con l’inconfondibile sfondo del Sasso Manduino, oggi purtroppo immerso nelle nubi.
Fin qui tutto facile: sono passate due ore e mezza dalla partenza e abbiamo fatto quasi metà del dislivello. Non possiamo certo immaginare che staremo in ballo ancora più di otto ore, ma cominciamo a renderci conto che il sentiero è poco battuto già nel primo tratto dopo il Bassetta. Passiamo a sinistra del monte Brusada e con un traverso poco corribile, ma facilmente camminabile, raggiungiamo l’alpe Codogno.
Ci troviamo sopra il lago di Novate Mezzola e la val Chiavenna; ben presto arriviamo in vista di Frasnedo, per cui troviamo anche qualche indicazione. Da Frasnedo si passa per il giro del Tracciolino, molto bello ma purtroppo al momento inagibile.
Superiamo l’alpe Codogno (1790 m) e continuiamo a salire, mentre l’ambiente intorno a noi si fa sempre più selvaggio. Le uniche forme di vita sono capre, pecore e mucche, oltre a un paio di pastori di cui sentiamo le urla in lontananza. Trovare il sentiero comincia a diventare complicato, ma a questo punto il mio Garmin è ancora vivo e ci affidiamo alla traccia gpx, qui davvero indispensabile.
Si superano diverse bocchette, di cui mi ero anche segnata i nomi come punti di riferimento, ma non sono indicate e sapere come si chiamano è poco utile. Si tenga conto invece dei seguenti riferimenti: alpe Piempo (2050 m), bivacco Primalpia (1980 m), lago dal Marzel (2310 m). Sono gli unici punti dove si trova un cartello per orientarsi e farsi un’idea di dove ci si trova.
Passiamo per le prime pietraie, che personalmente preferisco rispetto all’erba alta, in cui le marmotte la fanno da padrone e i bolli si perdono di vista. Riusciamo comunque a sbagliare strada in diversi punti, perché le indicazioni sono minime e da queste parti non passa davvero nessuno. Sorprendentemente, invece, il telefono prende piuttosto bene in diversi punti del percorso.
Il tratto più difficile, almeno dal punto di vista dell’orientamento, è quello tra l’alpe Piempo e il bivacco Primalpia. Bisogna dapprima attraversare un pratone con rari bolli consumati dal tempo; poi arrampicarsi per un ripido canale erboso, verticalissimo, con la speranza che la discesa dall’altra parte sia meno scoscesa; infine superare un traverso, con erba alta e tane di marmotte lungo tutto il sentiero, e scendere fino al bivacco.
Al bivacco troviamo una fontana dove finalmente possiamo riempire le borracce, e un gruppo di asinelli che ci fanno compagnia mettendosi a bere con noi. Siamo incredule quando leggiamo che da qui alla Omio il tempo di percorrenza CAI è 5 ore e mezza: mancano pochi chilometri e neanche così tanto dislivello! Invece non è molto meno di quanto ci metteremo.
Il paesaggio diventa sempre più bello man mano che guadagniamo quota. Sopra i 2200 m bolli e indicazioni si fanno più evidenti, forse perché siamo in prossimità di alcune vie di arrampicata e cime importanti, per esempio il Ligoncio che dovrebbe trovarsi da queste parti.
Superato il minuscolo lago dal Marzel, continuiamo a inerpicarci tra erba scivolosa e roccette taglienti seguendo i bolli, che ora si vedono – per fortuna, perché l’orologio di Marta è scarico e il mio è improvvisamente morto senza spiegazioni. Comincia ora la faticosa pietraia che ci porterà alla bocchetta del Calvo, a quota 2700 m circa, da cui dovremmo infine cominciare a scendere verso il rifugio Omio.
Il passo sembra rimanere sempre alla stessa distanza, dalla lentezza con cui ci muoviamo tra questi sassoni di granito. Il cielo ora è bello scuro e speriamo quantomeno di superare la bocchetta prima del temporale, previsto per le 18. Noi contavamo di essere al rifugio per le 14 o le 15 al più tardi!
Il passo di per sé non è particolarmente impegnativo. Si percorre una lunga cengia, in parte coperta di erba scivolosa, che è stata messa in sicurezza con catene. Solo una è divelta, per il resto sono in ottimo stato e ci affidiamo a loro per scendere il più in fretta possibile.
A differenza dei sette passi del Kima, tenuti puliti dal passaggio frequente e attrezzati con catene dall’inizio alla fine, la bocchetta del Calvo è piena di sfasciumi che nessuno ha ancora avuto modo di far cadere e, per di più, è attrezzata solo nei tratti resi pericolosi dall’erba. In altri punti, ripidi e scivolosi per il ghiaino, dobbiamo cavarcela senza catena. Finalmente individuiamo il rifugio, lontanissimo ma almeno in vista: il temporale si sta avvicinando e per fortuna abbiamo superato la parte più pericolosa.
Ci fermiamo giusto il tempo di mettere la giacca a vento e proseguiamo il più velocemente possibile sotto la grandine battente, tra erba fradicia e lastroni scivolosi. Arriviamo finalmente al rifugio poco prima delle 18, bagnate come pulcini ma felici di avercela fatta! Per fortuna alla Omio ci permettono di mettere le scarpe ad asciugare vicino alla stufa. La birra è fantastica e la cena ancora meglio. Dormiamo il sonno del giusto e alle 7 del mattino siamo pronte per ripartire alla conquista del sentiero Roma.
SENTIERO ROMA
Ci aspettano ora i sette passi del giro del Kima, fatti in senso opposto: Barbacan (2570 m), Camerozzo (2765 m), Qualido (2647 m), Averta (2551 m), Torrone (2518 m), Cameraccio (2950 m), Roma (2894 m). Per fare il giro con calma bisognerebbe passare una notte al rifugio Allievi-Bonacossa, a poco più di metà strada tra la Omio e la Ponti, ma noi abbiamo gambe forti e soprattutto la testa dura, e siamo determinate a fare tutto in una volta.
1° PASSO: BARBACAN
La bocchetta si raggiunge senza troppa fatica dal rifugio Omio: la conosco bene per averla percorsa più volte (qui il link del giro più recente). Fate attenzione a non perdere di vista i bolli, perché ci sono sentierini alternativi molto ripidi, scavati dal passaggio degli animali. Io sbaglio sempre e anche oggi non mi smentisco, arrampicandomi per placchette e zolle d’erba mentre Marta sale tranquilla dal sentiero corretto. Di là dal passo, scendiamo con l’aiuto delle catene e ben presto ci troviamo nella fantastica val Porcellizzo.
Riconosciamo i profili del Badile e del Cengalo, le due cime più note di questa valle, che si possono raggiungere partendo dal rifugio Gianetti.
Il rifugio stesso non è troppo lontano: rabbocchiamo le borracce alla fontana esterna, che oggi troviamo aperta, e senza indugio proseguiamo verso il passo Camerozzo. La val Porcellizzo è lunghissima, ma finalmente arriviamo nei pressi della bocchetta.
2° PASSO: CAMEROZZO
Si tratta, insieme forse al Cameraccio, del passo più impegnativo, soprattutto percorso nel nostro senso di marcia: saliamo infatti con tratti di sentiero e poche facili catene fino al punto più alto, mentre molto più lunga e vertiginosa risulta la discesa. Sotto di noi si apre la val del Ferro, che con le sue enormi placche granitiche è uno dei punti più caratteristici del sentiero Roma. È anche l’unica valle dove il telefono prende bene.
Poco più in basso vediamo il bivacco Molteni-Valsecchi, un altro dei tanti punti di appoggio per chi percorre il sentiero Roma in più giorni.
3° PASSO: QUALIDO
Al passo Qualido si arriva abbastanza facilmente risalendo un ripido pendio di sfasciumi. Tra i sette, è forse il passo meno impegnativo. Si scende in val Qualido lungo una semplice cengia, di cui solo l’ultimo tratto è attrezzato con un paio di catene.
4° PASSO: AVERTA
Anche il passo dell’Averta è abbastanza semplice: ci si arriva superando un punto un po’ verticale con l’aiuto di un paio di catene e si scende senza troppi problemi nell’ampia val di Zocca, dove dovrei saper riconoscere la punta Allievi e la cima Castello, ma ancora non ho capito con esattezza quali siano.
La val di Zocca è larga più o meno quanto la val Porcellizzo e attraversarla richiede parecchio tempo. Il sentiero scende al di sotto del rifugio Allievi-Bonacossa e ci costringe a un’ultima faticosa salita per raggiungerlo. Il limite massimo che ci siamo date per arrivare all’Allievi sono le 14: dopo quest’ora, rischiamo di finire il giro con il buio. Arriviamo alle 13:59 e decidiamo di proseguire, non prima di avere acquistato due panini e quattro bottigliette di acqua frizzante (la fontana davanti al rifugio è chiusa). Abbiamo impiegato 7 ore dalla Omio all’Allievi e, tenendo lo stesso passo, dovremmo mettercene 6 da qui alla Ponti.
5° PASSO: TORRONE
Al passo Torrone si arriva da un facile, panoramico e piacevolissimo sentiero. È la prima volta che faccio questo passo in discesa e devo dire che in salita mi è sempre parso molto più semplice. Si scende per un ripido canalino, come sempre attrezzato con catene, e si perde parecchia quota addentrandosi nella selvaggia val Torrone.
Il sentiero Roma passava originariamente più in alto su ampie placche di granito. Il percorso è stato cambiato diversi anni fa, dopo un incidente dovuto proprio a una placca bagnata, ed è ora più faticoso ma sicuro. Nonostante il vecchio sentiero sia ancora chiaramente battuto, seguiamo il percorso corretto che ci fa scendere parecchio sotto le placche e poi risalire verso il bivacco Manzi e il passo Cameraccio.
6° PASSO: CAMERACCIO
È il mio passo preferito, nonché il più alto di tutto il sentiero Roma. Due anni fa lo feci in discesa e con la neve: ora ha cambiato completamente faccia, ma lo trovo sempre bellissimo. Il percorso originale è stato modificato per i crolli dovuti alla siccità di quest’anno e si passa ora sul lato sinistro della valle, seguendo i bolli più recenti e gli ometti. Risaliamo a fatica il pendio di instabili sfasciumi (molto meglio la neve!) e finalmente raggiungiamo la sicurezza delle catene, con cui percorriamo gli ultimi 100 m di dislivello che ci separano dalla bocchetta.
Dal passo si scende per facile pietraia verso la val Cameraccio. Piano piano, ma senza mai fermarci, arriviamo al bivacco Kima e cominciamo l’ultima parte del giro, che ho ben stampata in mente per averla provata di recente (qui il link).
7° PASSO: BOCCHETTA ROMA
Assomiglia un po’ al passo Cameraccio, ma è più breve: la bocchetta Roma si raggiunge dopo avere attraversato un pendio di sfasciumi davvero molto instabile, dove conviene tenere sempre la destra e seguire accuratamente i bolli fino all’inizio delle catene.
Con l’aiuto delle catene si scalano le ultime, ripide placche per arrivare alla bocchetta e, da qui, la vista si apre finalmente sulla valle di Predarossa, dal Disgrazia ai Corni Bruciati.
Scendiamo di buon passo verso il rifugio Ponti: sono quasi le 20 e siamo in ritardo per cena! La pietraia è impervia nella parte più alta, dove bisogna seguire scrupolosamente i bolli senza inventarsi soluzioni originali, perché la valle di Predarossa può riservare brutte sorprese; poi il sentiero si addolcisce e ci porta finalmente al rifugio, dove ci ristoriamo con una birra e un’ottima cena.
ANELLO DEI CORNI BRUCIATI
La mattina del terzo giorno ci avviamo verso il passo di Corna Rossa, seguendo le indicazioni per il monte Disgrazia. Il cielo è cupo ma non sono previsti temporali prima del tardo pomeriggio.
Le strade per il Disgrazia e per la bocchetta si dividono dopo la morena: seguiamo ora le indicazioni per l’ex rifugio Desio. Si risale il solito pendio di sfasciumi, qui particolarmente brutto anche perché il passaggio è nettamente inferiore rispetto al giro del Kima; la roccia è diversa, più liscia e scivolosa rispetto a quella incontrata finora. I tratti migliori, più solidi, sono sempre quelli attrezzati con catene.
Raggiungiamo il passo di Corna Rossa (2836 m) e l’ex rifugio Desio, un tempo punto di partenza per il Disgrazia, oggi abbandonato e pericolante.
La vetta del Disgrazia è purtroppo immersa nelle nubi, altrimenti la vista sarebbe spettacolare. Cominciamo la discesa verso la Valmalenco, un po’ su ghiaino scivoloso e un po’ su solida pietraia; alcune placche rosse con un grip pazzesco ci permettono di procedere un po’ più spedite, almeno in alcuni punti.
Arriviamo infine al punto in cui comincia il traverso per il passo di Caldenno, che ci è stato consigliato come “pietraia facile”. A vederlo non sembra granché e valutiamo anche la comoda alternativa di scendere fino al rifugio Bosio lungo il sentiero principale, risalendo da lì al passo di Caldenno per pratoni, ma alla fine decidiamo di fidarci e di passare dalla pietraia – che di facile, ahimè, non avrà proprio niente.
Lentamente, faticosamente, percorriamo questo instabile traverso, senza neanche poterci consolare con un bel risparmio di dislivello – l’altro sentiero, in alcuni punti, passa appena cinquanta metri sotto di noi. Fosse capitato il primo giorno, l’avremmo vissuto più serenamente, ma trovarsi davanti a una difficoltà inaspettata dopo due giorni di fatiche è davvero troppo!
Finalmente arriviamo al passo e di comune accordo decidiamo che per oggi è l’ultimo. Mancherebbe ancora il passo Scermendone, ripido per quanto tecnicamente semplice, ma davvero non ne abbiamo più. Scendiamo allora giù per la val Caldenno.
Arriviamo a Prato Isio, da dove si potrebbe raggiungere Berbenno di Valtellina; noi proseguiamo invece lungo la traversata per Prato Maslino, che sembra breve quando si passa di corsa, ma oggi è davvero infinita; scendiamo poi per sentieri a Gaggio di Monastero. Con poche speranze di potercela cavare con un autostop, ci avviamo lungo la strada a tornanti per Monastero, che giustamente è una delle meno trafficate della Valtellina (ho scelto Monastero in quanto esatto opposto di Milano). Come un miraggio, però, un’auto appare alle nostre spalle: una super nonna e due nipoti adolescenti si fanno in quattro per stringersi e permetterci di infilarci dentro con loro, risparmiandoci gli ultimi chilometri di cammino. Un enorme GRAZIE, come sempre, a chi è gentile con i viandanti!
Valbondione è notoriamente il punto di partenza per due popolarissimi rifugi orobici, il Coca e il Curò, verso cui si dipartono sentieri sempre molto frequentati. Vi sono anche, però, percorsi meno conosciuti e altrettanto interessanti – come il giro ad anello che vi propongo oggi.
La partenza è dal grande parcheggio davanti all’ufficio turistico e al campo sportivo di Valbondione. Attenzione: tutti i parcheggi sono a pagamento – 5 euro per l’intera giornata – con biglietto acquistabile alle macchinette, all’ufficio turistico oppure online (in quest’ultimo caso bisogna stampare l’email di conferma ed esporla nell’auto). Dopo avere parcheggiato, a piedi si risale per un breve tratto lungo via Beltrame, si svolta a destra in via Galizzi e si imbocca poi via Roncaglia, la stradina in salita sulla sinistra. Quando la strada finisce, si prosegue in salita lungo un sentiero che taglia i tornanti della strada e ci porta fino a Lizzola.
Attraversiamo il paese seguendo via San Bernardino. Una fontana permette di fare rifornimento di acqua fresca; sulla sinistra troveremo delle indicazioni per il rifugio Curò, che noi però raggiungeremo passando più in alto per altri sentieri. Ben presto si cominceranno a vedere delle frecce blu, a cui successivamente si aggiungerà il segnavia biancorosso del sentiero 322.
Dopo avere superato Lizzola, la traccia gpx non serve più: basta seguire le indicazioni per Baita di Sasna e Passo Bondione. Dopo una breve salita su stradina carrozzabile si arriva a un tratto pianeggiante e corribile, che segue il corso del torrente Bondione tra alpeggi e pascoli.
Riprendiamo a salire, sempre seguendo il sentiero 322 per Passo Bondione, che qui diventa più accidentato e a tratti mangiato dalla vegetazione. Incroceremo il sentiero 304, indicato anche come Sentiero delle Orobie: è questo, infatti, il tratto della spettacolare traversata delle Orobie orientali (chi fosse interessato troverà qui il giro completo) che collega il rifugio Curò con l’Albani.
Il sentiero si inerpica, permettendoci di guadagnare quota piuttosto rapidamente in un ambiente che diventa sempre più bello e selvaggio. Poco prima di arrivare alla baita di Sasna, bisogna fare attenzione a non perdersi di vista come è successo a noi, perché il sentiero si sdoppia per un tratto abbastanza lungo e si può finire su percorsi diversi. Entrambi, in realtà, portano alla baita di Sasna, ma chi non lo sa rischia di dare il compagno per disperso e tornare indietro a cercarlo!
Superata la baita, si arriva ai laghetti di Sasna e si continua in salita in questa ampia e pittoresca vallata, che con la luce del tardo pomeriggio ci ha offerto degli scorci davvero stupendi.
Si attraversa il torrente e si riprende a salire tra prati e roccette fino a incrociare il sentiero 321, anch’esso bene indicato. Tenendo la destra si prosegue per il Passo Bondione e il rifugio Tagliaferri, mentre noi abbiamo svoltato a sinistra seguendo le indicazioni per il rifugio Curò.
Il piano originale, in realtà, comprendeva anche il Passo Bondione, il Pizzo Tre Confini e il Recastello, ma arrivate al crocevia ci siamo rese conto di essere partite troppo tardi e senza frontale, così abbiamo puntato direttamente al rifugio evitando le due vette, che sono rimaste alte sopra di noi.
Il sentiero che scende per la val Cerviera non presenta particolari difficoltà, ma tenete conto che ci si trova in un ambiente severo di alta montagna: bisogna prestare attenzione a un breve tratto in cresta e a una ripida discesa, oltre che alle condizioni meteo, che possono cambiare velocemente.
Lungo la discesa abbiamo incontrato greggi di pecore, una famigliola di marmotte e, per la prima volta da queste parti, un branco di camosci – di solito da queste parti bazzicano i più socievoli stambecchi. La pendenza diminuisce e il paesaggio si addolcisce man mano che ci si avvicina al fondovalle. Si attraversa in diversi punti il torrente (di cui non conosco e non ho trovato da nessuna parte il nome) che scende con noi dalla val Cerviera per poi gettarsi nel lago artificiale del Barbellino.
Una volta al lago, si prende verso sinistra l’ampia strada carrozzabile che in breve conduce al rifugio Curò – dove consiglio caldamente di fermarsi per cena (a pranzo è molto affollato), per una fetta di torta o una birretta prima di tornare a valle: la gentilezza dei gestori e l’ottimo cibo valgono una sosta prima della discesa!
Tornare a Valbondione è davvero semplice: basta seguire la strada carrozzabile fino in paese.
Un vero e proprio “classico” delle Orobie, questo percorso si fa di solito al contrario – affrontando subito il temibile vertical da Valbondione al rifugio Coca, poi la traversata lungo il sentiero 303 con arrivo al Curò e, infine, la facile discesa lungo la mulattiera per Valbondione. Io ve lo propongo nel senso opposto, con il vantaggio di anticipare al Curò la fiumana di escursionisti che vi si trova nelle belle giornate e di arrivare al Coca, meno frequentato, in tempo per l’ora di pranzo!
Si parte da Valbondione: l’ideale è lasciare l’auto in via Beltrame subito prima del tornante, nel punto in cui comincia il sentiero 301 per il rifugio Coca, in modo da recuperarla comodamente al ritorno. Non sempre è possibile, vista la popolarità di questo posto. In ogni caso ci si può arrangiare parcheggiando un po’ prima o un po’ dopo, dove si riesce. Consiglio comunque di partire di buon mattino per evitare il bagno di folla.
Ci si incammina lungo la strada in leggera salita fino a incontrare sulla destra il sentiero per il rifugio Curò: è difficile sbagliare, i sentieri da queste parti sono indicati molto bene. Ben presto si arriva alla trafficata mulattiera che sale lentamente verso il rifugio. Possiamo tagliare un po’ di tornanti prendendo il ripido sentierino che si stacca sulla sinistra a circa 4 km dalla partenza. Una volta al Curò, dove si arriva dopo circa 1000 m di dislivello, la vista si apre sul lago del Barbellino e sulle spettacolari vette circostanti.
Da qui si prende il sentiero 303 per il rifugio Coca. Si tratta di un EE, piuttosto tecnico nella parte alta, da affrontare solo con la dovuta esperienza e con condizioni meteo buone. Il periodo giusto è da giugno a ottobre, quando non c’è neve. Conviene comunque verificare con i rifugisti le condizioni della traversata prima di intraprenderla. Si comincia con un tratto in piano lungo il lago e una breve discesa verso la base della diga – dove non è insolito trovare atletici stambecchi in arrampicata libera.
Seguiamo sempre le indicazioni per il Coca, attraversando il fondovalle e il torrente Valmorta, per poi cominciare la faticosa risalita – in un chilometro e mezzo guadagneremo circa 500 m di quota – che ci porterà alla traversata vera e propria, ai piedi del Pizzo di Coca. Da qui la vista, che pure finora non è stata male, diventa davvero fantastica; dobbiamo però prestare attenzione a dove mettiamo i piedi, perché ora comincia il tratto più tecnico del giro. Un ripido canalino in discesa, pieno di sfasciumi, è attrezzato con catene, mentre in altri punti un po’ esposti o franosi non si può fare altro che procedere con cautela. Dal passo del Corno (2220 m) vedremo finalmente il rifugio Coca, parecchio più in basso.
Ancora qualche saliscendi, poi una bella discesa e finalmente arriviamo al ponticello che attraversa il torrente Coca. Il rifugio è poco più sopra e vale davvero la pena di farvi una sosta.
Volendo allungare di poco il giro, si può salire al vicino lago di Coca, sempre debitamente indicato. Altrimenti si riattraversa il ponticello e, senza possibilità d’errore, si prosegue in ripida ma facile discesa lungo il sentiero 301, seguendo le indicazioni per Valbondione. Si attraversa il fiume Serio e si risale alla strada dove si è parcheggiato.
Da Pra Pincé (Gordona) salita al lago Ledù (2.247 m), traversata panoramica in un ambiente selvaggio e incontaminato, discesa al lago di Darengo, salita al passo Crocetta (2.201 m) e discesa lungo la val Bodengo.
Periodo: Luglio 2019
Partenza: Pra Pincé, Gordona (917 m)
Distanza: 25,7 km
Dislivello: 2060 m
Acqua: fontana all’Alpe Campo, nella prima parte del giro, e poi agli alpeggi negli ultimi km. Per il resto si incontrano ruscelli, ma ci sono anche molti animali al pascolo per cui l’acqua potrebbe non essere sicura.
Conosciuta generalmente per il canyoning, altrimenti quasi inesplorata, la Val Bodengo è un vero paradiso per chi ama l’alta montagna. Pur senza arrivare a quote eccezionali, questo giro si svolge in gran parte in un ambiente selvaggio, tra laghi alpini, pietraie, bocchette e vallate dove il sentiero è un’invisibile linea tra sporadici bolli e l’unica compagnia è data da pecore e marmotte. Non lasciatevi ingannare dal chilometraggio relativamente limitato: questo giro è lunghissimo, impossibile da correre se non negli ultimi chilometri. Fate pace con la lentezza e godetevi con calma i panorami che si aprono, sempre nuovi e spettacolari, a ogni bocchetta che si attraversa. Prima di intraprendere questo giro, consiglio vivamente di scaricare la traccia gpx e di verificare che non ci sia più neve.
La strada di accesso a Pra Pincé (915 m), punto di partenza del giro, è a pagamento. Il ticket si acquista a Gordona, presso il bar caffé S. Martino, e costa 6 euro (luglio 2019).
Arrivati a Pra Pincé, si parcheggia lungo la strada e si continua di corsa fino a incontrare sulla sinistra un ponticello che attraversa il torrente, e le indicazioni per Alpe Campo. Dobbiamo seguire questo sentiero, chiaramente segnalato da bolli bianco-rossi, guadagnando quota nel bosco dapprima lentamente, poi con pendenza sempre crescente. Passeremo sotto un’imponente parete di roccia nera, chiamata “Caduta dei Giganti”, e proseguiremo in ripida salita per una bella abetaia.
Il bosco si apre improvvisamente verso i 1600 m, quando appare l’Alpe Campo con il fragore del torrente e lo sfondo di una spettacolare corona di vette: Pizzo Anna Maria, Pizzo d’Alterno, Pizzo Ledù e Monte Rabbi. Riempiamo le borracce alla fontana, l’unica che troveremo per molti chilometri, e attraversiamo tutto l’alpeggio seguendo i soliti bolli bianco-rossi verso il fondo della valle, in direzione della bocchetta del Cannone e del lago Ledù. La salita è bellissima, tra enormi placche di granito e rododendri in fiore – il periodo ideale è fine giugno, ma attenzione ai piccoli nevai che possono rimanere fino a estate inoltrata.
Incontreremo un solo bivio a metà della salita, dove dobbiamo mantenere la sinistra. Il sentiero a questo punto non esiste praticamente più, ma seguendo i bolli si capisce sempre chiaramente qual è la direzione da seguire. Il percorso verso la bocchetta, d’altra parte, è piuttosto intuitivo: è l’unica breccia da cui si può pensare di superare l’altrimenti impenetrabile catena di montagne che si staglia di fronte a noi.
La salita diventa sempre più ripida man mano che ci avviciniamo alla bocchetta del Cannone (2.275 m), il punto più alto del giro. Risaliamo le ultime roccette e superiamo il passo, piuttosto ventoso, da cui si apre la vista sul lago Ledù, il bivacco Petazzi e, sullo sfondo, il lago di Como da una prospettiva insolita! Scendiamo verso il bivacco, che è davvero grazioso e ben tenuto, oltre a trovarsi in una posizione invidiabile.
Si prosegue verso destra, e da qui in poi ci si trova davvero nella terra di nessuno: i pochi escursionisti che si avventurano fin qui, infatti, hanno generalmente come meta il Pizzo Ledù, e vi diranno che è una follia affrontare la lunga traversata in val Cavrig verso passo San Pio e il lago di Darengo. Traversata che, invece, è il primo obiettivo e rappresenta la parte più spettacolare di questo giro.
Si tratta di circa 5 km di saliscendi, che pur senza grandi salite saranno i chilometri più lenti del giro: si percorrono piano piano, lo sguardo sempre alla ricerca dei rari bolli che, soli, permettono l’orientamento; più che correre si saltella di roccia in roccia, superando un passo dopo l’altro, scollinando dopo ogni bocchetta in un nuovo anfiteatro di cime acuminate e paesaggi spettacolari. L’ambiente è estremamente severo e incute una certa soggezione.
Superiamo un laghetto e proseguiamo in discesa per l’enorme pietraia, seguendo la traccia gpx e tenendo sempre d’occhio i bolli. Infine intraprendiamo la ripida salita, la penultima del nostro giro, verso il passo San Pio (2.182 m), sul quale svetta l’omonimo Pizzo, e sbuchiamo finalmente in vista del lago di Darengo.
Da che parte si prosegue?, ci si chiederà a questo punto. Purtroppo non c’è alternativa al ripido, sdrucciolevole canalone che metterà a dura prova le capacità dei migliori discesisti e farà perdere un sacco di tempo a chi, come me, in discesa proprio non è capace.
Si scende faticosamente fino al lago – dove eventualmente si può fare un tuffo rinfrescante – e ci si dirige verso Capanna Como (1.790 m). Bisogna circumnavigare il lago tenendolo alla propria destra, seguendo inizialmente le indicazioni per il Passo dell’Orso. Affrontiamo l’ultima, faticosa salita dapprima su comodo sentiero, poi dispersi tra le rocce con la sola guida della traccia gpx, qui davvero indispensabile. Mentre, infatti, il sentiero devia verso sinistra, noi dobbiamo svoltare a destra e risalire fino al passo Crocetta (2.201 m).
Si tratta dell’ultimo passo: di qui in poi ci aspetta una discesa di una decina di chilometri nella valle che si apre ai nostri piedi, che poi altro non è che la Val Bodengo. Bisogna prestare attenzione nel primo tratto, molto ripido e anche un po’ esposto; si prosegue su pietraia e infine il sentiero, finalmente, si addolcisce e permette quantomeno di corricchiare. Seguiamo senza possibilità d’errore le indicazioni per Bodengo e, qui giunti, proseguiamo sempre in discesa lungo la strada che ci ricondurrà a Pra Pincé.
La traversata delle Grigne non è esattamente un percorso da trail, ma piuttosto una sky di alta montagna – anche se il punto di massima elevazione, la cima del Grignone, arriva poco oltre i 2400 m. Un percorso a tratti alpinistico, non sempre ben segnato, per cui sono necessarie esperienza e conoscenza di queste montagne che, nonostante l’altezza modesta, possono mettere in seria difficoltà.
Il principio della traversata è semplice: salire in cima alla Grignetta, o Grigna meridionale (2177 m), da lì passare tramite l’Alta Via delle Grigne alla cima del Grignone (2410 m), infine scendere e tornare al punto di partenza seguendo la cosiddetta traversata bassa.
Per raggiungere la cima della Grignetta abbiamo diverse alternative: la via più diretta e semplice è la buona vecchia Cermenati, ripida e un po’ sdrucciolevole, ma comoda per arrivare in vetta senza incontrare punti tecnici, esposti o comunque tali da mettere in difficoltà l’escursionista inesperto; oppure si può passare da rifugio Rosalba, salendo dal sentiero delle Foppe o dal sentiero dei Morti, e raggiungere la cima seguendo il sentiero Cecilia – sentiero tecnico, franoso e mal segnato, ma molto bello e panoramico; o ancora seguire la Direttissima (EEA come il Cecilia ma decisamente meglio indicato) per il Rosalba fino al bivio per il colle Valsecchi, dove si incontra il sentiero Cecilia che porta in vetta. La parte più pericolosa e mal segnata del sentiero Cecilia è in ogni caso quella tra il colle Valsecchi e la cima, quindi questa terza opzione non toglie niente alla difficoltà del percorso, raccomandato solo a chi si sente a proprio agio in un ambiente di tipo alpinistico.
La Cermenati (sentiero n. 7) e la Direttissima (sentiero n. 8) si prendono dallo stesso punto. Si parcheggia ai Piani Resinelli, sotto il Forno della Grigna. Lasciandosi il forno sulla sinistra si sale lungo la strada asfaltata e si prende la carrozzabile che sale ripida sulla sinistra per il rifugio Porta. La si percorre fino a incontrare il sentiero, che dopo un breve tratto pianeggiante comincia a salire ripido e ghiaioso – un primo assaggio di quello che troveremo più avanti. Ben presto si arriva al bivio: a destra la Cermenati, a sinistra la Direttissima.
Opzione 1: Cermenati. Il modo più semplice per arrivare in cima è, appunto, la Cermenati. Un sentiero che sale “dritto per dritto”, come si dice, ripido e impietoso. È il percorso del Grignetta Vertical, che i campioni percorrono in poco più di mezz’ora (tre quarti d’ora per le donne più forti): i comuni mortali possono pensare di arrivare in cima in un’oretta.
Opzione 2: Direttissima. La Direttissima deve il suo nome al fatto di essere la via più diretta non per la cima, a cui gira intorno in un anello panoramico ma tutt’altro che diretto, bensì per il Rifugio Rosalba. Al bivio, se si opta per questa soluzione, si prende a sinistra e si segue il sentiero in falsopiano. Attenzione a non scendere, mantenete la destra se trovate un ulteriore piccolo bivio. Si attraversa il Canale Caimi e si sale dolcemente tra le guglie calcaree che caratterizzano questa montagna. Ben presto l’ambiente si fa più selvaggio e cominciano i tratti attrezzati con pioli e catene. La parte forse più caratteristica del percorso della Direttissima è il Caminetto Pagani, che si supera con due scalette. Dopo il camino il sentiero perde un po’ di quota (attenzione a non farsi trarre in inganno, la traccia che sale non porta da nessuna parte!). Si passa tra guglie e pinnacoli, tra cui si trovano molte vie di arrampicata. Dal mio punto di vista, questa è in assoluto la parte più bella della Grignetta. All’altezza del Canalone Angelina ci troviamo a un bivio: il sentiero n. 8A, o sentiero Giorgio, porta fino al Rosalba, mentre noi dobbiamo seguire per l’Ago Teresina, risalendo il canalone fino al colle Valsecchi da cui poi si raggiunge il sentiero Cecilia proveniente dal Rosalba. Si segue allora il Cecilia verso destra, prestando attenzione ai pochi bolli sbiaditi e ai rari cartelli per non perdere la traccia. Anche qui il sentiero è attrezzato con catene, utili non solo per muoversi in sicurezza ma anche per capire da che parte andare. Dopo un canalino da percorrere in discesa, comincia la salita che porta a incrociare la Cermenati nell’ultimo tratto, e in breve si arriva in cima.
Volendo allungare ulteriormente il percorso, si può anche percorrere il sentiero Giorgio (8A) fino al colle Garibaldi e prendere il Cecilia da qui, sempre in direzione vetta.
Opzione 3: Sentiero dei morti e Cecilia. Il percorso qui registrato passa per il rifugio Rosalba e percorre integralmente il sentiero Cecilia dal Rosalba alla vetta. Dal parcheggio ai Piani Resinelli, anziché salire, si scende dalla parte opposta rispetto al Forno, in direzione della chiesa. Si segue la strada asfaltata dietro alla chiesa, via alla Carlata – volendo c’è un sentiero, ma non è indicato… dovete essere bravi a trovarlo! – in leggera discesa in direzione Abbadia Lariana. Dopo un paio di chilometri in discesa si incontra una deviazione verso destra per il Rifugio Rosalba, sentiero dei Morti, Sentiero delle Foppe. Si seguono le indicazioni per il Sentiero dei morti, la via più diretta per il Rosalba. Il sentiero sale con decisione – anche qui, un bel vertical che permette di guadagnare 400 m di quota in poco più di 1 km. Questo versante della Grignetta è territorio dei camosci, è facile vederne diversi al mattino presto e alla sera. Arrivati al Rosalba, si prende il sentiero Cecilia e lo si percorre fino a incrociare la Cermenati per salire in vetta.
Come già detto, bisogna prestare particolare attenzione al Cecilia. È molto bello, ma richiede la massima concentrazione per evitare di perdere il sentiero in un ambiente comunque molto severo. Attenzione anche alla cresta Segantini, che passa sopra al Cecilia, e in generale alla presenza di escursionisti che potrebbero smuovere sassi. Di tutto il giro qui descritto, penso che sia la parte più delicata.
La Cermenati termina in cima alla Grignetta con qualche roccetta attrezzata con catene. Si attraversa la cima, passando per la nuova croce e il bivacco Ferrario, e si scende dalla parte opposta con l’aiuto, qui sì indispensabile, delle catene. Dopo avere superato le prime roccette in discesa, il sentiero prosegue lungo la cresta Sinigaglia, mentre noi scendiamo a sinistra dal Canalino Federazione, anch’esso attrezzato con catene ma non particolarmente difficile. Bisogna solo prestare attenzione a non smuovere sassi e a non scivolare sulla ghiaia. In fondo al canale si apre la vera Alta Via delle Grigne, che percorre dapprima la cresta della Federazione, e dopo la bocchetta del Giardino – da cui si diparte a sinistra il sentiero per il Rosalba – scende fino ai 1800 m del cosiddetto Buco di Grigna. Questa è, dopo i due chilometri iniziali, la prima parte corribile del giro: godiamocela prima che ricominci la salita!
Arrivati al Buco, ci troviamo davanti il Grignone in tutta la sua mole, altri 600 metri da riguadagnare faticosamente. Con l’aiuto di catene si risalgono gli Scudi, divertenti paretine che non presentano grandi difficoltà, se non in alcuni punti un po’ franosi. Un nuovo pezzo di cresta erbosa permette di nuovo di corricchiare fino al bivacco Merlini, da cui parte l’ultimo faticoso strappo verso la cima del Grignone. Emergendo da questo punto nei weekend estivi si incontra una vera e propria processione di escursionisti che salgono al Rifugio Brioschi da Balisio.
La cima del Grignone, affollata di gitanti e corvi, è molto panoramica: da qui possiamo osservare tutto il percorso che abbiamo fatto dalla Grignetta, oltre agli altri sentieri e le altre cime del gruppo delle Grigne. Nelle giornate terse, al di là del lago, si arriva a vedere il Monte Rosa e persino a distinguere la sagoma del Cervino. Il rifugio Brioschi è una tappa fondamentale, specie con il caldo, perché fin qui non abbiamo incontrato acqua e le scorte sono verosimilmente finite.
Dopo esserci rifocillati, pronti per la parte più semplice (ma più calda!) del giro, riscendiamo da dove siamo arrivati fino al bivacco Merlini. Da qui ci sono diverse varianti, che portano tutte al Pialeral. Noi prendiamo il sentiero estivo, che scende dapprima con decisione, per poi addolcirsi e terminare in un prato quasi pianeggiante. Poco prima del Pialeral, sulla destra, si incontra finalmente una fontana (un po’ nascosta dietro un capanno).
Adesso scendiamo, superiamo il Pialeral e il laghetto che rimangono alla nostra sinistra e, poco oltre, incontriamo sulla destra la deviazione per la traversata bassa. Se proseguissimo dritto invece finiremmo a Balisio.
La traversata bassa è un sentiero divertente, tutto corribile, che riporta ai Piani Resinelli con circa 7 km di saliscendi nei boschi. Consiglio di tenere un po’ di energia per lo strappo finale, in corrispondenza della fattoria che si vede chiaramente già dal Pialeral: lì si incontra una prima salita che porta all’edificio, e poi un’altra salita ormai su strada sterrata con la fattoria alle spalle. A destra abbiamo adesso la cresta Sinigaglia della Grignetta. Terminata la salita, finalmente la strada, ora asfaltata, piega a sinistra e scende al Forno della Grigna, dove ci aspetta una meritata birretta!
Acqua: si trovano fontane praticamente dappertutto, ma consiglio di riempire le borracce prima della Baita Pastori (l’unico tratto lungo senza acqua è quello che va dalla salita al Quinto Alpini al Rifugio Pizzini).
Un giro davvero spettacolare, che si presta particolarmente bene al trail running. Per i primi 10 km, infatti, si corre piacevolmente su strada sterrata, guadagnando dislivello poco per volta e senza troppa fatica. Dopodiché comincia una salita piuttosto impegnativa che porta in ambiente di alta montagna: si sale dapprima al Rifugio Quinto Alpini, che gode di una posizione davvero unica, si scende poi per un tratto su ghiaione e si risale al passo Zebrù, punto più alto del giro con i suoi 3001 m. Da qui si scende al Rifugio Pizzini e si ricomincia a correre su comodo sentiero, con vari saliscendi, per una dozzina di chilometri, prima di arrivare agli ultimi 5 km tutti in discesa fino a Niblogo.
Il parcheggio a Niblogo è piuttosto comodo, e gratuito. Arrivati in paese basta seguire le indicazioni per il parcheggio, da cui partono tutti i percorsi trekking e mountain bike. Un piccolo bar tutto rivestito in legno offre cartine gratuite, preziosi consigli e ottima birra (per il ritorno, ovviamente).
Per la prima parte del giro, orientarsi non è certo un problema: la strada è evidentissima e, nel dubbio, basta seguire le indicazioni per Baita Pastori e Rifugio Quinto Alpini. Si passa dal Ristoro Zebrù (1680 m), dal Rifugio Campo (2009 m) e dalla Baita Pastori (2168 m). Qui ci sarebbe la possibilità di tagliare il Rifugio Quinto Alpini e proseguire a fondovalle verso il Passo Zebrù, ma è una soluzione che sconsiglio fortemente: si perderebbe la parte in assoluto più bella del giro.
La salita è ripida e faticosa, ma ci catapulta in poco tempo in un ambiente spettacolare, tra il ghiacciaio e le bellissime vette che circondano il Quinto Alpini (Monte Zebrù e Gran Zebrù). Arrivati al rifugio (2877 m) conviene proseguire in salita fino alla bandiera che si vede poco più in alto: da lì si può ammirare il ghiacciaio da una parte e il tetto giallo del rifugio dall’altra.
Per proseguire il giro, si segue in discesa il sentiero da cui siamo saliti e al bivio si prende a sinistra. Continuiamo su un bellissimo traverso su ghiaione, un po’ esposto ma largo abbastanza da corricchiare in sicurezza, perdiamo ancora un po’ di quota e infine ricominciamo a salire in direzione del Passo Zebrù. Anche questo tratto è meraviglioso. L’ultimo strappetto verso il passo è attrezzato con catene, utili probabilmente quando c’è neve o ghiaccio: ad agosto nulla di tutto ciò.
Dal passo si apre un panorama stupendo sul Cevedale e sulle montagne circostanti. La discesa verso il Pizzini è relativamente semplice e divertente. Al rifugio (2706 m) si trova una fontana per il rifornimento d’acqua.
Dal Pizzini seguiamo le indicazioni per il Rifugio Forni, non la strada sterrata ma il “sentiero panoramico”, che passa più in alto e merita tutto il suo nome. Si corre infatti in un ampio prato con vista ghiacciaio, uno spettacolo incredibile. Dopo qualche chilometro di saliscendi inizia una vera discesa, ma non si pensi che da qui in poi si scenda e basta: la strada è ancora lunga e ci saranno altre salite, bisogna razionare le forze.
Non è necessario arrivare fino al Rifugio Forni, a meno di avere bisogno di acquistare qualcosa: lo vediamo dall’alto, ma possiamo rimanere sul sentiero e proseguire verso l’Agriturismo Ables. Arrivati in vista del gruppetto di malghe, bisogna fare attenzione ai cartelli e prendere il sentiero che sale verso destra, e non seguire la strada in discesa che porta a Santa Caterina.
Comincia adesso un tratto di saliscendi su sentiero e poi su strada sterrata che può risultare noiosa e faticosa, con 30 km già sulle gambe. Prendiamocela con calma e ignoriamo i cartelli che danno tempi piuttosto improbabili per Niblogo. Teniamo presente che da Ables mancano una decina di chilometri abbondanti, di cui metà in saliscendi e metà in discesa.
Nell’ultimissima parte del giro le indicazioni non sono del tutto chiare – o forse la stanchezza gioca brutti scherzi. In ogni caso, teniamo presente che dopo avere passato Pradaccio dobbiamo passare dall’altra parte della valle, evitando di scendere fino a Sant’Antonio. Dobbiamo attraversare il fiume e riprendere il tratto iniziale di strada sterrata che avevamo percorso all’andata – nel dubbio, la funzione trackback di Garmin può aiutare.
Noi siamo scesi da Pradaccio di Sopra a Pradaccio di Sotto, e qui, superata una baita, abbiamo preso la strada che svolta tutto a destra in discesa, che ci ha riportato appunto dall’altra parte del torrente e sulla strada percorsa all’andata. Dal momento, però, che si incontrano diversi sentieri e stradine, e che la stanchezza dopo 40 km si sente tutta, conviene prestare attenzione ed eventualmente chiedere consiglio.
Contravvenendo a tutti i miei principi, ho accettato l\’invito a partecipare a un giro lineare, lasciando una macchina alla partenza (Cassiglio) e una all\’arrivo (Ca’ San Marco). Tendenzialmente preferisco i percorsi ad anello, quelli che un runner può decidere, se vuole, di fare da solo. Se però siete in gruppo, avete due macchine a disposizione e volete evitare le strade asfaltate, scegliendo un lungo percorso esclusivamente su sentiero, questo giro fa per voi.
In alternativa ci sarebbe la possibilità di chiudere un anello, rinunciando all’ultimo tratto (molto bello) dal rifugio Benigni a Ca’ San Marco e lasciando il sentiero n. 101 all\’altezza del Benigni per prendere il 107 verso Ornica; da qui, con un tratto non troppo lungo di strada asfaltata, si può tornare a Cassiglio. Non l\’ho provato, ma dalle mappe sembra fattibile.
Il sentiero delle Orobie occidentali, o 101, comincia appunto a Cassiglio. Se si ha in mente di tornare da Ornica, conviene lasciare la macchina lungo la strada principale; altrimenti, si prende via del Lago (strada a pagamento) e si parcheggia all\’altezza del lago o poco più sopra.
Si tratta di un sentiero tendenzialmente bene indicato. Seguiamo i bolli bianco/rossi su per il bosco, in direzione del passo di Baciamorti. Il sentiero non è ripidissimo, ma sale con decisione. Sbucando dal bosco, ci ritroviamo in un paesaggio aperto, arioso, tra grandi prati dove correre sarà davvero un piacere. Dal passo di Baciamorti (1540 m) proseguiamo per la bocchetta di Regadur (1853 m) e poi in falsopiano verso il Rifugio Nicola (1900 m). Dalla bocchetta di Regadur si apre la vista sulla bella val Taleggio: verso sinistra troviamo infatti le indicazioni per il rifugio Gherardi. Successivamente passiamo ai piedi del Sodadura, inconfondibile piramide alla nostra sinistra, per poi finalmente riconoscere la sagoma futurista del Nicola di fronte a noi.
Poco più in alto del Nicola troviamo il Rifugio Cazzaniga, ma non ci passiamo: continuiamo a seguire le indicazioni per il sentiero n. 101, in direzione Rifugio Lecco e Piani di Bobbio. A un primo bivio ignoriamo il sentiero che si stacca verso sinistra e continuiamo dritto, in leggera salita. Poco dopo passiamo la baita di Bocca Campelli e incontriamo un nuovo bivio: il sentiero n. 101 continua verso destra, aggirando lo Zuccone Campelli e scavallando verso i Piani di Bobbio dalla bocchetta dei Megoffi (2020 m) – consiglio caldamente questa strada a chi non si senta del tutto a proprio agio su un sentiero attrezzato.
Noi abbiamo invece fatto una piccola deviazione alpinistica e al bivio siamo andati a sinistra, in salita per il sentiero che porta allo Zucco di Pesciola e allo Zuccone Campelli. Da qui bisogna scendere verso i Piani di Bobbio, in basso a sinistra rispetto alla direzione da cui arriviamo, e da qualunque parte si guardi la discesa ha tutta l’aria di essere particolarmente ripida e scoscesa. Prendiamo come riferimento il Cristo delle Vette, riconoscibilissima scultura in ferro battuto. Ci dirigiamo da quella parte, seguendo un sentiero che ben presto si trasforma in una breve ferrata in discesa. Ci caliamo con l’aiuto di qualche catena e perdiamo un po’ di quota, per poi affrontare un tratto di canale ghiaioso e sdrucciolevole. Di fronte a noi si aprono i Piani di Bobbio, alle nostre spalle l’imponente parete rocciosa che offre agli scalatori un’ampia scelta di ferrate e vie di arrampicata.
Arrivati al Rifugio Lecco (1779 m) prendiamo la strada sterrata in discesa verso i Piani di Bobbio e la seguiamo in un’ampia curva verso destra. Incontriamo poi le indicazioni per il Rifugio Grassi, prossima tappa del nostro giro. Seguendo i cartelli imbocchiamo il sentiero che si stacca dalla strada verso sinistra, e che ci permette di correre per un paio di chilometri più o meno in piano, con qualche saliscendi nel bosco. Questa zona è generalmente più affollata di quelle attraversate finora, in quanto più facilmente raggiungibile. Nel bosco dovremo forse fare un po’ di slalom tra gli escursionisti, e continueremo a superarne da qui alla Grassi.
Il tratto corribile termina bruscamente all’altezza dello Zucco del Corvo, dove ci aspetta una ripida salita che in mezzo chilometro ci fa guadagnare circa 300 metri. Nota positiva di questo tratto, abbiamo finalmente la possibilità di riempire le borracce non a pagamento: lungo il sentiero che sale impietoso sotto il sole, infatti, troviamo l’unica fonte di tutto il giro, una specie di rubinetto che sembra sbucare dal nulla tra le rocce.
Continuiamo a seguire il sentiero, semplice, che ci porta al Rifugio Grassi (1987 m). A questo punto abbiamo superato la metà del giro e possiamo concederci una meritata pausa, cercando di non invidiare troppo la polenta con brasato degli escursionisti mentre sgranocchiamo una triste barretta energetica. Al rifugio c’è una fontana, che però noi abbiamo trovato secca.
Riprendiamo a correre verso il Pizzo dei Tre Signori, che adesso si staglia davanti a noi. A voler strafare, si potrebbe salire in cima e riprendere il sentiero delle Orobie occidentali sul versante opposto, ma il nostro giro è già lungo e non ci sembra il caso di aggiungere ulteriore dislivello. Seguiamo dunque il sentiero n. 101, che fa un lungo giro a destra del Pizzo e diventa via via più scosceso. Superiamo delle roccette attrezzate con catene, prendiamo un po’ di dislivello e affrontiamo poi un tratto in piano, dove però è difficile correre: il sentiero in questo punto è infatti molto stretto e a tratti sdrucciolevole, bisogna prestare attenzione a dove si mettono i piedi.
Superato il Pizzo, la vista si apre alla nostra sinistra sui laghi della Val Gerola. A questo punto l’ambiente è bellissimo, selvaggio e semideserto: pochi escursionisti dalla Grassi si spingono fin qui. È zona di stambecchi, guardatevi intorno.
Saliamo faticosamente fino alla Bocca di Trona (2224 m), e da qui al Rifugio Benigni manca poco: il sentiero n. 101 prosegue ora quasi in piano, aggirando un costone roccioso e svoltando a sinistra. Perdiamo un po’ di quota e ricominciamo a salire, ma in breve siamo al Benigni (2222 m).
Da qui mancano circa 10 km e circa 2-300 m di salita, tra vari saliscendi. Per arrivare a Ca’ San Marco affrontiamo prima una ripida discesa verso il Passo Salmurano (2017 m), dove dobbiamo stare attenti a seguire le indicazioni per il sentiero n. 101 evitando di scendere a Ornica (a meno che abbiamo una sola macchina a Cassiglio, nel qual caso è proprio qui che bisogna scendere con il sentiero n. 107).
Nell\’ultima parte del percorso la fatica si fa sentire, ma il paesaggio è davvero bello. Finalmente a Ca’ San Marco (1830 m) ci aspettano birra a volontà, cibo e la macchina che ci riporterà a valle.
Sentieri Bonatti e Roma (70 km – 6200 m D+)
21 Agosto 2022 by marta • Valtellina Tags: allievi, bivacco primalpia, bocchetta del calvo, bocchetta di corna rossa, bocchetta roma, corni bruciati, dubino, gianetti, kima, monte bassetta, monte disgrazia, passo barbacan, passo cameraccio, passo camerozzo, passo di caldenno, ponti, rifugio omio, sentiero roma, sentiero walter bonatti, traversata, val dei ratti, val masino, valtellina • 0 Comments
Una lunga traversata, durissima e spettacolare, tra la valle dei Ratti e la val Masino.
Periodo: Agosto 2022
Partenza: Monastero (Dubino)
Arrivo: Monastero (Berbenno di Valtellina)
Distanza: circa 70 km
Dislivello: circa 6200 m
GPX (clic dx, salva link con nome)
GIORNO 1: SENTIERO WALTER BONATTI
Dubino - biv. Primalpia (1980 m) - bocchetta del Calvo (2700 m) - rifugio Omio (2100 m)
GIORNO 2: SENTIERO ROMA CON I 7 PASSI DEL KIMA
Rifugio Omio - Gianetti (2534 m) - Allievi (2388 m) - Ponti (2559 m)
GIORNO 3: ANELLO DEI CORNI BRUCIATI
Ponti - passo di Corna Rossa (2836 m) - passo di Caldenno (2517 m) - Monastero
Da Monastero a Monastero: una traversata che accarezzo dallo scorso inverno, quando sul monte Bassetta scoprii l’esistenza del sentiero Walter Bonatti. L’idea di partire da Monastero di Dubino, dalla casa del più grande alpinista di tutti i tempi, e arrivare a casa mia a Monastero di Berbenno, era così bella che non vedevo l’ora dell’estate per metterla finalmente in pratica. E chi poteva essere così fuori di testa da accompagnarmi, se non la mia socia omonima?
Si tratta di un giro davvero tosto, dove chilometri e dislivello non rendono la minima idea delle difficoltà. Noi stesse abbiamo sottovalutato parecchio i tempi di percorrenza, convinte che un buon allenamento e una traccia gpx fossero sufficienti a cavarcela bene e in fretta. Ma nel bel mezzo del sentiero Bonatti – un percorso selvaggio, poco segnato e ancor meno battuto – ci siamo trovate con un Garmin morto e l’altro scarico, quindi senza traccia; e l’allenamento serve a poco, quando ogni due passi bisogna fermarsi per capire da che parte andare. Avevamo calcolato non più di 8 ore da Dubino alla Omio: ce ne abbiamo messe 11!
Il sentiero Roma, che si connette con il sentiero Bonatti all’altezza del rifugio Omio, è invece terreno noto per me: si tratta di un percorso difficile ma più “addomesticato”, ben segnato e pieno di gente. Anche qui pecco di eccessiva sicurezza, calcolando i tempi di percorrenza sulla base del giro del Kima provato due anni fa, senza tenere conto dei 3200 m di dislivello positivo che già abbiamo sulle gambe e del fatto che Marta non è abituata ad arrampicarsi per roccette attrezzate. Pensavo di fare la traversata Omio-Ponti in 10-11 ore: ce ne abbiamo messe 13, arrivando giusto in tempo prima del buio.
Almeno per il terzo giorno si sperava di avere fatto bene i conti: l’idea era quella di seguire l’anello dei Corni Bruciati, passando prima dal passo di Corna Rossa, ultima bocchetta del sentiero Roma, poi dal passo di Caldenno e dal passo Scermendone, con una puntata al pizzo Bello per chiudere in bellezza e da qui per sentieri arcinoti scendere a Monastero. Mal consigliate, abbiamo seguito il “sentiero” Corna Rossa-Caldenno su orribile pietraia, impiegando più del doppio del tempo previsto. Arrivate finalmente al passo di Caldenno, eravamo talmente cotte che abbiamo saltato l’ultima parte e siamo scese dalla val Caldenno, per sentieri facili ma interminabili.
A chi volesse ripetere il giro, suggerisco di seguire il sentiero Roma dal passo di Corna Rossa al rifugio Bosio e, da qui, o scendere a Torre di Santa Maria o risalire al passo di Caldenno per proseguire con l’anello dei Corni Bruciati. La traversata su pietraia è stata davvero la parte peggiore del nostro giro e la sconsiglio.
Ecco allora la relazione della traversata.
SENTIERO WALTER BONATTI
La mattina di ferragosto, verso le 7, parcheggiamo alle scuole di Dubino in via Cappelletta e da qui andiamo a prendere il sentiero Walter Bonatti, indicato già lungo la strada. Saliamo a Monastero, dove comincia il sentiero vero e proprio. Occhio solo a un bivio poco chiaro: non bisogna salire verso le falesie, ma svoltare a sinistra seguendo il segnavia bianco-rosso. La prima tappa, che raggiungiamo in fretta su facile sentiero, è l’alpe Piazza, dove conviene fare scorta d’acqua perché fino al bivacco Primalpia non si trovano altre fontane.
Proseguiamo ora verso il monte Foffricio, l’altura che sovrasta l’alpe Piazza, e da qui raggiungiamo l’ampia cresta che ci porta al monte Bassetta (1744 m). Conviene abbandonare il sentiero, che passa sotto la cima vera e propria, e salire di pochi metri per ammirare il panorama che si apre sulla valle dei Ratti con l’inconfondibile sfondo del Sasso Manduino, oggi purtroppo immerso nelle nubi.
Fin qui tutto facile: sono passate due ore e mezza dalla partenza e abbiamo fatto quasi metà del dislivello. Non possiamo certo immaginare che staremo in ballo ancora più di otto ore, ma cominciamo a renderci conto che il sentiero è poco battuto già nel primo tratto dopo il Bassetta. Passiamo a sinistra del monte Brusada e con un traverso poco corribile, ma facilmente camminabile, raggiungiamo l’alpe Codogno.
Ci troviamo sopra il lago di Novate Mezzola e la val Chiavenna; ben presto arriviamo in vista di Frasnedo, per cui troviamo anche qualche indicazione. Da Frasnedo si passa per il giro del Tracciolino, molto bello ma purtroppo al momento inagibile.
Superiamo l’alpe Codogno (1790 m) e continuiamo a salire, mentre l’ambiente intorno a noi si fa sempre più selvaggio. Le uniche forme di vita sono capre, pecore e mucche, oltre a un paio di pastori di cui sentiamo le urla in lontananza. Trovare il sentiero comincia a diventare complicato, ma a questo punto il mio Garmin è ancora vivo e ci affidiamo alla traccia gpx, qui davvero indispensabile.
Si superano diverse bocchette, di cui mi ero anche segnata i nomi come punti di riferimento, ma non sono indicate e sapere come si chiamano è poco utile. Si tenga conto invece dei seguenti riferimenti: alpe Piempo (2050 m), bivacco Primalpia (1980 m), lago dal Marzel (2310 m). Sono gli unici punti dove si trova un cartello per orientarsi e farsi un’idea di dove ci si trova.
Passiamo per le prime pietraie, che personalmente preferisco rispetto all’erba alta, in cui le marmotte la fanno da padrone e i bolli si perdono di vista. Riusciamo comunque a sbagliare strada in diversi punti, perché le indicazioni sono minime e da queste parti non passa davvero nessuno. Sorprendentemente, invece, il telefono prende piuttosto bene in diversi punti del percorso.
Il tratto più difficile, almeno dal punto di vista dell’orientamento, è quello tra l’alpe Piempo e il bivacco Primalpia. Bisogna dapprima attraversare un pratone con rari bolli consumati dal tempo; poi arrampicarsi per un ripido canale erboso, verticalissimo, con la speranza che la discesa dall’altra parte sia meno scoscesa; infine superare un traverso, con erba alta e tane di marmotte lungo tutto il sentiero, e scendere fino al bivacco.
Al bivacco troviamo una fontana dove finalmente possiamo riempire le borracce, e un gruppo di asinelli che ci fanno compagnia mettendosi a bere con noi. Siamo incredule quando leggiamo che da qui alla Omio il tempo di percorrenza CAI è 5 ore e mezza: mancano pochi chilometri e neanche così tanto dislivello! Invece non è molto meno di quanto ci metteremo.
Il paesaggio diventa sempre più bello man mano che guadagniamo quota. Sopra i 2200 m bolli e indicazioni si fanno più evidenti, forse perché siamo in prossimità di alcune vie di arrampicata e cime importanti, per esempio il Ligoncio che dovrebbe trovarsi da queste parti.
Superato il minuscolo lago dal Marzel, continuiamo a inerpicarci tra erba scivolosa e roccette taglienti seguendo i bolli, che ora si vedono – per fortuna, perché l’orologio di Marta è scarico e il mio è improvvisamente morto senza spiegazioni. Comincia ora la faticosa pietraia che ci porterà alla bocchetta del Calvo, a quota 2700 m circa, da cui dovremmo infine cominciare a scendere verso il rifugio Omio.
Il passo sembra rimanere sempre alla stessa distanza, dalla lentezza con cui ci muoviamo tra questi sassoni di granito. Il cielo ora è bello scuro e speriamo quantomeno di superare la bocchetta prima del temporale, previsto per le 18. Noi contavamo di essere al rifugio per le 14 o le 15 al più tardi!
Il passo di per sé non è particolarmente impegnativo. Si percorre una lunga cengia, in parte coperta di erba scivolosa, che è stata messa in sicurezza con catene. Solo una è divelta, per il resto sono in ottimo stato e ci affidiamo a loro per scendere il più in fretta possibile.
A differenza dei sette passi del Kima, tenuti puliti dal passaggio frequente e attrezzati con catene dall’inizio alla fine, la bocchetta del Calvo è piena di sfasciumi che nessuno ha ancora avuto modo di far cadere e, per di più, è attrezzata solo nei tratti resi pericolosi dall’erba. In altri punti, ripidi e scivolosi per il ghiaino, dobbiamo cavarcela senza catena. Finalmente individuiamo il rifugio, lontanissimo ma almeno in vista: il temporale si sta avvicinando e per fortuna abbiamo superato la parte più pericolosa.
Ci fermiamo giusto il tempo di mettere la giacca a vento e proseguiamo il più velocemente possibile sotto la grandine battente, tra erba fradicia e lastroni scivolosi. Arriviamo finalmente al rifugio poco prima delle 18, bagnate come pulcini ma felici di avercela fatta! Per fortuna alla Omio ci permettono di mettere le scarpe ad asciugare vicino alla stufa. La birra è fantastica e la cena ancora meglio. Dormiamo il sonno del giusto e alle 7 del mattino siamo pronte per ripartire alla conquista del sentiero Roma.
SENTIERO ROMA
Ci aspettano ora i sette passi del giro del Kima, fatti in senso opposto: Barbacan (2570 m), Camerozzo (2765 m), Qualido (2647 m), Averta (2551 m), Torrone (2518 m), Cameraccio (2950 m), Roma (2894 m). Per fare il giro con calma bisognerebbe passare una notte al rifugio Allievi-Bonacossa, a poco più di metà strada tra la Omio e la Ponti, ma noi abbiamo gambe forti e soprattutto la testa dura, e siamo determinate a fare tutto in una volta.
1° PASSO: BARBACAN
La bocchetta si raggiunge senza troppa fatica dal rifugio Omio: la conosco bene per averla percorsa più volte (qui il link del giro più recente). Fate attenzione a non perdere di vista i bolli, perché ci sono sentierini alternativi molto ripidi, scavati dal passaggio degli animali. Io sbaglio sempre e anche oggi non mi smentisco, arrampicandomi per placchette e zolle d’erba mentre Marta sale tranquilla dal sentiero corretto. Di là dal passo, scendiamo con l’aiuto delle catene e ben presto ci troviamo nella fantastica val Porcellizzo.
Riconosciamo i profili del Badile e del Cengalo, le due cime più note di questa valle, che si possono raggiungere partendo dal rifugio Gianetti.
Il rifugio stesso non è troppo lontano: rabbocchiamo le borracce alla fontana esterna, che oggi troviamo aperta, e senza indugio proseguiamo verso il passo Camerozzo. La val Porcellizzo è lunghissima, ma finalmente arriviamo nei pressi della bocchetta.
2° PASSO: CAMEROZZO
Si tratta, insieme forse al Cameraccio, del passo più impegnativo, soprattutto percorso nel nostro senso di marcia: saliamo infatti con tratti di sentiero e poche facili catene fino al punto più alto, mentre molto più lunga e vertiginosa risulta la discesa. Sotto di noi si apre la val del Ferro, che con le sue enormi placche granitiche è uno dei punti più caratteristici del sentiero Roma. È anche l’unica valle dove il telefono prende bene.
Poco più in basso vediamo il bivacco Molteni-Valsecchi, un altro dei tanti punti di appoggio per chi percorre il sentiero Roma in più giorni.
3° PASSO: QUALIDO
Al passo Qualido si arriva abbastanza facilmente risalendo un ripido pendio di sfasciumi. Tra i sette, è forse il passo meno impegnativo. Si scende in val Qualido lungo una semplice cengia, di cui solo l’ultimo tratto è attrezzato con un paio di catene.
4° PASSO: AVERTA
Anche il passo dell’Averta è abbastanza semplice: ci si arriva superando un punto un po’ verticale con l’aiuto di un paio di catene e si scende senza troppi problemi nell’ampia val di Zocca, dove dovrei saper riconoscere la punta Allievi e la cima Castello, ma ancora non ho capito con esattezza quali siano.
La val di Zocca è larga più o meno quanto la val Porcellizzo e attraversarla richiede parecchio tempo. Il sentiero scende al di sotto del rifugio Allievi-Bonacossa e ci costringe a un’ultima faticosa salita per raggiungerlo. Il limite massimo che ci siamo date per arrivare all’Allievi sono le 14: dopo quest’ora, rischiamo di finire il giro con il buio. Arriviamo alle 13:59 e decidiamo di proseguire, non prima di avere acquistato due panini e quattro bottigliette di acqua frizzante (la fontana davanti al rifugio è chiusa). Abbiamo impiegato 7 ore dalla Omio all’Allievi e, tenendo lo stesso passo, dovremmo mettercene 6 da qui alla Ponti.
5° PASSO: TORRONE
Al passo Torrone si arriva da un facile, panoramico e piacevolissimo sentiero. È la prima volta che faccio questo passo in discesa e devo dire che in salita mi è sempre parso molto più semplice. Si scende per un ripido canalino, come sempre attrezzato con catene, e si perde parecchia quota addentrandosi nella selvaggia val Torrone.
Il sentiero Roma passava originariamente più in alto su ampie placche di granito. Il percorso è stato cambiato diversi anni fa, dopo un incidente dovuto proprio a una placca bagnata, ed è ora più faticoso ma sicuro. Nonostante il vecchio sentiero sia ancora chiaramente battuto, seguiamo il percorso corretto che ci fa scendere parecchio sotto le placche e poi risalire verso il bivacco Manzi e il passo Cameraccio.
6° PASSO: CAMERACCIO
È il mio passo preferito, nonché il più alto di tutto il sentiero Roma. Due anni fa lo feci in discesa e con la neve: ora ha cambiato completamente faccia, ma lo trovo sempre bellissimo. Il percorso originale è stato modificato per i crolli dovuti alla siccità di quest’anno e si passa ora sul lato sinistro della valle, seguendo i bolli più recenti e gli ometti. Risaliamo a fatica il pendio di instabili sfasciumi (molto meglio la neve!) e finalmente raggiungiamo la sicurezza delle catene, con cui percorriamo gli ultimi 100 m di dislivello che ci separano dalla bocchetta.
Dal passo si scende per facile pietraia verso la val Cameraccio. Piano piano, ma senza mai fermarci, arriviamo al bivacco Kima e cominciamo l’ultima parte del giro, che ho ben stampata in mente per averla provata di recente (qui il link).
7° PASSO: BOCCHETTA ROMA
Assomiglia un po’ al passo Cameraccio, ma è più breve: la bocchetta Roma si raggiunge dopo avere attraversato un pendio di sfasciumi davvero molto instabile, dove conviene tenere sempre la destra e seguire accuratamente i bolli fino all’inizio delle catene.
Con l’aiuto delle catene si scalano le ultime, ripide placche per arrivare alla bocchetta e, da qui, la vista si apre finalmente sulla valle di Predarossa, dal Disgrazia ai Corni Bruciati.
Scendiamo di buon passo verso il rifugio Ponti: sono quasi le 20 e siamo in ritardo per cena! La pietraia è impervia nella parte più alta, dove bisogna seguire scrupolosamente i bolli senza inventarsi soluzioni originali, perché la valle di Predarossa può riservare brutte sorprese; poi il sentiero si addolcisce e ci porta finalmente al rifugio, dove ci ristoriamo con una birra e un’ottima cena.
ANELLO DEI CORNI BRUCIATI
La mattina del terzo giorno ci avviamo verso il passo di Corna Rossa, seguendo le indicazioni per il monte Disgrazia. Il cielo è cupo ma non sono previsti temporali prima del tardo pomeriggio.
Le strade per il Disgrazia e per la bocchetta si dividono dopo la morena: seguiamo ora le indicazioni per l’ex rifugio Desio. Si risale il solito pendio di sfasciumi, qui particolarmente brutto anche perché il passaggio è nettamente inferiore rispetto al giro del Kima; la roccia è diversa, più liscia e scivolosa rispetto a quella incontrata finora. I tratti migliori, più solidi, sono sempre quelli attrezzati con catene.
Raggiungiamo il passo di Corna Rossa (2836 m) e l’ex rifugio Desio, un tempo punto di partenza per il Disgrazia, oggi abbandonato e pericolante.
La vetta del Disgrazia è purtroppo immersa nelle nubi, altrimenti la vista sarebbe spettacolare. Cominciamo la discesa verso la Valmalenco, un po’ su ghiaino scivoloso e un po’ su solida pietraia; alcune placche rosse con un grip pazzesco ci permettono di procedere un po’ più spedite, almeno in alcuni punti.
Arriviamo infine al punto in cui comincia il traverso per il passo di Caldenno, che ci è stato consigliato come “pietraia facile”. A vederlo non sembra granché e valutiamo anche la comoda alternativa di scendere fino al rifugio Bosio lungo il sentiero principale, risalendo da lì al passo di Caldenno per pratoni, ma alla fine decidiamo di fidarci e di passare dalla pietraia – che di facile, ahimè, non avrà proprio niente.
Lentamente, faticosamente, percorriamo questo instabile traverso, senza neanche poterci consolare con un bel risparmio di dislivello – l’altro sentiero, in alcuni punti, passa appena cinquanta metri sotto di noi. Fosse capitato il primo giorno, l’avremmo vissuto più serenamente, ma trovarsi davanti a una difficoltà inaspettata dopo due giorni di fatiche è davvero troppo!
Finalmente arriviamo al passo e di comune accordo decidiamo che per oggi è l’ultimo. Mancherebbe ancora il passo Scermendone, ripido per quanto tecnicamente semplice, ma davvero non ne abbiamo più. Scendiamo allora giù per la val Caldenno.
Arriviamo a Prato Isio, da dove si potrebbe raggiungere Berbenno di Valtellina; noi proseguiamo invece lungo la traversata per Prato Maslino, che sembra breve quando si passa di corsa, ma oggi è davvero infinita; scendiamo poi per sentieri a Gaggio di Monastero. Con poche speranze di potercela cavare con un autostop, ci avviamo lungo la strada a tornanti per Monastero, che giustamente è una delle meno trafficate della Valtellina (ho scelto Monastero in quanto esatto opposto di Milano). Come un miraggio, però, un’auto appare alle nostre spalle: una super nonna e due nipoti adolescenti si fanno in quattro per stringersi e permetterci di infilarci dentro con loro, risparmiandoci gli ultimi chilometri di cammino. Un enorme GRAZIE, come sempre, a chi è gentile con i viandanti!